ERA MIA MADRE
di Mario Simoncini
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Parafrasando le battute finali di un film stupendo di Sam Mendes, Road to Perdition.
Gli inverni non sono mai freddi a Palermo, e anche in questo giorno di febbraio di tanti anni fa c’è un gran caldo e addirittura un terribile vento di scirocco che imperversa e impedisce al mio aereo di atterrare a Punta Raisi, e mi costringe a sbarcare all’aeroporto di Catania. A metà strada, mentre sono sul pullman, mi raggiunge l’autista di mio padre, ed è lui a comunicarmi la notizia che mia madre è morta.
Sono stato avvertito questa mattina stessa dell’aggravarsi delle sue condizioni: i miei mi hanno cercato all’indirizzo di Firenze dove ero temporaneamente alloggiato, ma, avendo litigato con la ragazza che mi ospitava, da qualche giorno mi ero trasferito altrove, e così sono riusciti a beccarmi solo quando è tutto finito.
In poche parole, quando arrivo a casa, lei non c’è più.
C’è il suo corpo disteso sul letto con le mani giunte come in preghiera, come si usa fare in questi casi. Ora che ci penso, mi sa che è la prima volta che mi capita di vedere una persona morta, sicuramente la prima volta di una persona a me cara. Rimango da solo nella stanza, solo coi miei pensieri che vagano come pulviscolo nell’aria, solo col mio dolore, solo con la mia voglia di piangere. C’è qualcosa di teatrale in questa scena, mi sento come un attore che obbedisce a un copione scritto da altri: la rappresentazione di un lutto che esige lacrime che però, per quanto mi sforzi, non vengono. Mi sento oppresso, oppresso da mio padre che mi ha accolto sulle scale ripetendomi “non c’è più casa, non c’è più casa”, oppresso da due vecchie zie raccolte in preghiera, dalle loro vesti nere, dal loro monotono biascicare, oppresso da mia sorella che, poverina, ha perso la mamma in età ancora così tenera e mi fa provare una pena e un senso di colpa infiniti… che fratello sono che l’ho abbandonata e non sono riuscito a proteggerla…, oppresso dall’atmosfera di questa casa silenziosa, oppresso da carezze che non desidero, da frasi che non voglio ascoltare.
La mattina dopo sono a tavola: la nostra governante ha servito il tè, ma mentre sto per portare la tazza alle labbra mi rendo conto che era mia madre a prepararmi la colazione quando ero a casa e che mia madre non c’è più, non c’è più lei a nutrirmi, che il filo materiale e simbolico che ci ha unito per anni si è definitivamente spezzato. E allora finalmente scoppio a piangere, a piangere lacrime inarrestabili e copiose, perché ora mia madre, suo malgrado, per la seconda volta dopo il trauma della nascita mi ha gettato nel mondo, ma stavolta mi ha lasciato irrimediabilmente solo.
Ricordo i miei primi passi con lei, mano nella mano, ricordo lei che mi accompagna all’asilo e io le racconto che mi sono innamorato di una certa Adriana, che chissà chi è e che fine ha fatto nel frattempo, e poi a scuola, e io che ci vado malvolentieri e invece vorrei tanto stare a casa a guardarla mentre dirige le operazioni domestiche come un inflessibile generale, e poi, dopo due anni oscuri di bambino apprensivo e svogliato, finalmente in terza elementare rifiorisco da primo della classe e le mostro con orgoglio i miei temi di italiano e i miei problemi di aritmetica premiati con voti altissimi, e poi al cinema, a vedere tanti ingenui film d’avventura come si facevano allora, e io ho già dimenticato Adriana e ora invece ho una cotta per Kirk Douglas, da quando lei mi ha portato a vedere Ventimila leghe sotto i mari, e Ulisse, dove però non capisco, e neanche lei lo capisce, perché Circe e Penelope sono interpretate dalla stessa attrice. Sante o puttane, è quello che la gran parte degli uomini pensa delle donne, oppure sante e puttane nello stesso tempo… ma questo lo imparo molto più tardi. E però sono anche irrequieto e la faccio disperare, e lei fa la spia e mi accusa dinnanzi al terribile tribunale paterno e per la prima volta mi delude. E io, che pure amo mio padre, ne sperimento l’inflessibilità e ne subisco il castigo. Ma lei a volte si sottrae alle logiche di quel tribunale e si fa protagonista di innocenti trasgressioni, come quando mi fa da complice in piccoli scherzi telefonici o quando si mette a ballare il can can scoprendo le gambe davanti alla mia nonna paterna che la guarda sorridendo divertita. Ed è serena, tutto sommato contenta della sua vita familiare, anche se ogni tanto l’assale un pizzico di nostalgia per sua madre, e soprattutto per le sue sorelle che vivono lontane e che d’altra parte un po’ la snobbano, loro così intellettuali o presunte tali, e una pure politicamente impegnata e che si dice abbia addirittura conosciuto Mao Zedong.
E poi cresco, e da adolescente scopro il potere misterioso e irrefrenabile del sesso, la voglia intrattenibile di scopare o, al peggio, di farmi le seghe, ed è tutto un rovistare tra le lenzuola alla ricerca di macchie impure, e un continuo interrogarsi su chi è questa e chi è quella, e che fa suo padre, e che ragazza è una che organizza feste a casa sua, figuriamoci, le festicciole del sabato pomeriggio con i balli lenti e i genitori che controllano a distanza, le prime timide esplorazioni, qualche stretta un po’ più audace, il fugace contatto con morbide rotondità, aliti profumati di menta, andiamo al cinema sabato prossimo?, e alle nove, nove e mezzo al massimo, tutti a casa.
E le mie storie più serie, anni dopo, ragazze che non obbediscono al tuo modello, troppo indipendenti, troppo disponibili ad accogliermi nelle loro case, nei loro letti, e io che ti sento lontana e quasi ostile, e mi piacerebbe una madre più giovane, più “moderna”. E ora che non ci sei più vorrei averti parlato di più di me, vorrei essermi messo in gioco e avere giocato con te, come da bambino, vorrei averti costretto a essermi amica oltre che mamma. Se ci fossi ancora ti parlerei del femminismo, di come mi ha reso un uomo – migliore o peggiore non so – sicuramente diverso, ti racconterei di come è bello amare ed essere amati, e che importa se lo facciamo diverso da come ci hanno insegnato, e come è bella la tenerezza di una donna, amante, amica, sorella, e come è bello stare insieme ad altri uomini e non provare invidia o gelosia o rancore, e come è bello accarezzare i figli e le figlie, e che importa se appartengono a te o ad altri, e come è bella la vita, anche quando si dimentica di sorriderci.
Che posso dire di più? A chi mi chiede di lei, a chi mi chiede che donna fosse, io do sempre la stessa risposta. Dico soltanto: era mia madre.