immagine da Femminismoasud (graz!)
Nuda e illegale contro il capitale
Un articolo del Laboratorio Smaschieramenti di Bologna sul 15 ottobre
già pubblicato su ZeroViolenzaDonne il 25/10/2011
Il 15 ottobre a Roma era presente anche uno spezzone di corteoPutaLesboTransFemministaQueer. Il documento con il quale queste femministe, froce, lesbiche, puttane e altre favolosità sono scese in piazza parla di precarietà in maniera sessuata. L’iniziativa è partita da Antagonismogay e Laboratorio Smaschieramenti di Bologna, a cui hanno aderito molteplici realtà italiane fino a formare un cospicuo spezzone fucsia, presente e visibile nelle sue forme e nei suoi contenuti.
Il precario non è sempre maschio, il precario non è neutro, la precarietà colpisce in maniera differente le donne, le trans e gli uomini, le italiane e le migranti, le eterosessuali, le omosessuali e quelle dall’orientamento sessuale polimorfo, le famiglie nucleari e le persone in assetti affettivi meno convenzionali. La precarietà non è solo del lavoro, ma della vita: non sono solo i contratti temporanei a rendere precarie, stressanti e difficili le nostre vite, ma lo smantellamento del welfare, il costo degli affitti, la mancanza di servizi pubblici e di un reddito minimo garantito a tutte.
Nondimeno, l’insofferenza e la resistenza dello spezzone fucsia si rivolge ad un’altra precarietà, altrettanto diffusa ma più subdola, la precarietà esistenziale determinata da un peggioramento generalizzato delle condizioni di lavoro: inasprimento dei ritmi, richiesta di maggiore efficienza, di lavorare anche nel tempo libero, magari mettendo a profitto le proprie relazioni personali per promuovere l’ultimo evento curato dalla nostra agenzia o l’ultimo prodotto commercializzato dal nostro call center: tutto ciò rende fragile la possibilità di costruirsi una vita soddisfacente perché rende labile lo spazio-tempo a disposizione, laddove spesso diviene ancora più necessario uniformarsi, aggrapparsi alla conformità moralista per non essere ulteriormente discriminate, per sembrare normali almeno nella vita privata visto che nella sfera lavorativa sempre più siamo condannate ad essere atipiche.
Produzione e riproduzione. Vogliamo lottare per liberarci dalle catene che ci rendono schiave della produzione materiale e immateriale, ma anche dalle catene della riproduzione sociale, cioè da tutti quei meccanismi per cui ognuno e ognuna di noi ogni giorno impercettibilmente collabora a riprodurre la società così com’è, ad esempio comportandosi “da uomo” o “da donna” e adottando schemi precostituiti nelle proprie relazioni d’affetto. Il nostro documento parlava anche di rabbia, e di desiderio di agire in prima persona e non delegare ad altri la nostra liberazione: “non ci rappresenta nessuno” era uno degli slogan dello spezzone di corteo in cui ci siamo collocate, con il nostro striscione “*** sull’orlo di una CRISI di nervi”2 e con i nostri cartelli orlati di tulle fucsia in compagnia del coordinamento Time Out di Bologna di cui fa parte il Laboratorio Smaschieramenti, promotore dello spezzone fucsia.
Un ordine del discorso irrespirabile. Il 15 ottobre a Roma ha visto una partecipazione immensa, forse mezzo milione di persone, l’irruzione di alcune attiviste in un albergo di lusso a Piazza Esedra, l’occupazione temporanea dell’area archeologica dei fori romani, la sottrazione spettacolare di qualche confezione di surgelati da un supermercato di generi alimentari di lusso, auto incendiate, vetrine e bancomat spaccati, una caserma dismessa data alle fiamme, cariche della polizia sul percorso autorizzato del corteo e fin dentro piazza San Giovanni, gli idranti, i lacrimogeni e le camionette che giravano a settanta all’ora nella piazza piena di gente. Molte e molti hanno reagito, lanciando oggetti, opponendosi coi loro corpi, alcuni anche incendiando il famoso blindato dei carabinieri. Un piccolo gruppo si è schierato di fronte alla polizia scandendo “no alla violenza” con le mani alzate.
A distanza di poco più di una settimana, si sente dire “quanto accaduto il 15 ottobre” o “le violenze del 15 ottobre” come se ci si riferisse a una realtà auto evidente. Che è invece opaca e difficilmente decifrabile.
Che ne è stato del famigerato spezzone fucsia in mezzo a tutto questo? E cosa hanno pensato collettivamente le nostre putalesbotransfemministe nei giorni successivi? Lo spezzone è arrivato in Piazza San Giovanni e ha scelto la ritirata strategica davanti allo scontro militare, ma quello che è successo dopo è la parte più inquietante. Il piano del discorso costruito dai comunicati delle principali aree di movimento all’indomani del 15 ottobre ha reso l’aria irrespirabile più dei lacrimogeni. Da un lato c’è stato chi ha tuonato sdegnato contro i violenti in quanto sarebbero utili idioti della repressione oltre che calpestatori della “democrazia interna del movimento”. Dall’altro, chi ha mitizzato la rabbia precaria e ha cantato vittoria per aver impedito, con i comizi in piazza San Giovanni, l’ennesimo teatrino della rappresentanza. In mezzo c’è chi ha voluto enfatizzare i contenuti della protesta più che le forme scelte dai diversi gruppi per comunicarli.
Noi invece pensiamo che le pratiche di lotta non siano affatto secondarie rispetto ai contenuti. Rifiutiamo la dicotomia asfissiante che si sta svolgendo tra pacifismo legalitario e ribellismo cieco. Non ci affanniamo a dire che ci dissociamo dai violenti, che le loro pratiche non sono le nostre, sia perché non ne abbiamo bisogno, sia perché vedere una vetrina rotta o un bancomat spaccato di certo non ci spezza il cuore, anche se lo spettacolo del mostrare i muscoli, il militarismo e l’estetica dello scontro per lo scontro – per vedere chi ce l’ha più duro – ci deprime mortalmente.
Abbiamo le idee ben chiare tanto sul meccanismo di delega e rappresentanza, che oggi travisa il concetto di nonviolenza per imporre una pace sociale poco praticabile nello stato di cose in cui versa la società; quanto su certe pratiche muscolari che vorrebbero imporre con lo spettacolo violento pratiche non condivise: nessuna delle due ci appassiona. Ma a differenza di quanto lasciano intendere i giornali, sappiamo che c’è altro oltre il due: ci sono le azioni dirette, creative e comunicative, c’è la pratica quotidiana di stili di vita almeno in parte alternativi a questo sistema, c’è la costruzione di alternative di autorganizzazione, autogestione e democrazia diretta ed è in questa direzione che vogliamo lavorare.
Corpi illegali. Le nostre pratiche non chiedono il permesso, eppure non sono violente. Illegale non coincide con violento e nonviolenza non è affatto sinonimo di legalità, ordine, decoro, compostezza. Né tanto meno pensiamo che la quantità di virilità o di forza fisica distruttiva contenuta in un gesto sia la misura della rabbia. La distruzione e il dominio sono la misura quotidiana di questo sistema, dalle periferie del mondo alle periferie qui dietro da dove stiamo scrivendo, e questo modello è alimentato dalla frustrazione di chi sfoga la propria rabbia cieca contro il diverso, la diversa, l’anormale. E’ da questo schema allarmante che vogliamo uscire, ma non si esce secondo noi con i buoni propositi del “noi siamo altro dalla violenza”.
Occorre prendere in carico anche questa rabbia, anche questa violenza. Noi non siamo meno arrabbiate di altri, ma non ci interessa tanto la rabbia in sé, ci interessa trasformarla in azione politica, in desiderio intelligente e collettivo di trasformazione dell’esistente. Le pratiche nonviolente di cui è fatta la storia del femminismo non furono mai passeggiate tranquille: hanno vissuto e vivono ancora oggi la criminalizzazione diffusa, lo stigma sociale di qualsiasi dissenso che non rientri nell’ambito della cosiddetta legalità – che spesso coincide con l’ambito della pubblica moralità – che si tratti oggi di occupazioni di piazze e liberazione di spazi, ieri di divorzi e aborti clandestini. La valorizzazione della legalità a tutti i costi ha affossato ancora di più qualsiasi pratica di lotta nonviolenta e ha amplificato le pratiche machiste e violente senza senso, riproducendo lo schema moralismo/trasgressione che è il solito leit motiv della nostra società, a partire dall’educazione scolastica.
Oggi scendiamo in piazza per le nostre condizioni di vita materiali, per bisogni non rimandabili, non per un ideale etico, o almeno non più solo per questo. L’urgenza della situazione ci chiede di affrontare e trovare urgentemente pratiche di lotta e pratiche di vita differenti da quanto è stato finora. Ci chiede di liberare relazioni nuove e politicizzare le crisi di nervi, come diceva uno dei nostri cartelloni. Ce lo chiede il qui e ora, ce lo chiede il nostro livello più basico di esistenza.
Commenti recenti