C’ERAVAMO TANTO AMATI
di Mario Simoncini
Spenta è d’Amor la face, il dardo è rotto,
e l’arco e la faretra e ogni sua possa,
poiché ha morte crudel la pianta scossa,
a la cui ombra cheta io dormìa sotto.
(Barbara Torelli, poetessa ferrarese tra i secoli XV e XVI)
Ma che cos’è questa nostalgia che mi avvolge come una densa nebbia autunnale? Che cosa sono queste lacrime che mi scorrono lungo il viso come una pioggia sottile? Che cos’è questo ricordo che si impone implacabile e mi toglie il respiro? Perché non te ne vai, perché continui a perseguitarmi, perché non scompari una volta per tutte? Perché, perché, perché, quanti perché….un solo perché. Perché tanti anni, decenni, sono passati e ti amo ancora, ancora ricordo il tuo viso, i tuoi capelli biondi, il tuo corpo normanno, forte, solido, leale. Ricordo le tue gambe, le tue cosce avvinghiate al mio bacino, il sapore asprigno della tua fica, ricordo la profondità della tua voce, la saggezza dei tuoi gesti, la dolcezza del tuo respiro che si mescolava al mio, i nostri baci, le nostre lingue intrecciate guizzanti come serpenti.
Lo sai che vengo a trovarti quando sono a Parigi, in quel piccolo cimitero di Passy dove riposi da anni? Mi chiedo se mi vedi, se ti accorgi della mia presenza, se ascolti le mie parole. Ti racconto di me, delle mie giornate, degli incontri che le caratterizzano, ti racconto di amori e amicizie, di soddisfazioni e di fallimenti, ti racconto della vita, della vita che troppo presto ti è stata strappata. Come in quella canzone dei Nomadi, lunga e diritta correva la strada, forte il motore cantava, che sembra scritta per te, per te che non hai fatto in tempo ad ascoltarla.
Ti ricordi quando ci siamo conosciuti? Ero da poco a Parigi, avevo preso l’abitudine di fare colazione in quel caffé in Place Contrescarpe e là ti incontravo ogni mattina, seduta allo stesso tavolino, e mi chiedevo come fare a conoscerti, che parole usare per il primo approccio. Poi, una mattina tu non c’eri e io venni preso dalla paura che te ne fossi andata via da Parigi. Magari è una turista che adesso è ripartita e non la vedrò più, pensavo, e mi maledicevo per le mie esitazioni e la mia timidezza. La mattina dopo, invece, eri là come al solito e lo scampato pericolo mi diede il coraggio di rivolgerti finalmente la parola. Ieri non c’eravate, ti dissi usando il voi, perché allora in Francia usava così tra sconosciuti anche se appena ventenni, e tu, anziché mandarmi al diavolo per la mia indiscrezione, mi rispondesti che eri stata a un’assemblea a Nanterre ed eri rimasta a dormire là. Ci informammo reciprocamente sulle nostre vite e sul perché fossimo là, in quel caffé, e soprattutto, questo mi interessava in particolare, mi facesti capire che ti piacevo, che ti ero piaciuto fin dal primo sguardo e che prima o poi, se non mi fossi deciso, saresti stata tu ad abbordarmi.
Che mesi meravigliosi abbiamo passato insieme, il nostro privato che si intrecciava con la Storia, anche se allora non lo sapevamo, una Storia che avanzava tortuosa ma decisa, e nulla sarebbe più stato come prima. Ribelli eravamo, contro la generazione dei padri, contro le istituzioni, contro il potere dovunque fosse. Tu tra l’altro eri insofferente nei confronti di tuo padre, ricco e borioso avvocato parigino, mentre coltivavi come una pianta preziosa e delicata l’amore per tua madre, che dipingevi, lei con la sua grazia aristocratica, vittima e complice, da proteggere e incitare alla rivolta. E discutevamo continuamente, di tutto, in riunioni piene di fumo e di adrenalina, tu da protagonista, accesa nel volto e nelle parole, io un pò in disparte, petit italien capitato per caso in mezzo ad avvenimenti più grandi di me. E mi chiedevo come mai tu, corteggiata da uomini che poi sarebbero diventati famosi, almeno nella nicchia degli intellettuali parigini, e che facevano a gara per portarti a letto, ti fossi innamorata proprio di me. E tutti quei film visti insieme nei pidocchietti del Quartiere Latino, e le cene nei bistrot, e il nostro coccolarci nella camera da letto all’ultimo piano di Rue Tournefort, affacciata sui tetti della città come in un film di René Clair, e le nostre parole e i nostri silenzi, e i nostri piani per il futuro, l’illusione di stare insieme per sempre, di non lasciarci mai. E poi i cortei, gli scontri con la polizia, le barricate, il fumo dei lacrimogeni: ma ho veramente vissuto tutto ciò o è stato solo un sogno?
E io imparavo nel frattempo, imparavo da te l’antica saggezza delle donne, lezioni poi in parte dimenticate come da grandi si disimpara quel pò di greco o di latino che ci hanno somministrato a scuola, e poi riaffiorate alla memoria grazie ad altri incontri, ad altre relazioni. Una volta che eri di cattivo umore e mi desti una rispostaccia a non so quale mia osservazione, reagii con uno schiaffo. Tu prontamente mi desti un pugno sul naso e mi dicesti: ti è andata bene, perché se anziché essere una ragazza sportiva di un metro e settantasette per sessantacinque chili, fossi stata più bassa di dieci centimetri e più leggera di dieci chili ti avrei direttamente buttato fuori di casa… dunque accontentati del pugno sul naso e non farlo MAI PIU’.
Mi chiedo cosa saresti diventata, forse una filosofa femminista come Elisabeth Badinter che ha solo pochi anni più di te, o magari un’insegnante o una dirigente statale, oppure saresti venuta con me in Italia a fare non so che. E io, cosa sarei diventato di diverso accanto a te? Un uomo migliore o peggiore? Sarei stato più tenace nel perseguire altri obiettivi? O al contrario ci saremmo lasciati, vinti dalla noia o dalla gelosia o dalla reciproca ripulsa? E tutte le altre, quelle venute dopo, tante, troppe, ci sarebbero state comunque, e le avrei tutte confrontate con te, come ho fatto in questi anni?
Ma occorre sempre e comunque fare i conti con la Storia: in parte, in molto piccola parte la costruiamo e però per lo più siamo costretti a subirla, e allora diciamocela tutta, siamo una generazione sconfitta, ingabbiata tra l’impotenza di una sinistra che ha ceduto alle sirene del neoliberismo e le contorsioni di un’altra sinistra, che si autoproclama antagonista, priva di radicamento sociale e ripiegata sui propri opachi rituali. Certo c’è il femminismo, ci sono, per meglio dire, i femminismi, vitali a loro modo quando riescono a trovare ascolto, ma forse nient’altro che oasi in un deserto fatto di discriminazione, sopraffazione e violenza. Lo so, c’è molto, forse troppo pessimismo nelle mie parole, e mi immagino che tu pensi di averla scampata bella, sottraendoti – anche se non per tua scelta – a questo panorama così tetro e funesto… chissà, se tornerò a scriverti domani sarò più ottimista, oggi è andata così. Riposa in pace, amore mio.
grazie, Mario, per avermi raccontato tutto questo di te.
sul prossimo UinC ti dedicherò un mio pezzo…
Beppe
Grazie Beppe, per avere “sopportato” la mia impudicizia. Aspetto il tuo pezzo su UinC.
Non c’è un preciso perché a questo mio commento, la storia colpisce al cuore e nella memoria; frammenti di vita vissuta tornano in superficie dalle profondità del tempo e come bellissime ninfee, schiudono i loro petali candidi alle amarezze del presente.
Il circolo delle donne non si può fare.. così come i tavoli di discussione, tutto resta imprigionato fuori da questo tempo che non lascia spazio alla fantasia. Dietro le sbarre di un istituzionalismo imperfetto, ma comunque efficiente, si cala il presente come un vecchio sipario in un teatro di periferia.
La commedia dell’amore si compiace di se stessa e della sua funzionalità al logorio quotidiano, mentre l’associazionismo femminile, puntellato su ruoli gerarchici e su un professionismo degno di un’azienda, sembra voler dimenticare la vastità delle esistenze.
Così in questo tempo mansueto procediamo passo dopo passo, giorno dopo giorno, sempre più incasellati, sempre meno arrabbiati, perché la rabbia fa male ed è insopportabile…
Sono come una piccola formica, che perduto il senso della storia, si muove senza un perché.
Le periferie italiane, campagna urbanizzata, dove si è imparato a misurare il senso di civiltà col denaro; in questi spazi retorici dove l’ideale della fratellanza è scomparso, viviamo come monadi di un puzzle metamorfico. Grazie per avermi ricordato che l’amore esiste.
Cara Francesca, le tue parole sono molto belle…. provo a darti una sorta di restituzione: da un lato mi viene in mente quanto scrisse anni fa Moravia a proposito del sentimento d’amore, sul suo persistere anche quando una relazione è finita. Sono d’accordo, anch’io sento che i miei rapporti d’amore sono ancora là, in uno spazio non ben definito che tuttavia mi appartiene. Dall’altro lato, nel caso di questa mia importante storia d’amore conclusasi tragicamente, c’è forse il richiamo di una giovinezza in qualche modo eterna, non corrotta dal tempo. Un puzzle metaforico anche questo.