Negli ultimi mesi le nostre vite sono state profondamente sfidate dal diffondersi di un microscopico virus. Tutto il mondo si è dovuto adattarsi, rallentare, fermare, prendersi cura dei propri malati. Che significato diamo a quanto è successo?
Molti leader politici, amministratori, giornalisti, commentatori e perfino medici per interpretare la situazione che vivevamo hanno riproposto il tradizionale linguaggio bellico. Ci hanno raccontato che eravamo impegnati in una “guerra” senza quartiere contro un nemico invisibile. Che i medici erano in trincea e che dovevamo fare fronte comune per sconfiggere il virus. Queste metafore guerresche e machiste non segnalano solamente la povertà del nostro immaginario e del nostro linguaggio politico ma ci ostacolano nella nostra capacità di misurarci con la sofferenza, col lutto, col senso di impotenza, insomma con la nostra vulnerabilità e la nostra reciproca interdipendenza. Oggi, più ancora di ieri, non siamo chiamati ad armare gli eserciti, a imbracciare le armi e fare terra bruciata ma a promuovere la salute, educare alla responsabilità e all’igiene, a dare sollievo alla sofferenza, a promuovere la dignità dei malati ma anche degli operatori e delle operatrici medico sanitari che devono potere lavorare nelle migliori condizioni possibili e non essere obbligati ad atti eroici in una precarietà di risorse, dispositivi, protocolli, contratti e riconoscimenti.
Certamente in questo frangente tutti ci siamo scoperti vulnerabili. Tutti siamo stati spinti a riconoscere quanto dipendiamo dagli altri. Non solo coloro che si sono ammalati e sono stati preso in carico da medici e infermiere. Ma anche coloro che sono stati fermi e in quarantena. In un caso o nell’altro non abbiamo smesso di dipendere da un’infinità di persone, soggetti, servizi, organizzazioni, tecnologie. Quante cose hanno dovuto continuare a funzionare affinché potessimo trascorrere in sicurezza la nostra quarantena o la nostra convalescenza: il cibo, l’acqua, le medicine, l’assistenza, le mascherine, l’informazione, le pulizie, la raccolta dei rifiuti, le poste, le banche, gli ospedali, l’energia. Normalmente non ci pensiamo perché tutto questo ci appare sicuro e lo diamo per scontato. Ma nell’emergenza tutto il tessuto di relazioni e scambi, normalmente invisibile si è rivelato ancora di più nella sua importanza fondamentale.
Certamente pur nella comune vulnerabilità, sappiamo che le diseguaglianze non sono sparite. Diseguaglianze di risorse, di relazioni, di lavoro, di contratti, di diritti, di riconoscimento. Si pensi ai precari, ai stagionali, ai turnisti. Si pensi anche al riproporsi della violenza domestica. D’altra parte, forse per la prima volta, è emersa con forza la straordinaria importanza del lavoro di cura: infermieri/e, operatori e operatrici socio-sanitarie (OSS), addetti/e alla pulizia improvvisamente sono uscite dal cono di invisibilità e hanno ricevuto da più parti un riconoscimento pubblico. E dentro le mura di casa? Molte donne in Italia hanno fatto Smart Working e lavoro di cura, domestico, relazionale, ma anche un lavoro educativo, in maniera ancora più estesa che nel periodo normale. Di fronte alle scuole chiuse, ai servizi fermi. In che misura come compagni o padri siamo riusciti a condividere veramente questo lavoro di cura e abbiamo approfittato di questo spazio per dedicarci alle relazioni?
Insomma, cosa è stato questo momento per noi? Per noi occidentali (maschi e bianchi), abituati a vite frenetiche, a impegni senza sosta? Da produttori di ricchezza e consumatori compulsivi, siamo stati costretti a casa alle prese con tempi vuoti, attese, forse anche noia, ascoltando l’eco potente del silenzio che ci raggiungeva dalle nostre città semideserte. Abbiamo sperimentato, da uomini e donne da tempo immersi nel gioco virtuale degli smartphones e delle reti telematiche, l’urgenza dei corpi, dei contatti, degli abbracci e dei baci anche solo delle conversazioni in presenza. E nell’obbligo di distanziamento sociale abbiamo fatto i conti con le distanze, i silenzi, le nostalgie, i desideri irrealizzabili o i commiati mancati.
Cosa abbiamo imparato da questa esperienza? O meglio cosa vogliamo imparare mentre ci auguriamo che man mano la vita e le relazioni possano ritrovare la loro pienezza di espressione? Riusciremo a riprendere in mano le nostre esistenze in un’accettabile dimensione di comunità, ad approfittare per ripensare almeno in parte le nostre abitudini e stili di vita, a praticare accoglienza, a dare valore alle relazioni e alla cura, di sé, degli altri, dell’ambiente, a dare senso e spessore differenti al nostro uso del tempo?
Affrontare e misurarsi con le reali difficoltà e disagi che emergono nelle nostre relazioni ed esperienze quotidiane, costituisce per noi uomini anche un’opportunità di cambiamento, di maturazione e di libertà.
Come possiamo immaginare la nostra vita e le nostre relazioni al di fuori di un’ottica e di un modello sessista? Che gioco possono avere le nostre aspirazioni, i nostri desideri, se iniziamo a misurarci liberamente con le diverse soggettività? Con prossimità e distanze, con somiglianze e differenze? Riusciamo a prefigurare questo passaggio di civiltà a partire dal nostro quotidiano?
Cosa significa per noi testimoniare che la violenza non è un destino né per le donne né per gli uomini e che mettere al mondo nuovi modi di essere uomini e padri è il più grande dono che possiamo fare agli altri, a noi stessi e alle generazioni future?
Cosa cambia se come uomini e come padri mettiamo al centro delle nostre relazioni il riconoscimento della vulnerabilità, dei bisogni e dei desideri di ciascuno, anziché l’ossessione per il controllo e l’autocontrollo?
Se ripensiamo il nostro corpo e il nostro sesso non come un’arma da scaricare ma come una soglia che si sporge a incontrare un altro desiderio?
Se proviamo a metterci in ascolto dei nostri diversi vissuti e bisogni, accettando la fatica del confronto e del conflitto anziché delegare ad “uomini forti” e ad esperti per trovare una via d’uscita?
Se testimoniamo un’idea di politica fondata sull’incontro e la convivenza tra diversi, anziché sulla chiusura e l’odio verso le alterità prossime e distanti?
Se ripensiamo l’economia e il lavoro in termini di cura, condivisione, manutenzione e benvivere quotidiano anziché in termini di crescita dei profitti e di sviluppo illimitato?
In questo contesto e in questo momento la riflessione tra persone e gruppi di uomini e di donne impegnati nei territori per le trasformazioni della maschilità e delle relazioni tra i sessi, deve alzare lo sguardo e fare un salto di qualità per riportare al centro dello spazio pubblico idee e principi differenti come il rispetto della vulnerabilità, il riconoscimento dell’interdipendenza, la valorizzazione delle soggettività, l’importanza della cura.
Con questo obiettivo vogliamo organizzare per l’autunno – garantendo le opportune condizioni di sicurezza – un incontro pubblico nazionale a Roma sulle trasformazioni del maschile e delle relazioni tra diversi sessi ed identità sessuali, nel contesto della crisi multiforme che stiamo vivendo. In linea di massima pensavamo di organizzare l’incontro attorno a quattro diversi tavoli di discussione:
1) Il clima delle relazioni: uomini e donne nella crisi del nostro tempo;
2) Sessualità e desiderio maschile (tra libertà, colonizzazione e consumo…);
3) I linguaggi della violenza: nella politica, nei media, in casa e nella vita quotidiana;
4) L’impegno di cura e il desiderio di nuove paternità.
In vista di questo incontro nazionale, invitiamo i gruppi, le associazioni e le realtà locale a promuovere momenti di discussione e di proposta e a inviarci idee e suggestioni per costruire una convocazione ampia e condivisa. Rimaniamo in contatto e in ascolto….
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