Nov 2012 “La presenza maschile nell’educazione al genere”
di Sandro Casanova e Gianluca Ricciato
Contributo presentato nel Seminario
“La scuola che fa la differenza”, Bologna 29 Nov 2012
pubblicato a cura del Progetto Alice
La presenza in Italia di reti di uomini che mettono in discussione il maschilismo e il sessismo – dal punto di vista personale, culturale e politico – ha generato la possibilità di avviare un discorso maschile di educazione al genere, e conseguentemente delle pratiche professionali, in sinergia con il pensiero e le pratiche femminili, finalmente fuori dalla neutralità di cui si ricoprono storicamente i discorsi del potere maschile dominante (1).
È per molti versi un fatto inedito, che probabilmente ha ancora bisogno di molte riflessioni, sui suoi limiti attuali e sulle sue possibilità future, non solo rispetto alla pedagogia di genere ma anche riguardo alla costruzione di una società libera dalle forme di discriminazioni di genere che oggi conosciamo (sessismo, maschilismo, eteronormatività, etc).
Proveremo nelle seguenti pagine a fare delle riflessioni a partire da alcune esperienze finora svolte.
Il muro impenetrabile
“E’ una religione omertosa il maschile a cui ci hanno educati sin da piccoli, che rimanda ad una meta astratta e non verificabile: essere un Vero Uomo. Essa protegge rendendole sacre le vulnerabilità maschili, è l’oppio che opprime e impoverisce il popolo maschile, il valore in forza del quale vengono fatte alcune moderne crociate. Il maschile tradizionale, come religione, come spazio confinato, come identità, richiede di essere difeso con la violenza” (2).
Se uno degli obiettivi principali di ciò che chiamiamo educazione al genere è quello di significare il genere in termini di possibilità e desiderio, e non di destino, occorre di conseguenza interpretare quali sono i destini, ossia le gabbie identitarie, i modelli dominanti, le pressioni culturali che investono la crescita di ragazzi e ragazze.
Fare educazione al genere ci porta a considerare i diversi aspetti di questa pratica nei confronti dell’intero gruppo-classe in cui siamo chiamati a lavorare, quindi nei confronti di ragazzi e ragazze. Ma allo stesso tempo, per evitare di sottrarci alla buona pratica del partire da sé, non possiamo non considerare che lo facciamo dal punto di vista maschile – quindi come educatori maschi – e che questo comporta un’aspettativa diversa, specialmente in un contesto scolastico dove la presenza femminile è di fatto maggioritaria, per motivi sociali e storici legati anch’essi alle forme storiche di divisione del lavoro e, nel caso della pedagogia di genere, per la stragrande maggioranza di riflessioni femminili su questi temi rispetto a quelle maschili. Per questo motivo, ancor di più, diviene interessante il focus sugli studenti maschi – in particolare nel rapporto con uomini che educano – nel mondo scolastico in generale e nel contesto di progetti sulla decostruzione degli stereotipi di genere e sulla violenza di genere.
In questo ambito si aprono nuove possibilità, alcune veramente poco esplorate all’interno della cultura pedagogica italiana. Quel destino di cui si diceva prima – quella gabbia identitaria del Vero Uomo che richiede l’invulnerabilità, l’impenetrabilità dell’identità maschile, “l’unica possibile” – per l’adolescente maschio significa fare i conti con la genealogia maschile, con l’immaginario trasmesso dalle generazioni di uomini che l’hanno preceduto; l’adolescente si muove tra accettazione dell’ordine paterno e l’urgenza, peculiare di quell’età, di contestare e prendere le distanze da quello stesso ordine.
È una dinamica lacerante che riguarda gli adolescenti maschi e ne condiziona sicuramente lo sviluppo, sia che lo si accetti sia che non lo si accetti, questo destino fatto di stereotipi virilisti. Perché, è bene ricordarlo, sia omologarsi agli stereotipi che rifuggire da essi può portare a vissuti di sofferenza, quando si sta cercando di orientarsi nel mondo e si sta cercando faticosamente un’identità.
Una nuova possibilità che un educatore maschio può dare è innanzitutto quella di non mostrarsi egli stesso come l’esito di dispositivi maschilisti. Ci si “mostra” nel ruolo di educatore con le parole ma anche con gli atteggiamenti, i movimenti, la relazione con le persone presenti, siano ragazzi o ragazze, siano colleghi o colleghe. Si possono inviare messaggi sessisti anche facendo educazione al genere, se ad esempio nella compresenza in aula tra un educatore e un’educatrice avviene una dinamica di subalternità della seconda rispetto al primo – che può essere la mancanza di rispetto dell’opinione femminile da parte dell’uomo, la derisione o altri casi simili che rimandano ai luoghi comuni delle discriminazioni di genere.
Attraverso quindi la trasmissione di saperi e conoscenze – nelle metodologie didattiche usate, nei libri di testo, ma anche nel linguaggio, nella relazione tra docenti o tra corpo docente e discenti, nella pratica educativa quotidiana – si riproduce e si costruisce continuamente genere, e nello specifico si può rafforzare, consolidare o al suo opposto mettere in discussione una certa visione del corpo, delle parole, dei codici che caratterizzano l’immaginario maschile. Al contrario, si possono aprire brecce nei muri di quel destino anche solo riuscendo a condividere uno spazio di discussione maschile che non preveda atteggiamenti discriminatori nei confronti delle donne e delle soggettività “diverse”, che non avalli cioè discorsi di superiorità di genere, né forme linguistiche o luoghi comuni vessatori nei confronti di chi non appartiene al soggetto di genere ritenuto “dominante” (l’uomo maschio eterosessuale).
Mettere in discussione tale soggetto significa mettere in discussione un potere che oggi per legge non è più riconosciuto, ma di fatto esiste ancora, il potere di una certa cultura maschile, di un certo genere di maschilità, che non è la maschilità tout court bensì solo la sua forma deteriore. Scoprirsi maschi non appartenenti ad essa, né conniventi con le forme di violenza e sopraffazione è una pratica esistenziale continua, che deve essere perseguita anche da chi educa. Più che “insegnare” ad essere maschi o femmine – con il rischio di imporre come adulti una nuova normatività di verso opposto ma uguale nella forma – occorre indicare delle rotte e se possibile contagiare e contaminare, attraverso le narrazioni, il procedere dubitando, il promuovere metodologie dialogiche e relazionali al posto di quelle frontali e unidirezionali. Le domande piuttosto che le risposte, la curiosità piuttosto che l’assertività.
È questo, principalmente, che può dare ai ragazzi maschi la possibilità di aprire un varco nel muro impenetrabile della maschilità tradizionale a cui sembrano destinati, che dai secoli passati è giunta fino a noi e sembra ancora difficile lasciarsi definitivamente alle spalle. Loro stessi, le loro angosce e le loro sofferenze, così come la loro voglia di viversi liberamente corpi e desideri, ce lo richiedono continuamente, spesso senza che noi adulti ce ne rendiamo conto.
I ragazzi nella scuola
L’esperienza scolastica non è certo marginale nel percorso adolescenziale, nel processo di costruzione del proprio sé e del proprio stare nel mondo. La scuola è un luogo privilegiato dove si rafforzano le categorizzazioni, le rappresentazioni del mondo, i valori, le norme e i modelli precedentemente interiorizzati nei diversi contesti di socializzazione – famiglia e altri ambienti significativi (il gruppo sportivo, la parrocchia, etc).
Come risulta ormai da diversi studi e ricerche sulla pedagogia di genere, maschi e femmine a scuola presentano atteggiamenti e comportamenti diversi, differenti modi di apprendimento, di relazionarsi, attribuiscono diversi significati all’esperienza scolastica, mostrano diversi vissuti, hanno un differente modo di gestire il tempo e lo spazio scolastico.
I ragazzi rivelano nei confronti della scuola un investimento strumentale, contingente, sicuramente più pratico rispetto alle ragazze, e insieme un approccio più ludico, limitando il più delle volte l’espressione dell’affettività e della riflessione interiore. Il quadro generale mostra adolescenti maschi scarsamente motivati, indisciplinati, fisicamente irrequieti, svogliati, immaturi, bulli. A volte questi tratti vengono presentati all’interno di una visione essenzialista, quasi che si trattasse di specificità appartenenti alla natura biologica del maschile – attitudini a cui i maschi sarebbero naturalmente portati – piuttosto che vederle all’interno del lungo processo storico di socializzazione che caratterizza la costruzione sociale e culturale della maschilità. Se il pensiero femminista ci ha insegnato l’impossibilità di ridurre ad un unicum tutte le soggettività femminili, allo stesso modo non possiamo ingabbiare l’adolescenza maschile esclusivamente nella visione sopra descritta. La visione del maschio adolescente tutto d’un pezzo, aggressivo, dai modi bruschi (4), incapace di mostrare affettività corrisponde ai percorsi di tutti i ragazzi? O sono anch’essi stereotipi?
L’identità individuale incontra quella collettiva.
Il gruppo dei pari, in particolare quello dei compagni di scuola, è un importante punto di riferimento per gli adolescenti maschi, un luogo di confronto di idee, pensieri, valori; svolge una funzione di rispecchiamento per la possibilità di ricercarvi somiglianze, comunanze. I segnali di appartenenza al gruppo si manifestano attraverso precisi codici corporei ed estetici che distinguono ogni gruppo da un altro (abbigliamento, piercing, tatuaggi, etc) e con la richiesta di specifici atteggiamenti che contribuiscono a consolidare il bisogno di appartenenza e insieme il desiderio di individuazione, di trovare un’autonoma originalità.
Tra pari si condividono le stesse difficoltà, si cercano prove che confermino e rafforzino la propria identità sessuale, la propria maschilità. Nell’adolescenza si verifica un radicale cambiamento non solo psicologico ma anche fisico, corporeo. Pur differenziandosi dalle ragazze dove la pubertà è segnata in maniera invasiva dai cambiamenti biologici (le mestruazioni), anche nei maschi il corpo provoca reazioni importanti, smuove il desiderio, la ricerca di uno stato adulto che passa attraverso le prime sperimentazioni sessuali e il bisogno di verificare, sperimentare la propria virilità. L’ansia di sentirsi normali spinge l’adolescente a conformarsi ai modelli che il gruppo, da cui desidera essere accettato, gli impone. Il discorso tra pari sulle conquiste sessuali, le prime relazioni sessuali ancor più che quelle affettive sono un banco di prova dell’affermazione sessuale che cerca l’accettazione dei coetanei, il comportarsi in un certo modo con le ragazze è misura del proprio valore maschile agli occhi degli altri compagni: l’appartenenza di genere necessita il riconoscimento degli altri maschi.
Il gruppo dei pari è quindi un forte strumento di controllo cui adeguarsi, pena la derisione e una sperimentazione negativa della propria adolescenza, attraverso sanzioni che possono portare all’isolamento finanche alla patologia.
All’interno di una visione gerarchica di differenti maschilità – ovvero quella vincente e normativa, corrispondente alla manifestazione dell’eterosessualità esibita, e quella considerata deviante, perché si discosta “in maniera ambigua” dalla norma – si può comprendere il ripiegamento di certi adolescenti nel territorio rigido dei modelli più tradizionalisti: una chiara divisione dei ruoli e compiti sessuali, il sessismo, gli atteggiamenti omofobici, il non volersi affrancare da posizioni stereotipate rassicuranti, che di fatto confermano privilegi e potere. Essi non sono disposti a riconoscere modalità più esplorative della maschilità, perché appaiono segnate dall’incertezza, dall’eccessiva fluidità. La paura di non trovare ancoraggi identitari forti può portare i ragazzi a cercare pochi ma chiari punti di riferimento. I ragazzi appaiono disorientati dai mutamenti sociali in atto nelle relazioni tra i sessi, mutamenti con cui si trovano già a confrontarsi nella pratica quotidiana. Da certi comportamenti aggressivi o all’opposto rinunciatari trapela una frustrazione, un’incapacità a stare al passo con un immaginario maschile troppo pesante da sopportare.
Probabilmente il compito di chi educa, sia uomo che donna, è cercare di garantire uno spazio protetto che permetta agli adolescenti di “vedere” con una certa distanza, un certo distacco emotivo la ridefinizione dei rapporti di genere, senza farsi troppo male. In particolare, richiamando l’attenzione sui maschi, occorre depotenziare la distruttività che soggiace ai cambiamenti dell’ordine maschile e valorizzare quel nuovo, quei piccoli spostamenti che a fatica prendono forma perché richiedono uno scavo interiore non da poco.
Legittimare le contraddizioni di un equilibrio instabile significa aiutare i ragazzi nell’esposizione ancora pudica dei loro sentimenti, aiutarli a nominare ciò che fin da piccoli si impara a silenziare o a vivere in solitudine: le emozioni. La domanda più urgente è quanto la scuola possa essere il luogo dove il racconto del vissuto individuale possa essere occasione di scambio e arricchimento condiviso con altri compagni maschi e femmine. Per la maggior parte degli adolescenti (i ragazzi in misura maggioritaria delle ragazze) la scuola rimane qualcosa di “subìto”, un sapere avulso dalla vita personale, uno spazio dove si gioca il ruolo di “semplici discenti” o di soggetti astratti, dove poco importa quello che si sente dentro o come si vivono certe situazioni.
Siamo invece sempre più convinti da una parte che la scuola debba favorire un’elaborazione dei contenuti disciplinari tale da permettere a ragazzi e ragazze una riflessione su di sé, una pratica didattica maggiormente interattiva non slegata dall’esperienza quotidiana; dall’altra ci preme sottolineare un imprescindibile lavoro di riflessione da parte di chi educa sui processi oltre che sui contenuti, l’attenzione alla qualità dei diversi scambi relazionali, anche quelli più “informali” (il momento dell’intervallo, la pausa mensa, le visite esterne, etc.). In quei momenti si mette in gioco la propria soggettività, si espongono in prima persona pezzi di sé, frammenti della propria storia; è lì che i ragazzi raccontano di sé anche quando parlano di altro, utilizzando un vocabolario fatto non solo di parole dirette ma anche di comportamenti e atteggiamenti provocatori, o di silenzi. Il compito dell’adulto è quello di aiutarli a ricomporre i diversi frammenti, a saper cogliere le diverse sfumature, anche quelle più impreviste, in cui potersi riconoscere, senza arrivare a riduttive polarizzazioni che non rendono conto della complessità. In definitiva aiutare i ragazzi a prendersi cura di sé.
1. Cfr: AA.VV., Trasformare il maschile. Nella cura, nell’educazione, nelle relazioni, a cura di Salvatore Deiana e Massimo M. Greco, Cittadella editrice, Perugia 2012.
2. “Siamo tutti eterocliti”, di M.M. Greco – Gruppo Maschile Plurale Roma, Liberazione, 15-8-2008, p. 12, Inserto “ Smaschieramenti.
3. Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli, Antonio De Lillo (a cura di ), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2007; Francesca Sartori, Differenze e disuguaglianze di genere, Il Mulino, Bologna 2009.
4. Franco La Cecla, Modi bruschi. Antropologia del maschio, Bruno Mondadori, Milano 2000.
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