Mar 2011 “Quel corpo in ostaggio”
di Adriano Sofri
dalla prima pagina di Repubblica 05 marzo 2011
C’è una donna, sulla quale si accaniscono di colpo sfortune diverse: d’ essere giovane – “ragazza madre”- d’essere “bella”, d’essere “sbandata”.
La storia rotola giù come una valanga: il furto di un paio di magliette in un grande magazzino, l’ arresto. E poi la sosta per le formalità in una caserma di carabinieri, il trasferimento in un’ altra caserma meno affollata, la degenza in una cella di sicurezza (badate: “di sicurezza”), la visita notturna di un piccolo manipolo di carabinieri e, per giunta, un vigile urbano, il whisky, il trasloco dalla camera di sicurezza alla mensa, e là il rapporto sessuale con uno o due degli allegri compagni, mentre gli altri guardano. Il rapporto sessuale – diranno dopo che la giovane ha trovato il coraggio di andare a denunciarli, e per sua buona sorte ha descritto il tatuaggio di uno dei suoi usatori, senza di che sarebbe stata spacciata per calunniatrice – è avvenuto, ma lei era consenziente, anzi, provocava. E poi, è una sbandata.
Si stenta a credere alle proprie orecchie. Perché quelle che invocano come giustificazioni, sono confessioni di un delitto e delle sue aggravanti. Se a commetterlo siano pubblici ufficiali, e se lo commettano su una persona privata della libertà e affidata alla loro custodia, lo stupro è stupro, per legge, anche se davvero fosse stato “consentito” e perfino implorato dalla persona prigioniera. Punto sul quale occorre dubitare forte, perché la parola di lei, “sbandata” che sia, non può valere meno di quella dei suoi custodi infedeli, né le canta contro il certificato medico che non riscontra segni di violenza corporale: andate a riscontrare segni di un “ripetuto rapporto orale” imposto a una che è in mano vostra e che avete fatto bere.
Questa è la storia, e vien fatto di reagire in due modi opposti. Dicendo amaramente che non c’ è niente di cui sorprendersi, e che questo succede, e a volte se ne ha notizia, grazie a un telefono che registra, a un testimone che cede, a un tatuaggio incautamente esposto. Oppure mostrando quanto c’ è di cui sorprendersi. Per esempio, che i protagonisti, rei confessi e provati, vengano “trasferiti altrove e assegnati a compiti di ordine pubblico”, piuttosto che arrestati. Il colonnello comandante della provincia di Roma ha bensì dichiarato che “il nostro giudizio di assoluta riprovazione prescinde dalle responsabilità penali che si stanno doverosamente accertando”, ma il fatto riprovato è di per sé un misfatto penale. E di che cosa parlano i commentatori titubanti circa l’ eventualità che si sia trattato di “sesso o violenza sessuale”? Del naturale intercambio di sesso da svolgere in una camera di sicurezza, e fra carcerieri e carcerata?
Certo che la trista storia “non può offuscare la meritoria opera dell’ Arma” eccetera, e che le mele marce eccetera. Purché questo profluvio di frasi non sia una litania ipocrita.
Quando un ragazzino scippa una pensionata si potrebbe ragionevolmente avvertire che non tutti i ragazzini scippano le pensionate, ma suonerebbe superfluo. Si tuteli pure il buon nome dell’ Arma e dei ragazzini, ma si rifletta come si deve alla questione drammatica sollevata dal rapporto fra chi disponga di un corpo altrui, e chi se ne trovi in balia.
Pochi giorni fa si era trattato di un paio di poliziotti municipali palermitani soprannominati Bruce Lee o chissà come altro, abituati a imperversare su disgraziati indifesi, finché una loro vittima ha reagito a morte dandosi fuoco. Ora la storia romana ha riportato tutti al ricordo fremente di Stefano Cucchi,e non solo per qualche fortuita coincidenza di carabinieri e caserme. Qui c’ era una giovane donna, “bella” e “sbandata”. Là un giovane uomo, fragile e “sbandato”. Due corpi fatti apposta: l’ una per il “rapporto orale” (espressione che vuole essere perbene e suona più disgustosa, non l’ avranno chiamato così, quella notte), l’ altro per le botte. Il certificato di lei non rileva segni e così via, il certificato di lui li rileva tutti. Corpi che abusano di corpi.
Succede di essere in balia d’ altri, o che altri siano in nostra balia. Non so quale delle due condizioni sia meno augurabile. Succede di essere corpi esausti o malati, esposti inermi alla buona o cattiva volontà di un badante o un infermiere. Di essere bambini affidati all’ amoree alla pazienza, o alla frustrazione e alla furia, di un famigliare o una baby sitter o una maestra d’ asilo. Disporre dell’ incolumitàe della dignità altrui, ecco una condizione delicatissima, che chiama alla più rigorosa responsabilità, e però può tentare a sfogarsi e infierire. La condizione di chi è privato della libertà è un caso peculiare di questo repentaglio.
C’è un organismo europeo incaricato di vigilare sul trattamento delle persone private della libertà. La sigla è Cpt, la denominazione per esteso è costretta a essere prolissa: “Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”. Le persone private della libertà sanno che cosa vuol dire trovarsi in balia d’ altri.
Conoscono le intimazioni regolamentari a spogliarsi di panni e di personalità: “Qui non ti vede nessuno, qui non ti sente nessuno. Qui non sei nessuno”. Lo sanno orribilmente gli ostaggi di sequestri privati, costretti a chiedersi che cosa sarà di loro, e a temere il peggio. Lo sa anche chi è privato della propria libertà in nome della legge, e dovrebbe sentirsi protetto da una mano giusta e leale, al sicuro. “Assicurare alla giustizia”, si dice. Come la signora S. D. T., ragazza madre, assicurata alla giustizia per aver rubato un paio di magliette all’ Oviesse. Come il signor Stefano Cucchi, assicurato alla giustizia per possesso di modica quantità di stupefacenti, morto di botte e disidratazione.
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