Nov 2012
“Sguardo parziale sul Feminist Blog Camp (FBG#2)“
di Un Disertore Labronico
Per quanto la tradizione politica e culturale di Livorno abbia i suoi vantaggi (girando per Roma ad esempio si è circondati da manifesti di raggruppamenti politici di estrema destra di cui vivendo in Toscana non si sospetta neanche l’esistenza), trovo comunque che sia un ambiente la cui inospitalità (quella per gli artisti è perfino cantata da Capossela: “dà gloria soltanto all’esilio – e ai morti la celebrità”) e irrespirabilità siano mediamente sottovalutate.
Quando ero adolescente giravano statistiche di suicidi giovanili preoccupanti (che confermo da un vecchio Atlante della mortalità in Toscana da cui vedo che l’area urbana livornese è una delle poche zone dove dagli anni ’70 ai ’90 i suicidi maschili percentuali sono in pratica raddoppiati). È una città in cui il modello maschile oscilla tra il vittimismo allupato del Troio (un personaggio del Vernacoliere) e un modello machista che si è gonfiato (e abbronzato) pettorali e bicipiti tradizionalmente sul porto, più di recente nelle palestre e nei saloni di bellezza. È la città che crea capri espiatori come Bobo Rondelli, costretto a immolare continuamente i suoi temi tragici sull’altare della battuta da bar che rasserena la dissociazione virile in riti collettivi a cui partecipa tutta la città.
Questo tipico cortocircuito tra empatia (evocata o richiesta) e violenza simbolica sessuata l’ho trovato rappresentato in modo esemplare una sera di molti anni fa, nell’intervallo di una partita al bar, quando un infermiere in pensione per socializzare con due miei amici si armò del classico cameratismo omofobo e prese ad elencare vari “zucchini, bottiglie, corpi estranei” che nella sua esperienza al pronto soccorso cittadino aveva estratto dagli ani degli uomini, con dovizia di dettagli, urla di entusiasmo, totale assenza delle doti minime richieste dalla sua vecchia professione e soprattutto un’adesione disarmante ai peggiori modelli culturali patriarcali (un signore di mezza età, discreto, solitario, effemminato, seduto in fondo alla stanza, se ne uscì senza aspettare il secondo tempo; perché la violenza simbolica funziona).
Solo un episodio, tra chissà quanti visti nei decenni ogni giorno, in una città in cui gli uomini passano il tempo, in ogni scambio comunicativo, a cercare di dimostrare che, loro, nella vita, metaforicamente e soprattutto letteralmente, non lo prendono nel culo. Una città in cui, come dice l’antipatico Virzì, “con un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo, vieni bollato per sempre come finocchio”, con il discredito che questo, ovviamente, dovrebbe portare. In questa realtà apparentemente inattaccabile vedo alcune piccole brecce interessanti intorno ai temi di genere, negli ultimi anni. Mi ha incuriosito la reazione di uomini e donne di diverse età alle tappe cittadine del progetto “Nuovi occhi per i media”. Vedo un certo interesse intorno al recente progetto LUI – Livorno Uomini Insieme. E ci sono stati degli incontri su temi femministi che sono poi sfociati nell’organizzazione all’ex caserma Del Fante del secondo FBC.
L’anno scorso a Torino non ero andato. Non ricordo perché. Probabilmente alla fine mi resi conto che non avrei trovato da dormire. So che mi stavo organizzando fino a pochi giorni prima, e che un amico quando gli dissi dove sarei stato il fine settimana mi disse: “Vai dalle femministe? Ma non hai paura che ti picchino?”. Quest’anno, non mi sento di dire di aver partecipato al FBC, ma piuttosto di avervi fatto visita. Ho potuto esserci solo la sera del venerdì, il sabato e parte della domenica e ho ascoltato solo tre workshop. Ho privilegiato incontri, che non mi sentivo di relegare nei pranzi e nelle pause. Indipendentemente da alcune perplessità con cui arrivavo, ho avuto la possibilità e il luogo di scambiare sia entusiasmi sia insoddisfazioni riguardanti il femminismo e la critica al patriarcato in rete e l’ho potuto fare di persona, senza il filtro dello schermo o della scrittura.
Venerdì sera ascolto un workshop sulla legge 194. In breve diventa una rassegna dei disarmanti drammatici dati delle varie realtà locali. Non ho preso appunti ma in sintesi, in Italia, a causa della cosiddetta obiezione di coscienza è molto difficile, quando non praticamente impossibile, abortire. Ci sono ospedali senza medici non obiettori, ostetriche che per la causa in pratica rivoluzionano il proprio mestiere, tempi interminabili (paradossalmente, per una necessità che ha scadenze rigide) laddove confluiscono pazienti da luoghi di fatto non assistiti. Il perché il personale medico ginecologico, immagino in gran parte maschile, assuma nella stragrande maggioranza dei casi posizioni antiabortiste al punto da creare situazioni in cui non è garantito un diritto femminile, è un tema per la riflessione di genere maschile.
Quello che non mi piace della discussione che emerge – un argomento purtroppo già incontrato – è la negazione semplicistica di un dato di fatto a mio avviso molto complesso. In alcune, poche, voci, si tende infatti a ricondurre ogni problematicità con cui una donna può vivere l’esperienza dell’aborto all’interiorizzazione dello stigma antiabortista. Su “Giù le mani (donne, violenza sessuale, autodifesa)” (Arcana 1977) leggo: “l’aborto è quasi sempre un’esperienza violenta e deprimente”, e credo che questa affermazione – non posso dirlo basandomi sulla conoscenza del mio corpo, ma in base alla riflessione e all’ascolto delle voci di donne – possa esser valida anche al di là del rintracciarne la causa nella situazione medicalizzata patriarcale (e nello stigma antiabortista).
Credo che ci siano molteplici cause per cui una donna possa vivere malissimo la propria scelta di abortire, solo alcune delle quali sono da ricondurre allo stigma antiabortista (e questi casi di conflitti interiori non dovrebbero comunque essere ulteriormente giudicati). Anche solo il rapporto tra l’evento dell’aborto e un desiderio o un dubbio sul desiderio di maternità, e il rapporto tra questo desiderio e il non completo controllo sulle possibilità future di maternità. Tutte le cause per cui una donna può desiderare un figlio possono diventare altrettanti problemi, direi, nel vivere l’aborto. Ben al di là dello stigma antiabortista e anche dei problemi derivati dalla medicalizzazione (per un punto di vista complesso anche soltanto sulla legge 194).
L’impressione è che le proteste o le critiche alle affermazioni semplicistiche (a mio avviso frutto di accecamento ideologico) manchino non tanto per mancanza di argomenti, ma perché l’accusa di moralismo che implicitamente si riverserebbe su chi si facesse avanti è tra le più infamanti negli ambienti del progressismo e della contestazione, seconda forse solo a “fascista”. Lo sa bene qualunque persona che, al di là della necessità di tutelare chi pratica la prostituzione e magari vuole anche continuare a farlo, critica la violenza (simbolica e non solo) patriarcale che pervade (ma si potrebbe dire crea) questa realtà. Tipicamente, negli infiniti dibattiti sul “sex work”, per tagliare ogni possibilità di replica, questo soggetto si vedrà etichettare come moralista ogni qual volta cercherà di spiegare l’ovvio: la specificità della sessualità, la scarsa pertinenza della scelta di fronte alle costrizioni simboliche o materiali, la non rappresentatività nella società attuale di uno scambio sesso-denaro privo di svantaggi di qualsiasi tipo per chi si prostituisce.
Sabato ho seguito due workshop di Lorenzo Gasparrini. In particolare ho trovato importante il tema del primo le difficoltà a fare rete tra uomini (qui è accesibile il suo report, intrecciato in modo molto interessante con una voce femminile). Sospetto reciproco? Narcisismi? Attrazioni verso femminismi tra loro anche molto diversi? Il tema – quanto sia un problema reale è difficile stabilirlo, senz’altro è un buon monito – è un altro che meriterà approfondimenti da parte degli uomini critici.
Domenica non ho partecipato ai workshop, ho sciacquato fagioli, pelato patate, affettato il pane. Mi sono infilato in cucina in modo istintivo. Non potevo perdere l’opportunità di vivere la convivialità che mi ricordava un po’ la simpatia delle feste comuniste ma senza (aspettarsi) cacciatori al tavolo né (avere) macellati in pentola. La scontatezza dell’alimentazione vegana del FBC, il legame con i temi dell’antispecismo (mi raccontano di un workshop che ha suscitato discussioni stimolanti ed entusiasmo) sono uno degli aspetti del femminismo che si riconosce nel FBC che più trovo importante e a cui dovrebbero guardare come a un modello dirompente, con più decisione ed esplicitezza, sia altri femminismi sia i gruppi di uomini critici verso il patriarcato. In questo senso, pelare patate ma in generale mettersi in fila ad ogni pranzo senza dover fare domande o richieste “particolari” è valso almeno quanto la partecipazione a un workshop.
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