UN PENSIERO FERTILE PER MIGLIORARE TUTTE LE RELAZIONI
INTERVISTA AD ALESSIO MICELI*
*Intervista rilasciata per la rivista “Buddismo e società”, settembre 2019. Appare qui per gentile concessione
«Quando si parla di genere viene subito da pensare che ci si riferisca a questioni che interessano le donne, e si pensa meno che anche noi uomini siamo “genere”, quindi parzialità». Incontriamo Alessio Miceli presso il Centro Ikeda per la pace di Milano dopo aver ascoltato il suo punto di vista in occasione della giornata “Il sole dei diritti umani”. Una voce maschile sull’essere uomini e donne nel mondo.
Perché vi chiamate “Maschile Plurale”?
Innanzitutto perché l’elemento della pluralità racchiude l’idea che l’essere maschi o femmine siano questioni che interpellano chiunque. Non si tratta di una corrente filosofica, di una posizione partitica o di una particolare spiritualità, ma è il grado zero dell’essere al mondo. Nasciamo in corpi sessuati, e queste sessualità non sono solo una matrice materiale, ma le costruiamo culturalmente. Chi non è coinvolto dal fatto di nascere in un corpo sessuato, non fosse che per il carico simbolico che c’è su questi corpi diversi?
Poi, perché quando si parla di genere viene subito da pensare che ci riferisca a questioni che interessano le donne, e si pensa meno che anche noi uomini siamo “genere”, quindi parzialità. Il pensiero è stato costruito al maschile, da uomini e per uomini, come dire “noi siamo l’uno, voi siete la derivazione”, la “costola” che si stacca dal corpo del pensiero maschile. Quindi, maschile plurale per dire che noi siamo parzialità e che questo è un pensiero fertile, in base al quale si ripensano tutte le relazioni: intime, di prossimità, sessuali, affettive, familiari, ma anche pubbliche, di ogni genere e grado.
È importante questo riconoscimento della parzialità…
È un concetto legato al non pensarsi genericamente un individuo, una persona. L’idea dell’individualità è importante, ma può essere usata per neutralizzare le nostre specificità. Il venire al mondo e il generare non è uguale, e allora è meglio pensarla questa differenza e farci i conti, sentirla a partire da sé, piuttosto che andare a queste costruzioni neutre che normalmente tendono all’obiettivo della parità, degna nell’idea che dobbiamo avere pari accesso ai diritti, ma fuorviante se non si vede la specificità.
L’orizzonte della parità di accesso ha consentito cose che altrimenti non sarebbero successe, ma la prospettiva non è stare nel mondo degli uomini e dividerlo per due. C’è un’altra, o altre, visioni del mondo. Concepirsi parziali vuol dire valorizzare gli sguardi diversi sulle cose che viviamo e non considerare ciò che vede il punto di vista predominante e dire: una fetta di questo va alle donne.
Pensarsi parziale per un uomo è un tragitto molto diverso che per una donna. Le donne
sono abituate a vivere nella parzialità.
È vero. Dalle donne ho appreso che il percorso della soggettività femminile è stato quello di un soggetto imprevisto, e il separatismo è consistito in un trovarsi, riconoscersi, trovare parola e mettersi al mondo, visto che nel mondo le donne non erano volute. Inaugurare il proprio simbolico, la propria soggettività. All’opposto, per il soggetto che, pur non dichiarandolo, si concepisce come unico, fare “autocoscienza” è rendersi conto della propria parzialità, lavorare a “togliere” l’idea dell’universalità, di essere il soggetto che mappa il campo e definisce il mondo.
Sono proprio percorsi antitetici: di una soggettività che deve nascere e di un’altra che si deve
riconoscere non uguale al tutto ma una parzialità. È grezza l’idea che in questo riconoscimento ci sia una perdita. Non si vede quante occasioni ci sono nel relazionarsi. Essere uno di due (o più di due o cinque, quanti alcuni dicono essere i generi) vuol dire che io non sono solo al mondo, perché quella strapotenza porta con sé anche un senso di solitudine estrema. È un percorso che regala molto. È una moltiplicazione, un’abbondanza. Ti ritrovi una tavola imbandita per tanti anziché tanto cibo per uno.
È un percorso difficile?
Dipende, ci sono sensibilità molto diverse. Per me è un percorso di piacere, di felicità, di libertà. Altri vi percepiscono un senso di “conversione” da un sistema patriarcale, violento anche solo simbolicamente, poiché hanno condiviso come maschi delle “rendite di posizione” e vogliono emendarsi. Questo è un passo fondamentale, lo dico anche per me stesso: se non ci fosse il riconoscimento di questo sbilanciamento di potere di cui godiamo già per il fatto di nascere in corpi maschili, forse questo percorso non sarebbe vero. Ma la sensibilità in cui mi riconosco di più è quella del desiderio. Mettersi in termini di relazione aperta e profonda apre la mia stessa vita.
Il fatto è che nella società maschile non ci siamo mossi granché, casomai stiamo tornando indietro. Gli anni ’70 hanno dato il via, con l’autocoscienza femminista, i movimenti studenteschi e antiautoritari, il movimento Lgbt; ma adesso c’è un avvitamento più che sulla tradizione direi proprio sul dominio, un ritorno a un pensiero di possesso e di dominio maschile. E la sessualità è una frontiera calda, perché se nell’intimità pensi che la ragazza o donna a te più vicina sia oggetto di una tua supremazia, tutto quello che segue è viziato all’origine.
A volte si pensa che la divisione dei ruoli rappresenti il superamento della visione stereotipata maschile/femminile…
Se fosse tutto originato dallo sbilanciamento tra diritti e doveri, una volta risolto quello si sarebbero sanati tutti i problemi. Invece la violenza è un indice, perché ti dimostra come un termometro che le relazioni ancora scottano. Se persistono un tale livore e una tale cattiveria nei reati contro le donne, diventati più estremi, vuol dire che la divisione dei compiti e la parità dei diritti non sono il piano su cui affrontare il problema. La questione è quella della relazione, come l’uno sente se stesso e l’altra nel legame, nella relazione. Se ci sono uomini insospettabili che restano implicati in questioni di violenza vuol dire che c’è un doppio fondo, un livello più interno alla persona e alla relazione a cui, per esempio, una divisione dei compiti solo esterna non arriva.
Ci vuole il passaggio di non sentirsi più universali ma parziali.
Infatti molto spesso, quando si arriva a parlare con gli uomini che agiscono violenza, si vede
che non c’è l’erompere di un raptus di follia. Loro portano alla luce un codice di valori che fa
capo al fatto di credere che quella donna abbia deviato da un codice morale ed etico normato da millenni, per cui hanno avuto ragione a reagire. È semplicemente un apice che potrebbe riguardare chiunque si trovi in quella mentalità. O salta questa idea di un mondo pensato e poi normato al maschile, o non ne usciamo.
Cosa fate nella vostra associazione?
Facciamo una serie di azioni di natura culturale, formativa, politica, rendendo pubblico e disponibile quello che via via abbiamo acquisito a chiunque lo voglia sapere e a coloro che devono prendere delle decisioni, istituzioni e professionisti.
Il cerchio più interno è quello dei gruppi di condivisione, sia maschili che misti. È un partire da sé per incrociare gli altri, una ricerca comune di cosa sono le nostre relazioni, intime e pubbliche, dei punti comuni che possono riguardare anche altre persone.
Poi è successo che ci chiedessero di partecipare a incontri pubblici (intorno al 25 novembre
o all’8 marzo) per sensibilizzare un quartiere o parlare nelle scuole, fare formazione a operatori in ambito socio-sanitario, alle forze dell’ordine, a psicologi, a persone del circuito dell’antiviolenza, infine le istituzioni stesse ci hanno riconosciuto come interlocutore maschile sulle questioni che riguardano queste tematiche e ci interpellano all’occorrenza. Insomma si va dalla presa di parola su di sé, al discorso pubblico, alla formazione, allo scambio con le nuove generazioni, alla contaminazione con le professioni e al dialogo con le istituzioni per arrivare, da qualche anno a questa parte, anche al rapporto con centri che seguono gli uomini autori di violenza.
Di solito le reazioni sono molto buone. Quando c’è una voce di questo tipo in una stanza, che
sia uno studio di professionisti, un’aula magna di una scuola o la piazza di una città, questa voce trova sempre qualcuno che prova interesse. Ma queste azioni dal basso non hanno ancora inaugurato un vero movimento maschile. C’è un livello di schermatura, di rimozione, di diniego di questi temi, molto forte.
Il punto è arrivarci a tu per tu. Chi ha vissuto questa cosa nella sua vita ne è toccato, ma se
passa solo come informazione non procede. La comunicazione ha dunque dei limiti evidenti.
Johan Galtung dice che per ottenere una pace vera occorre rintracciare tutti gli strati della
società (associazioni, gruppi, ecc.) che possono essere interessati alla pace.
Per esempio nel vostro caso, la Soka Gakkai nel mondo di oggi è un luogo di pace, di costruzione di pace? Sì. È nelle sue fondamenta. Bene, allora se un uomo dei vostri si sente dire che la pace riguarda anche il conflitto originario tra uomini e donne, e se è davvero interessato alla pace, ecco che gli si presenta una nuova declinazione della pace, e lui può essere costruttore di pace anche su questo aspetto della relazione uomini/donne. Nella società possiamo identificare dei luoghi e dei contesti di costruzione di pace in grado di moltiplicare un’intenzione umana e politica come questa.
(Maria Lucia De Luca e Marina Marrazzi)