Pubblichiamo oggi un testo su Renata Fonte, giovane attivista salentina uccisa dalla mafia negli anni 80. Ieri ricorreva il trentaduesimo anniversario della sua morte. È un articolo in forma di racconto autobiografico scritto da un suo conterraneo che fa parte della nostra rete.
Chi ha ucciso Renata Fonte, ragazza del Sud?
di Gianluca Ricciato
Pubblicato originariamente su La Bottega del Barbieri nella sezione Scor-date
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«È strano come un piccolo paese con un pezzetto di mare
e quattro casette bianche addormentate al Sole
bastino a placare un animo inquieto e a dissolverne le pene.
È per questo che qui mi precipito da anni, ormai,
quando mi pare di non reggere più alle continue prove della vita,
alle disillusioni, alla tristezza.
Qui sono al sicuro, mi ripeto, fuori dal mondo,
protetta quasi come ai tempi in cui erano gli altri
a decidere per me, a difendermi dalle contrarietà»
Renata Fonte
(inedito – ora riportato in «Nostra Madre Renata Fonte»,
di Ilaria Ferramosca e Gian Marco De Francisco, 001 Edizioni, 2012)
Alla fine degli anni Ottanta, «Telefono Giallo», la famosa trasmissione condotta da Corrado Augias, dedicò una puntata intera al caso dell’omicidio di Renata Fonte, 33 anni, assessora alla cultura del comune di Nardò, provincia di Lecce – in quota Partito Repubblicano – assassinata il 31 marzo 1984 da due sicari per conto del suo compagno di partito Antonio Spagnolo, «per motivi futili e abietti», come scrisse la Corte durante la sentenza del processo.
Oggi, al contrario di allora, la prospettiva storica post-Tangentopoli ci permette di dire con una certa dose di probabilità che fu un omicidio di mafia, poiché la Fonte si batteva contro l’approvazione di un piano regolatore che avrebbe distrutto la zona di Porto Selvaggio (oggi Parco Naturale, in territorio di Nardò) a favore della speculazione edilizia che avrebbe portato un sacco di miliardi di lire a un imprenditore locale, attraverso la distruzione della macchia mediterranea e la costruzione di un villaggio turistico. Il nome di questo imprenditore ancora oggi non si conosce e la verità giudiziaria si è dovuta fermare a questa soglia o, come si dice, a questo livello.
Una cosa che salta subito agli occhi sono infatti i livelli, cioè la struttura piramidale utilizzata per commettere questo omicidio: il primo livello dei due sicari, il secondo livello dei due intermediari, il terzo livello del politico “di fiducia” Spagnolo, il quarto livello, e forse anche il quinto e il sesto, che rimangono avvolti nel mistero. Tutti uomini, maschi, abituati a ragionare per interesse personale e con il linguaggio della sopraffazione e delle pistole, abituati alla gerarchia, che è il linguaggio della mafia, ma anche del fascismo e delle forme di potere in generale.
Tutti contro una donna, Renata, che ragiona in termini di collettività, si fa in quattro a casa per portare avanti la vita quotidiana, il marito, le figlie, lavora a scuola, ha vissuto per anni fuori dal Salento e quando legge chiaramente gli attacchi al suo territorio, da parte del torbido letamaio di interessi politico-mafiosi, torna e si fa in quattro anche nella società, fa informazione su Radio Nardò1, si iscrive al Pri dove militava il suo prozio, Pantaleo Ingusci, il primo che riuscì a tutelare negli anni Sessanta la zona di Porto Selvaggio, in quel periodo passata da proprietà feudale a luogo pubblico di frequentazione naturalistico-balneare.
Ma non è solo questo. Renata è l’impegno politico e sociale, ma anche l’amore per la vita, la bellezza, la natura, l’arte: infatti dipinge, scrive poesie e riflessioni, come quella che ho riportato all’inizio di questo articolo. L’arte, la natura, l’impegno, queste cose inutili e anche un po’ fastidiose – come sono fastidiose le donne del resto – sono i primi bersagli, sono i pericoli principali del “nuovo” potere maschio-capitalista alle soglie del terzo millennio.
Il nuovo Sud uscito dalla desolazione, o presunta tale, della civiltà contadina, nel dopoguerra è diventato riserva militare del sistema, il luogo dove lasciare crescere i teppisti da arruolare come pesci piccoli nella mafia o come pedine da battaglia da mandare nelle guerre umanitarie, da lasciare senza cultura, senza storia – anzi quella storia va cancellata, e meglio anche se si cancellano la sua natura, la sua bellezza, il grande senso di vita e di armonia che i territori della Magna Grecia da sempre regalano ai loro abitanti e ai loro visitatori.
Brutta storia, il capitalismo in forma di società segrete, che invase negli anni Settanta la mia terra. Cerchiamo sempre di raccontarla, di renderne conto, ognuno a suo modo, ma sembra che non sia mai abbastanza, sembra sempre alto il rischio di ricadere nella retorica della “legalità”, nel moralismo dei “buoni scout” amanti del bene, dell’integerrimo e onesto cittadino che odia i disgustosi criminali. Non è una storia di criminali da strada e fare i moralisti è solo controproducente, secondo me. Qui è questione di un orrendo sistema di potere che è il sistema in cui sono immerse le nostre vite, di tutto l’Occidente e di tutti i suoi Sud colonizzati e martoriati, sono le storie delle sue persone, delle esistenze individuali. Sono le storie di tutti i popoli, anche quelli del Nord che vennero spazzati via dalle pianure e dalle montagne per far fiorire il capitalismo industriale.
Brutta storia, ma raccontata in modo bellissimo da «Nostra Madre Renata Fonte», un fumetto di Ilaria Ferramosca e Gian Marco De Francisco, appena pubblicato per i tipi di 001 Edizioni. Storia narrata attraverso la voce disegnata delle due figlie, Viviana e Sabrina, e dell’amica Claudia, compagna di lotte di Renata. Narrata nel minimo della vita quotidiana, dell’amore per le sue persone e per la bellezza che aveva Renata, che è veramente quello che conta, il motore che spinge ogni persona a far vincere la sensibilità e l’amore contro lo schifo di cui ci riempie ogni giorno questo stato di cose.
Lo schifo che avevano dentro i My, i Durante, gli Spagnolo, e tutti quelli che hanno ucciso Renata – e non solo lei – rappresentati in questo fumetto in modo duro e diretto ma essenziale, che colpisce e spiega la vicenda senza fronzoli sensazionalistici, perché non è lì il cuore vero e pulsante di tutta questa storia. Il cuore è e sarà sempre qui a Porto Selvaggio, in questo pezzo di terra e mare dove vive ora l’anima di Renata Fonte e che non può essere descritto con le parole – già i disegni riescono a rendere un po’ di più.
Dicevo, all’inizio, della puntata di «Telefono Giallo». Il mio primo ricordo di Renata Fonte è appunto quella puntata di Augias, era l’ottobre dell’89, avevo tredici anni. La televisione parlava di un efferato delitto compiuto a meno di quindici chilometri da casa mia, nei confronti di una donna che aveva più o meno l’età dei miei genitori. C’erano ospiti delle mie parti, il giornalista Carlo Bollino che aveva appena scritto «La Posta in gioco», la prima inchiesta pubblica sul mistero dell’omicidio Fonte, da cui venne tratto anche un film. Questa donna aveva salvato Porto Selvaggio dalla distruzione, cioè il posto di mare dove ogni Ferragosto io andavo con i miei parenti a fare il pic-nic estivo e i bagni fino alla sera, a giocare sotto la pineta, e poi i più temerari prendevano la scalinata che dalla baia porta su, alla Torre dell’Alto, la vedetta cinquecentesca dei Vicerè, che in quegli anni era ancora aperta e si poteva entrare e dalle finestrelle a strapiombo spiare il mare azzurro di agosto, le barche vicine e lontane, le nuvole e il Sole, l’incredibile cuore del Mediterraneo in cui siamo nati. Il giorno più bello dell’anno, insomma.
Come Renata, anche io mi rifugio continuamente a Porto Selvaggio, anche d’inverno quando è meno popolato, e quando sono lì anche io mi ripeto «qui sono al sicuro, fuori dal mondo». Mi ripeto da sempre queste stesse identiche parole, anche se le ho lette per la prima volta qualche giorno fa, nel fumetto dedicato a lei. Lo faccio sempre, anche nei periodi in cui sono lontano dal Salento ed è il primo posto dove vado quando torno. Perché lì è la mia salvezza dal capitalismo, dal traffico insensato, dallo stress dell’Occidente sull’orlo di una crisi di nervi, dalla violenza delle parole e dei fatti, dalle mie nevrosi, dal cemento e dalle miriadi di villaggi turistici costruiti in questi trent’anni dai servi del capitale, laddove non c’è stata una Renata Fonte a impedirlo. Proprio lì, sul belvedere dove oggi c’è una targa dedicata a lei e una sua poesia, lì dove si vede dall’alto la Costa Jonica, da Gallipoli fin quasi a Taranto. E mi dico sempre che per difendere un luogo che mi ha dato la vita e tante volte me l’ha anche salvata, in fondo, potrei anche morire. Ma forse dovrebbe finire questo lungo periodo storico in cui le vite umane si devono sacrificare per salvare le cose più belle che esistono sulla Terra.
Ciao carissimo, grazie della poesia e della testimonianza