Un intenso racconto che è anche un capitolo estratto dal libro Trasformare il maschile. Nella cura, nell’educazione, nelle relazioni, pubblicato da Cittadella editrice nel 2012 a cura di Salvatore Deiana, Massimo Greco e l’intero gruppo Trasformazione di Maschile Plurale. Un capitolo, questo, che è anche la storia della nascita del primo gruppo maschile di condivisione in Italia: “Uomini in cammino”
La verità ci farà liberi.
Critica del patriarcato e conversione personale nell’esperienza del gruppo piemontese Uomini in Cammino
di Beppe Pavan
Tutto è cominciato così. Quando uno di noi – io, in questo caso – ha trovato il coraggio di pronunciare a voce alta parole di verità. Una verità dolorosa, perché sollevava definitivamente il velo su pensieri tenuti gelosamente nascosti e la luce ne svelava la menzogna, quella del silenzio che tarpa le ali alla relazione. Dolorosa, anche, perché un uomo diceva a una donna: “Hai ragione tu… sono io che devo cambiare”.
Tutto è cominciato così. E, dopo un pianto sincero e purificatore, la felicità ha trovato la porta spalancata. Che da allora non si può più chiudere.
La verità si è imposta. Ne sono diventato consapevole solo con il passare degli anni. La consapevolezza si è fatta strada grazie alla luce che andavo ricevendo dalla relazione con quella donna – mia moglie Carla, la donna della mia vita – e con le donne del femminismo, con il loro pensare la differenza. Non è “la” verità, bensì la “mia” verità, la verità di ciascuno, che è parziale e cambia, perciò, con il passare del tempo e con il cambiamento del corpo e del pensiero che lo accompagna. Parlare con verità, ecco il segreto: non tenerla dentro, ma metterla in parole e ascoltare quella altrui. Perché ognuno/a ha la propria, da dire.
Quando le ho detto “Hai ragione tu” dicevo esattamente le due cose: riconosco la tua verità, perché ti ho ascoltata con attenzione sincera, e te lo dico a voce alta, così da questo momento siamo entrambi testimoni della mia scelta di cambiamento e cammineremo insieme su quella strada. Non tornerò indietro.
Stavamo finalmente gestendo al meglio il solito tragico e banale conflitto tra un uomo vocato e votato all’arena pubblica, sacra missione patriarcale, e una donna che non voleva restare imprigionata nei doveri familiari e privati che la cultura patriarcale da millenni le assegnava, volente o nolente.
Io avevo trovato nelle lotte operaie e nel sindacato il naturale proseguimento della mia ormai tramontata vocazione a fare il prete. Undici anni di seminario non mi avevano domato, ma mi avevano inculcato lo “spirito missionario”, quello che non necessariamente spinge al colonialismo e al proselitismo, quanto a “occuparsi degli ultimi”.
L’unica strada che nessuno mi ha mai insegnato a percorrere è quella del farsi ultimi, perché solo così non ci saranno più né primi né secondi né terzi…
Nel sindacato – erano gli anni ’70 del secolo scorso – il femminismo era penetrato con decisione, ma restava, e resterà a lungo, e ancora lo è, cosa di donne. Dieci anni dopo, un mio timido tentativo di invitare “i compagni” a rifletterci su è stato prontamente neutralizzato dal silenzio indifferente, condito da qualche risatina di scherno, dei “compagni”.
La Comunità di Base
Terreno fecondo è stata la Comunità di Base (da qui CdB) compiutamente denominata “cristiana”. Anche lì alcune donne si erano reciprocamente invitate a liberarsi dalla presa della sottomissione al maschio pastore/animatore, costruendosi, camminando, un percorso di ricerca, di studio, di pratiche di autonomia, pur nella condivisione di una comune matrice di fede, cristiana appunto.
Ancora oggi le loro riflessioni incontrano indifferenza in parte del movimento delle CdB. Figurarsi allora! Ma finché restava “affare delle donne” non c’erano problemi: le donne si riunivano nei loro convegni e gli uomini organizzavano imperterriti gli incontri delle CdB… Da una parte le donne, dall’altra le comunità: due realtà distinte, in relazione univoca tra loro, nel senso che le ricerche e le elaborazioni delle donne ancora non interessano l’insieme delle comunità, che privilegiano ancora oggi le relazioni al maschile, gli esperti maschi, gli studi compiuti dagli uomini…
Quale non è stata la mia sorpresa quando, nell’aprile del 1993, ho finalmente trovato il coraggio di raccontare, durante un’assemblea della nostra CdB di Pinerolo, quello che andavo pensando da diciotto anni, e alcuni uomini presenti hanno accolto con favore e curiosità il mio invito a riunirci tra noi per cominciare a riflettere sulle nostre maschilità! É iniziata una crisi feconda, che oggi mi sento di sintetizzare così: gli uomini della CdB che hanno dato vita a un gruppo di autocoscienza maschile, che poi si chiamerà Uomini in Cammino, sono entrati nell’area di attrazione delle donne del femminismo e del pensiero della differenza; mentre il prete, animatore pastorale della comunità fin dal suo nascere, pur avendo contribuito, con la riflessione sul maschilismo imperante nella Bibbia e nella chiesa cattolica, alla nascita del gruppo, non vi si è mai coinvolto personalmente, offrendo anzi molti input a chi, uomini e donne, non condividevano la scelta di percorsi separatisti.
La storia recente della CdB di Pinerolo è caratterizzata da questa biforcazione delle aree di attrazione: il femminismo della differenza da una parte, il prete dall’altra. Capisco che, detto così, possa apparire superficiale e banalmente provocatorio, ma non ho a disposizione molte pagine per documentare questa mia personale lettura. Con altre parole posso dire che ci troviamo al bivio tra i due ordini simbolici che marcano culturalmente la storia dell’umanità: quello del padre, il patriarcato, di cui la gerarchia cattolica è colonna portante, e quello della madre, che le donne della comunità filosofica di Diotima ci hanno aiutato a conoscere e a riconoscere conveniente anche per noi uomini e per il mondo intero.
Ho avuto dolorosi conflitti anche con alcune donne, che ritenevano l’ordine simbolico della madre loro esclusivo appannaggio e cercavano di respingermi e confinarmi nell’ordine simbolico e sociale “degli uomini”, invitandoci calorosamente a rifondarlo. Sono passati ormai quasi due decenni e io sono sempre più convinto che sia conveniente per donne e uomini “rimettere al mondo il mondo”, e per farlo bisogna cooperare, non rinchiuderci nei rispettivi territori simbolici.
É stata Mary Daly, con il libro Quintessenza[1] a irrobustire la nostra fiducia in un possibile mondo “biofilo”, creato dalle donne del femminismo radicale e a disposizione anche degli uomini che scelgano di compiere il “salto quantico” richiesto dall’abbandono consapevole del patriarcato necrofilo, regno dell’“accademenzia”, come lei chiama l’accademia degli intellettuali che continuano a ignorare l’esistenza e il pensiero delle donne.
A sviluppare gradualmente questo ricchissimo filone di ricerca ha contribuito in modo decisivo la nascita, all’interno della CdB, di un gruppo che si è chiamato semplicemente “ricerca”, composto da donne e qualche uomo che nel 2000 hanno condiviso il desiderio di cercare una risposta convincente alla domanda: cosa c’era prima del monoteismo ebraico, in cui sembrano affondare le nostre radici?
Riane Eisler, Mary Daly e Merlin Stone[2] ci hanno accompagnato a scoprire che il mondo non è cominciato con il popolo ebraico e che il Dio maschile è stato imposto con la violenza per giustificare l’usurpazione del potere e dell’autorità delle donne, universalmente riconosciuta nella lunghissima era delle religioni della Terra e della Madre, da parte dei maschi sacerdoti della patrilinearità .
Sono innumerevoli e anche commoventi i tentativi, da parte di teologi ed esegeti, di comporre questo conflitto attribuendo al Dio biblico maschile anche le caratteristiche materne, proprie della religiosità femminile precedente e di cui nella Bibbia ebraica restano indubbie tracce[3].
Un altro filone di confronto si sta delineando: tra chi sostiene che l’impegno umano, come il cambiamento maschile, non ha bisogno della fede, perché si fonda su motivazioni puramente umane, e chi, come me, testimonia e sostiene che il cambiamento maschile è esattamente ciò che ci chiede l’invito evangelico alla conversione, pratica sessuata, come tutte quelle umane.
Ecco ancora una volta documentata la pregnanza della trasformazione in atto: è la contemporanea presenza, nella stessa comunità, di pensieri diversi, nati e cresciuti nel cuore e nella mente di uomini e donne che, accomunati/e quarant’anni fa dallo stesso desiderio di libertà di vita e di ricerca, si ritrovano oggi nelle due diverse aree di attrazione.
Dopo un lungo periodo doloroso, come quando si deve elaborare un lutto, oggi vivo questa biforcazione delle aree di attrazione con ritrovata serenità, consapevole della parzialità di ogni nostra scelta. Questo intendo affermare con il titolo che ho dato a questo scritto: la verità ci farà liberi. É una lieve parafrasi del versetto del Vangelo di Giovanni (Gv 8,32) che mi sembra particolarmente adeguato al senso di questo cammino: l’aver riconosciuto la verità delle parole di mia moglie e delle donne del femminismo e l’aver imparato a usare parole di verità per parlare di me si è rivelata strada di liberazione, anche per me, dalla sottomissione alla cultura patriarcale e agli uomini che la incarnano perpetuandola.
Uomini in Cammino
Mi sono soffermato sulla CdB, senza peraltro addentrarmi nel merito di questioni importanti, perché è il luogo in cui più di ogni altro vivo la trasformazione della mia vita. Ma tutto questo è possibile perché è un cammino collettivo. E collettiva è stata ogni decisione assunta via via, funzionale al nostro star bene in gruppo. Un po’ consapevolmente, grazie a letture e incontri, un po’ spontaneamente, il neonato Gruppo Uomini ha abbastanza rapidamente adottato alcune “regole d’oro”, come amiamo chiamarle, che si rivelano ogni volta preziose e a cui ci aiutiamo vicendevolmente ad essere coerenti.
Partire da sé, innanzitutto, dalla propria personale esperienza, dai propri pensieri, dalle proprie acquisizioni; parlare sempre in prima persona, evitando generalizzazioni indebite: la consapevolezza della nostra parzialità, individuale e di genere, ci aiuta ad essere reciprocamente attenti e rispettosi.
L’ascolto, non a caso, è la “virtù” maschile più difficile, che continuamente cerchiamo di affinare: non parlarci addosso, non interrompere chi sta parlando, ma anche, e soprattutto, ascoltare attentamente quello che dice, senza pensare intanto a come reagire. Perché non devo reagire, ma dire quello che penso io, quando toccherà a me parlare. Il vantaggio è indubbio: non c’è spazio per la polemica competitiva, ma riusciamo a dire ciò che ciascuno pensa sul tema in questione e a capire ciò che dice ciascun altro.
Naturalmente non basta ascoltare, bisogna anche parlare, prendere la parola e comunicare il proprio pensiero, per essere risorsa al collettivo. Tutti intervengono, anche i più timidi e taciturni, anche chi ha un livello di scolarità più basso: tutti hanno qualcosa da dire a partire da sé. Se si partisse dai libri letti o studiati, invece, parlerebbero pochi, e sempre gli stessi… Oligarchia e aristocrazia non sono democrazia.
Ovviamente vige un patto ferreo tra di noi: ciò che ci raccontiamo nel gruppo resta lì, non esce dal nostro cerchio. Nessuno saprà mai, all’esterno, chi ha detto cosa. Questo consolida la fiducia reciproca e lo star bene tra noi.
La riprova dell’importanza di questo patto di affidamento reciproco l’abbiamo ogni volta che un uomo bussa per la prima volta alla nostra porta. Il nostro, a differenza di altri, è un gruppo aperto, sempre disponibile ad accogliere nuovi uomini, che si avvicinano per curiosità o perché spinti dalla ricerca di un luogo favorevole alla riflessione e al cambiamento. Chi chiede del gruppo viene prima invitato a un colloquio, per dargli le indispensabili informazioni sulla storia del gruppo e sulle regole che lo vivificano. Ma anche per proteggere chi, nel gruppo, potrebbe vivere con disagio – è successo – la presenza di chi viene una volta, per curiosità, e basta: se non se ne coglie la sincerità e l’adesione alle regole, non scatta la fiducia… chi non lo conosce non si apre subito. Il disagio, quelle rare volte, è stato percepibile nettamente.
Superato questo scoglio, al “nuovo” dedichiamo l’intera riunione, presentandoci a vicenda e scambiandoci il racconto delle motivazioni personali che ci hanno portati al gruppo. La reazione pressoché unanime è di agio e benessere, da parte dei nuovi arrivati, che si traducono quasi sempre in continuità di partecipazione.
Ricadute positive nella mia vita
Per diciotto anni ho pensato, letto, rimuginato, cercato di cambiare le forme del mio stare al mondo… nell’intimità delle relazioni di coppia e familiari. Il sindacato non è stato una buona palestra di vita, nonostante la grande carica di generosità che ti chiede di mettere in campo. É e resta, per quel che ne so ancora oggi, un ambiente patriarcale, tutto costruito attorno ai tempi e alle forme maschili della competizione capitalistica. La condivisione degli impegni e delle responsabilità familiari non è materia di formazione per gli operatori a tempo pieno, ai quali si chiede, viceversa, totale disponibilità alla “missione”. Alla domenica, unico giorno completamente libero, dovevo leggere giornali e riviste, per sacrosante esigenze informative, mentre Carla preparava pranzo. Finché una volta anche lei si è seduta con un giornale in mano e, davanti alla prospettiva del digiuno, ho capito. Aveva ragione lei, ancora una volta. E quella verità, resami visibile dal suo desiderio di libertà, mi faceva avanzare, a piccoli passi, sulla strada della mia liberazione.
Ma un altro pensiero, a poco a poco, si è fatto strada: non basta, per il mondo, che io diventi un uomo migliore. Bisogna che questo cambiamento diventi collettivo, dell’intero genere maschile, perché collettiva è la responsabilità dei disastri causati dal patriarcato. Anche chi non è direttamente e personalmente colpevole di violenze e dominio, è comunque corresponsabile per il silenzio, l’indifferenza, l’omertà, il godimento dei dividendi che il patriarcato distribuisce a ogni uomo. Nessuno può chiamarsi fuori da questa corresponsabilità.
Non ci può essere un uomo che redima l’intero genere con il proprio sacrificio consapevole e volontario. C’è solo una strada di cambiamento e liberazione che ogni uomo deve personalmente percorrere nella propria vita. Può essere aiutato da una donna, da un altro uomo, da un gruppo di uomini, da una comunità cristiana, da una lettura, da un evento tragico o da una miriade di altre opportunità. Il mio augurio è che, in ogni caso, non vi opponga resistenza, privandosi della più grande convenienza che possa occorrergli nella vita: incontrare la felicità.
Dunque, il progetto femminista di rimettere al mondo il mondo avrà chances nella misura in cui, uno dopo l’altro, anche gli uomini ne faranno il senso del proprio stare al mondo. In CdB, con linguaggio biblico, lo chiamiamo “il regno di Dio”: è il regno dell’amore, della giustizia, della convivialità di tutte le differenze. Regno che si realizza nell’al di là: al di là del patriarcato, al di là dell’impero di Dio Padre, come ci suggerisce Mary Daly[4].
Da questo pensiero è nato l’invito agli amici della comunità e, via via, agli uomini con cui entravo in relazione nei diversi ambiti di vita e di impegno.
Quando sono stato assunto, negli ultimi dieci anni di lavoro, in una struttura per persone anziane, mi sono ritrovato immerso nello specifico dei cosiddetti “lavori di cura”. Mi è diventato evidente che la vita quotidiana, mia e di ciascuno, è fatta di relazioni, da vivere con cura: relazioni di cura e cura delle relazioni. Questa era la strada su cui avevo incontrato la felicità nelle relazioni più intime. Quella era la strada su cui invitare altri uomini a mettersi in cammino.
Per dieci anni, all’interno dell’associazione La Bottega del Possibile[5], nata per diffondere la cultura della domiciliarità e contrastare l’istituzionalizzazione selvaggia di persone anziane, non autosufficienti e disabili, abbiamo organizzato seminari di approfondimento e riflessione sulle relazioni di cura, imparando a considerarle delle competenze che, come tali, possono essere apprese anche dagli uomini, sfatando il mito patriarcale che le vuole appannaggio del genere femminile.
Donne e uomini in cerchio
Per il nostro gruppo è stata un’occasione provvidenziale l’invito ricevuto da un gruppo di gay, incuriosito da questi uomini che si riunivano tra loro senza dichiararsi omosessuali. Il primo scambio è stato difficile, portatori com’eravamo di pregiudizi reciproci, fondati i loro, culturali i nostri. Da allora, però, il cammino è progredito e da anni gli uomini in cammino collaborano con l’arcipelago GLBT[6] per un mondo libero dall’omofobia e dalla transfobia. E dal razzismo, dalle guerre, dalla caccia, dal capitalismo, dal dominio della finanza e da ogni pratica che impedisca il formarsi del cerchio universale tra tutti gli uomini e tutte le donne.
Dal 1996 abbiamo cominciato a stampare anche un foglio, prima mensile poi bimestrale, intitolato “Uomini in Cammino”, per metterci reciprocamente in contatto con altri uomini che, in Italia e nel mondo, stavano camminando sugli stessi sentieri di trasformazione del maschile. Ci sentivamo in buona compagnia e, contemporaneamente, facevamo conoscere la nostra esistenza.
Si è rivelato subito un piccolo fecondo strumento di contatti: non solo con altri uomini, con i quali dal ’99 cominciammo a riunirci in incontri nazionali annuali; ma anche con donne che, dalla Sicilia al Veneto alla Valle d’Aosta, potevano finalmente invitare degli uomini a parlare di differenza e di cambiamento, sottraendo i temi della violenza maschile, della prostituzione, della paternità, delle relazioni e della differenza di genere al pregiudizio radicato che fossero ancora sempre “cose di donne”.
É stata un’esperienza entusiasmante, per me, la prima volta che ad Aosta abbiamo visto carabinieri accogliere l’invito a programmare, con la Casa delle Donne, corsi di formazione per aiutare le Forze dell’Ordine ad essere più capaci di ascolto e rispetto nei confronti dei “soggetti deboli”, come spesso chiamano, nel loro gergo, le donne e i bambini che subiscono soprusi e violenze, e meno omertose nei confronti degli uomini responsabili di quei soprusi e di quelle violenze. Io, che dal ’68 avevo coltivato un sentimento di avversione nei confronti dei carabinieri, cominciavo ad aprire gli occhi su una piccola enorme possibilità: quello che era accaduto a me poteva davvero accadere a ogni altro uomo. Riceveva un altro colpo salutare il pregiudizio di essere talmente unico, anche nel peggio, da rasentare il senso dell’onnipotenza. E potevo entrare in relazione con uomini in divisa, com’è successo quando a Pinerolo è arrivato un nuovo Procuratore della Repubblica, che ha subito assunto l’iniziativa per coinvolgere tutte le Istituzioni territoriali in una presa in carico coerente dei “soggetti deboli”.
Sempre ad Aosta abbiamo conosciuto l’associazione VIRES di Ginevra, che in Svizzera si prende cura di persone – un 5% sono donne – arrestate e condannate per atti di violenza, cercando di aiutarle nel difficile cammino di cambiamento. Grazie a un semplice spostamento lessicale – non esistono uomini “violenti”, ma uomini “che commettono atti di violenza” – ho ricevuto un’altra iniezione di fiducia nella possibilità di cambiare che appartiene a ogni uomo. Così, quando una Comunità Montana del Pinerolese ha istituito un servizio di ascolto e accoglienza per donne maltrattate, abbiamo accolto positivamente l’invito a prenderci cura di uomini che avessero manifestato la disponibilità a mettersi in cammino di riflessione e cambiamento. Peccato che il finanziamento sia terminato prima che il servizio decollasse…
A Palermo ho avuto la grande gioia di vedere un gruppetto di adolescenti profondamente cambiare, nel linguaggio e nelle pratiche, grazie all’impegno formativo di una docente che lavorava non solo con loro, ma anche con altre e altri insegnanti, offrendo così ai ragazzi adulti positivi di riferimento quotidiano.
Se poi nel nostro gruppo entra un uomo che sta cercando di dar vita, con una cooperativa, a iniziative di produzione di cibo e di energia a impatto tendenzialmente zero, ecco che tra di noi si manifestano adesioni spontanee: mettiamo alla prova la nostra capacità di vivere con cura anche le relazioni con la terra da coltivare, con gli alberi da potare, con l’erba da tagliare, con l’acqua da non sprecare… Cercando, inoltre, di collaborare ad un’iniziativa che diventi anche occasione di occupazione per donne e uomini in cerca di lavoro.
La forma che spontaneamente abbiamo adottato, nel gruppo e in CdB, è quella del cerchio, in cui ognuno siede alla pari con tutti gli altri, da ogni punto ci si vede tutti e nessuno si sente in soggezione a prendere la parola; dove ogni uomo e ogni donna incarnano la propria parziale verità, senza gerarchia tra le parzialità.
Niente è stato facile, ma la convivialità delle differenze significa, per noi, non imporre e non subire: ognuno/a usa con libertà, ad esempio, il linguaggio che preferisce. A poco a poco assistiamo a una trasformazione, in senso inclusivo, del linguaggio usato anche da altri e da altre.
Più resistente è il nodo del potere, di fronte al quale registriamo abbandoni definitivi o pause sabbatiche più o meno lunghe. C’è un partire da sé che è consapevolezza coerente della propria parzialità e c’è un partire da sé che è mettere sé al centro della scena. Sempre parlando in prima persona singolare, ma con quali diversi esiti! C’è chi riesce a fare un passo indietro, per togliersi dal centro – culturalmente e storicamente occupato dai maschi – e collocarsi in un punto qualsiasi del cerchio, alla pari con ogni altro e altra; e c’è chi fa un passo “a lato”, spacciandolo per indietro, mentre in realtà si sottrae alla responsabilità dello scambio e del conflitto, mantenendo però saldamente il proprio potere, rappresentato simbolicamente dall’occupazione permanente dello stesso posto, come se il cerchio si formasse a partire da lui e con lui si chiudesse. Come se, cambiando posto, si perdesse autorevolezza…
Il cerchio si chiude?
Mia moglie mi aveva chiesto di cambiare perché il mio impegno di “missionario sociale” nel sindacato e dintorni era pressoché totalizzante. Il suo progetto di vita – e la mia teoria – prevedeva condivisione dei compiti familiari e genitoriali, per rispettare anche il suo desiderio di autorealizzazione. Quando ho riconosciuto – abbastanza presto, per fortuna – che aveva ragione, è cominciato per me un cammino di cambiamento che, come ho cercato di comunicare nelle pagine precedenti, mi ha portato a poco a poco… al punto di partenza. Gli inviti, le iniziative, lo studio, la scrittura, i gruppi… sono ormai quasi la totalità della mia vita quotidiana. Di nuovo mi ritrovo a ridurre lo spazio della condivisione dei compiti familiari.
La parzialità di genere può mettere in seria difficoltà la parzialità individuale. Gli altri uomini del gruppo l’hanno capito molto bene, a quanto pare: “Veniamo al gruppo per praticare l’autocoscienza, per il cambiamento personale. Attraverso le relazioni quotidiane il nostro cambiamento diventa messaggio e invito anche per altri uomini. Senza dover organizzare tanti dibattiti, scrivere libri, correre dovunque ci invitino… Se vuoi, vacci tu…”.
É esattamente la riflessione intorno alla quale si era costituito il gruppo, quasi vent’anni fa. Ne ero e ne resto convinto anch’io. Ma poi mi sono convinto anche della necessità di prendere la parola pubblicamente, nelle forme corrispondenti alle mie capacità, perché la violenza del patriarcato è terribile e pervasiva: non possiamo aspettare i tempi delle relazioni spontanee. In ogni paese, in ogni quartiere, devono formarsi gruppi di uomini che siano di riferimento per altri e segno di rottura con l’omertà maschile diffusa nei confronti della cultura e delle pratiche patriarcali.
Così abbiamo fatto rete con altri gruppi e altri uomini in Italia, così è nata l’associazione Maschile Plurale, così stiamo in rete con associazioni simili in tutto il mondo. Convinti che la trasformazione del maschile, il cambiamento di ogni uomo che impara a vivere con cura tutte le proprie relazioni, esercitandosi quotidianamente in quelle più intime, sia la strada maestra della prevenzione di ogni forma di violenza maschile. Basta vedere quanto pressanti siano i periodici inviti delle donne a scendere in piazza, a prendere la parola, a uscire dal silenzio, a contrastare la violenza misogina e omofobica, il bullismo e la colonizzazione delle nazioni e delle menti.
Ma non è forse tipicamente maschile questa pratica così simile all’ansia da prestazione, questo mio non saper dire di no agli inviti, questo continuare a stare sulla scena pubblica, sia pure per uno scopo altamente nobile e fortemente condiviso?
Dovrei, a partire da me, ridurre gli impegni, riequilibrare l’uso del tempo tra pubblico e privato, per dare consistenza alla convinzione che il privato è politico… Anche il mio corpo mi ha lanciato un messaggio recentemente, grazie a una amnesia globale temporanea che mi ha scollegato dal cumulo stressante di impegni, costringendomi a una breve vacanza in ospedale.
Hanno ragione gli amici del gruppo. Ma hanno anche ragione le donne che ci invitano a condividere riflessioni ed esperienze in altri luoghi, perché loro e il mondo hanno un bisogno urgente di questo cambiamento radicale delle modalità di stare al mondo di noi uomini. E ne abbiamo bisogno anche noi, per vivere in libertà e pace. Questo mi sembra essere uno spazio aperto e invitante alla mediazione maschile.
[1] Mary Daly 2005.
[2] Per un’ampia e ricca documentazione su questo passato storico vedi Merlin Stone 2011. Cfr anche Riane Eisler 1996.
[3] Franco Barbero, 1998.
[4] Mary Daly 1990.
[5] La Bottega del Possibile è un’associazione nata nel 1994 ed è impegnata nella promozione della cultura della domiciliarità. L’associazione, presente in dieci regioni italiane, intende attivare il più possibile, impegno, condivisione e responsabilità al fine di far aumentare il numero dei cittadini, enti, istituzioni, che si adoperano affinché anche le persone in difficoltà possano rimanere nel contesto significativo rappresentato appunto dalla loro domiciliarità, ricevendo il sostegno di cui hanno bisogno (www.bottegadelpossibile.it , accesso verificato agosto 2012).
[6] Vedi nota 14 a pag. 39.