di Gian Andrea Franchi
Esiste un tipo di pratica politica in cui la cura appare essenziale con maggiore evidenza che in altre. E’ la pratica politica che si addentra fra gli ultimi della terra. Parlo dei ‘rifugiati’ (in senso lato, non strettamente giuridico) e dei migranti ‘clandestini’: definizioni che dicono tutto. Questione, insieme, d’estrema attualità e strutturale rispetto allo stato del mondo.
Va subito sgombrato il campo da ogni risvolto caritatevole, assistenziale, oblativo. Certo, queste persone necessitano letteralmente di tutto: dal cibo ai vestiti alle medicine. Ma non è questo il punto.
Il punto politico è costruire delle situazioni collettive in cui costoro che sono stati annientati sul piano identitario, sia esistenziale, che culturale che giuridico – ridotti alla ‘nuda vita’, al mero bisogno di sopravvivere –, nel mentre agiscono per ottenere diritti da parte dello Stato, ritrovino o trovino un senso che non può che essere insieme profondamente personale e profondamente politico.
Ecco allora che la pratica politica con queste persone diventa costruzione collettiva di singolarità: non d’identità, che si contrappongano ad altre identità ma di una percezione di se stessi attraverso il riconoscimento dell’altro come fondamento del sé. Nel contesto della migrazione, ciò si vede allo stato puro: persone che hanno perso tutto, ma che hanno alle spalle una cultura denegata, una storia, sempre drammatica, spesso tragica, spesso terribile; che hanno salvato la vita, ma che sono abbandonati in territorio estraneo; appena tollerati, in alcuni luoghi come in quello in cui vivo, grazie a un continuo intervento politico di base; altrove nemmeno tollerati: mentre scrivo sono ancora freschi i miserabili proclami dei cosiddetti ‘governatori’ di Lombardia, Veneto e Liguria e permane lo squallido scaricabarile europeo. La crisi generale d’identità culturale provoca reazioni identitarie. La paura è sempre stata fondamentale arma di governo.
In questa situazione, si può vedere in atto la politica (nel significato positivo: politica di liberazione) nella sua forma elementare ed essenziale: la costruzione di soggettività che riconoscono il senso dell’esistenza nell’esser-in-relazione (o nell’esser-in-comune), nell’uguaglianza in dignità delle differenze. Ciò va costruito giorno per giorno e implica un’attività capillare in quotidiano conflitto con la pervasiva cultura androcentrica dell’individualismo possessivo.
Si capisce che senza questa attività fondamentale, che è anche pensiero, pensiero dell’altro, non esiste una politica di liberazione, ma solo la ricerca di un’altra forma di potere, come è stato del comunismo storico.
Tutto questo io l’ho visto in atto fra i rifugiati di Pordenone. Non per caso ma essenzialmente sotto l’impulso di una donna, Luigina Perosa, che ha messo a frutto politico in maniera semplice e chiara una tradizione femminile di cura che deve anche riguardare le mille cose quotidiane, materiali e burocratiche, di cui ha giornalmente bisogno un essere umano gettato qui dopo un tragitto di mare o di terra sempre a rischio della vita; ma che, soprattutto, cerca di cogliere nella massa il singolo con il suo nome, i suoi occhi; lo spinge a raccontare la propria storia, lo mette in grado nella misura del possibile di acquisire quella stima sociale di se stesso senza di cui non si può vivere.
E’ una tradizione storicamente subalterna, come è ovvio, delegata dall’uomo, ma senza di cui la vita non può vivere, non può riprodursi. E’ stato un arcaico fondamentale passaggio storico, per cui quella cura della relazione senza la quale la vita non nasce né si continua, ma al massimo si mantiene in una miserabile sopravvivenza, è stata delegata alla donna, a colei attraverso il cui corpo si riproduce.
Questo oggi può, e deve, essere svincolato, liberato, dai suoi limiti storici subalterni per raggiungere il cuore di una pratica politica pensante. Viviamo in una situazione generale in cui le condizioni sociali, diverse nei diversi paesi ma con evidenti tratti comuni, spingono a partire dal ‘basso’, a costruire forme di socialità alternativa nel luogo in cui uno vive o vuole vivere; mentre, come è noto ed evidente, il ‘locale’ è divenuto un ricettacolo dello stato del mondo, mostrando che solo partendo da lì si può affrontare in maniera pensante ed efficace l’altrove: ciò che riguarda la condizione umana sulla terra (e anche la terra stessa, oggi).
Le grandi migrazioni odierne, destinate irreversibilmente a crescere, sono il frutto perverso di due secoli di colonialismo e delle più recenti devastazioni mediorientali, africane, asiatiche, per opera degli attori di una civiltà che nel nome della merce, del profitto e del denaro, ha prodotto una catastrofe dopo l’altra e ancora continua. Sono la manifestazione più caratteristica ed evidente dello stato del mondo; un fenomeno sociale e politico centrale che mette in crisi i complicati equilibri di potere all’interno dell’Unione Europea.
In ciò la pratica politica della cura si presenta come un elemento fondamentale, non l’unico, certo, ma quello senza di cui le altre pratiche tendono a ricadere su se stesse, a non depositarsi in forme di socialità alternativa o a consumarsi in una conflittualità senza prospettive. Perché coglie la radice della condizione umana, nelle sue potenzialità più positive: quelle per cui l’unicità del singolo non solo non nega l’altro, gli altri, ma li esige.
Si dice che l’EU ha permesso di vivere in PACE ma quello che si vede è peggio di una guerra guerreggiata ognuno guarda il suo orticello sia in Europa che in Italia . La domanda è l’Europa è unita o è un’accozzaglia di nazioni che difendono i propri interessi. Colpa della solo unione monetaria