Genitori: educare i figli tra norma e responsabilità
di Giancarlo Viganò
Educare un figlio, una figlia, mi sembra oggi un compito arduo, difficile che non penso mi toccherà più nella vita e lo dico non per la cosa in sé che continuo a pensare bellissima e auspicabile ma come un cimento al quale, io nato nel 1953 e di là delle contingenze affettive, non mi sento più adeguato.
Continuo comunque a pensare che una coppia, nel senso di due educatori – e già ho fatto con sforzo, un passo avanti contemplandola anche dello stesso sesso – che abbiano sensibilità, attitudini, praticità diverse, sia senz’altro una ricchezza e una fortuna per i figli. Di default ho sempre ritenuto che due energie dissimili potessero compensarsi, magari l’una più incline alla sfera dell’accudimento e dell’affettività e l’altra più normativa e proiettata verso esterno. Diciamo che mi apparteneva l’organizzazione familiare che identificava nelle due polarità descritte rispettivamente l’energia materna e quella paterna, vecchia di secoli e, con poche eccezioni, quasi universale. Mi sono poi ben reso conto che l’odierna società che tendiamo a definire, mutuando da Baumann, “liquida”, e la conseguente “liquidità” dei ruoli maschile/femminile, rende difficile l’attuarsi di questa sinergia. Senza volere addentrarmi in riflessioni ormai ampiamente elaborate, mi pare di voler enfatizzare la necessità, se non l’ineluttabilità che i genitori, o le figure che esercitano questo ruolo, educhino il figlio/a al rispetto di regole e norme.
Le regole sono necessarie perché indicano quali sono gli spazi entro i quali ci si può muovere liberamente e, di contro, quelli dove esistono limitazioni che infine sono quelli degli spazi altrui ovvero del terreno della civile convivenza. Il figlio/a impara a riconoscerli e soprattutto comprende che le regole sono sì necessarie ma che si possono anche trasgredire a proprio rischio e pericolo, cioè assumendosene le responsabilità e le conseguenze.
Questo è il primo grande risultato di un processo educativo: stabilire confini. Oggi, nella società del sogno mediatico che non prevede sudore né duro apprendistato, che promette fama e gloria a colpi di click, che aborrisce i tempi vuoti che poi sono anche lo spazio del pensiero, – e, annullandoli, li trasforma dunque in vuoto di pensiero – la funzione educativa è più indefinita, nel senso che l’aerea definizione dei ruoli rende incerta le figure genitoriali/educative che dovrebbero prendersi carico di questa incombenza. Questo è il punto fondamentale, in quanto l’incombenza, che è in questo caso è la versione edulcorata della parola dovere, sarebbe ancora più necessaria di prima, dal momento che anche la società nel suo complesso appare come una babele di finte libertà, confuse necessità e omologazione di anime.
Questo dovere è l’ineluttabile responsabilità del pensare un figlio come una persona e non come una proprietà, di considerarlo come unico e irripetibile, portatore della sua individualità, peculiarità, forza e fragilità, come un fiore di cui non si conosca il nome e non si sia mai incontrato nei prati. La responsabilità verso un figlio è consequenziale ad un’altra e più importante: quella verso se stessi. Come afferma C.G. Jung “i bambini vengono educati da quello che gli adulti sono e non dai loro discorsi” o come in maniera esemplare sostiene Gherardo Colombo “La questione dell’educazione è la differenza tra l’educazione all’obbedienza e l’educazione alla libertà”, l’educazione di un figlio prevede, a mio avviso, continue domande e riflessioni: – Chi e cosa è mio figlio per me? Sarà giusto e buono per lui quello che sto trasmettendogli? Riesco ad usare un linguaggio che possa accettare? Ho pazienza di aspettare che germogli? Queste, penso, sono un piccolo campionario delle tante domande che accompagnano la sua crescita che gli educatori debbono continuamente porsi in continuo aggiornamento. Sono domande di cultura e che si legano solidalmente e permeano lo svolgersi del tempo, come l’acqua che accompagna e forma l’onda, o come un tentativo di risposta che lega insieme gli accadimenti cercandone un senso più ampio, tra i tanti, il senso che ciascuno sente suo. In questo impegno c’è lo sforzo e non il dogma, la scelta e non la prassi o il costume, e soprattutto ci deve essere la spinta etica e morale di “sentirsi una goccia tra le gocce che formano un fiume” (Raimon Panikkar). Sono, in definitiva, la coscienza che l’uomo, in quanto animale sociale, deve sviluppare se non altro per potersi riconoscere, dal momento che è il mondo attorno a lui che gli indica la misura del suo valore o disvalore. C’è chi lo chiama amore per il prossimo.
Questo, a mio modo di vedere, è la vera rottura con il tanto deprecato mondo patriarcale e, perché no, maschilista. Oggi non è più necessario che sia il padre a insegnare la norma, probabilmente è diventato ininfluente il genere sessuale dell’educatore ma senz’altro è fondamentale e necessario, come per altro è sempre stato, che esista solidamente ed efficacemente questa figura. Ognuno faccia lo sforzo di educare se stesso alla complessità, per educare i figli ad affrontare un mondo complesso e per renderli consapevoli ed avvicinarli, quanto più si può, alla libertà di essere uomini e donne coscienti e, per il possibile, liberi almeno delle proprie scelte.
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