di Gian Andrea Franchi
“il coraggio dell’impossibile è la luce che rompe la nebbia” (Carlo Michelstaedter)
I
Premessa
Nell’ottobre del 2011, Judith Butler, parlando nel Zuccotti Park di New York, di fronte alla gente del movimento Occupy Wall Street, faceva un’affermazione che mi ha subito ricordato il michelstaedteriano “coraggio dell’impossibile”:
“dicono che le pretese di equità sociale e giustizia economica sono impossibili. E le pretese impossibili, dicono, non sono proprio realizzabili.
Se la speranza è una richiesta impossibile, allora noi chiediamo l’impossibile. Se il diritto a un tetto, cibo e lavoro è una pretesa impossibile, allora noi pretendiamo l’impossibile. Se è impossibile pretendere che coloro che traggono profitto dalla recessione ridistribuiscano le loro ricchezze e smettano di essere avidi, allora sì, noi pretendiamo l’impossibile.
Ma è vero che non ci sono richieste qui sulle quali si possa giungere a compromessi, perché non stiamo solo chiedendo giustizia economica e equità sociale. Ci stiamo riunendo in pubblico, adunati come un’alleanza di corpi, per la strada e in piazza. Siamo qui a fare democrazia” [sottolineature mie].
Nel luglio del 2013, in un intervista sulla questione israelo-palestinese, a partire dal suo libro Strade che divergono (Raffaele Cortina 2013 – 2012 ed. orig.) ribadiva:
“Forse, uno dei doveri della teoria e della filosofia è di dare forza a principi che sembrano impossibili, o che hanno lo statuto dell’impossibile, senza abbandonarli e continuando a desiderarli, anche quando sembrano irrealizzabili. Va bene. È un servizio. Ma cosa succederebbe se vivessimo in un mondo in cui non ci fossero persone che lo fanno? Sarebbe un mondo impoverito” [sottolineature mie].
In queste parole riecheggia consapevolmente quanto scriveva il grande poeta e militante palestinese Mahmoud Darwish nella sua poesia Piani: a Edward Said, scritta per la morte di Said, che, nel libro citato, ella commenta ampiamente. Nella poesia si leggono, come se fossero pronunciati da Said, questi versi: “non dimenticare:/se morirò prima di te, ti affido l’impossibile!”.
L’impossibile, in questo caso, riguarda, il riconoscimento reciproco, in termini di philìa, fra israeliani e palestinesi. E’ un contesto solo apparentemente diverso da quello dei militanti di Zuccotti Park, perché la Palestina è un altro e più drammatico aspetto dello stesso mondo in cui è impossibile pretendere “giustizia economica e equità sociale” – in realtà, giustizia tout court.
Ancora Judith Butler nel libro citato scrive:
“Poiché non vi è un sé senza un confine, e quel confine è sempre un luogo di relazioni multiple, non vi è un sé senza le sue relazioni. Se il sé cerca di difendersi da questa stessa intuizione, allora nega la modalità in cui esso è, per definizione, legato agli altri. E tramite questa negazione quel sé viene messo a repentaglio, poiché vive in un mondo in cui le sole opzioni sono distruggere o essere distrutti” (Judith Butler, cit., pag. 130).
II
“Il geloso è innanzitutto un proprietario privato” (K. Marx, Opere Complete, IV, p. 556)
“l’amore è un parente così stretto dell’illusione dello specchio e della minaccia della morte; e, se, nonostante queste due figure pericolose che lo circondano, ci piace tanto fare l’amore, è perché nell’amore il corpo è qui”
(M. Foucault, “Il corpo utopico” in Utopie eterotopie, Cronopio, 2006, p. 45)
“Il dramma amoroso è l’esperienza più pura del conflitto tra l’identità e la differenza” (A. Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza, 2013, p. 70)
Il confine del sé, però, è legato al genere. E’ diverso il modo in cui un uomo e una donna percepiscono il confine come “luogo di relazioni multiple” e quindi se ne difendono o lo accolgono. Lo si vede molto bene nella relazione erotico-affettiva dell’uomo con la donna, che per l’uomo è strettamente legata all’impossessamento e all’appropriazione. Nel rapporto erotico e amoroso maschile eterosessuale (di questo posso parlare), che è quello dominante, non c’é solo possesso e appropriazione, certamente. Ma è molto difficile o impossibile ‘isolare’ il bisogno-desiderio di impossessarsi e appropriarsi di chi si ‘ama’ da altri aspetti, come il riconoscimento erotico-affettivo dell’unicità dell’altro e il desiderio di fusione, che rimanda probabilmente all’originaria insopprimibile esperienza infantile.
Questa con-fusione di amore come desiderio di fusione, riconoscimento di sé nell’altro e impossessamento e appropriazione dell’altro e la difficoltà concreta di separarli rimandano al carattere intrinsecamente contraddittorio di ciò che chiamiamo ‘soggetto’, messo in rilievo da Judith Butler.
E’ significativo che ‘soggetto’, il nome più generale con cui la modernità occidentale indica l’individuo umano, sia strutturalmente ambiguo. ‘Soggetto’ (upokéimenon, subjectus, sostrato) indica, infatti, una passività e insieme un’attività: soggetto a un potere e soggetto come agente consapevole, detentore del potere di agire.
Fra XVI e XVII secolo, in Bacone e Cartesio, il soggetto, inteso come funzione attiva – per il filosofo francese propria della cogitatio che agisce su una extensio separata – comincia a soppiantare l’anima della tradizione teologica e ad accentuare una primaria funzione di azione, controllo, impossessamento e appropriazione nei confronti di ciò che, separato dalla res cogitans e ontologicamente inferiore ad essa, le si contrappone: la natura come grande macchina, di cui fa parte anche il corpo separato dalla mente. L’essenziale funzione di controllo passa dunque, nella modernità, attraverso un processo di oggettivazione nei cui confronti, oltre all’oggettivazione scientifica, agisce anche quell’oggettivazione delle relazioni umane, dal XVIII secolo chiamata ‘economia’, che diventerà la disciplina generale della gestione sociale e un immaginario culturale sempre più dominante. Il soggetto moderno è dunque funzione agente in quanto controllore-appropriatore della res extensa.
Tutti i quasi sinonimi di ‘soggetto’ sono peraltro ambigui: ‘persona’ significa maschera; ‘individuo’ significa indivisibile e rimanda alla paura del molteplice. Alla relazione, invece, rimandano i pronomi personali: non c’è ‘io’ senza ‘tu’; e i riflessivi ‘me’, ‘sé’, rimandano a ‘io’, a ‘egli’.
Soggettività come assoggettamento implica adeguazione a una norma, una normalizzazione, e quindi un soggetto normalizzato, obbediente. La norma è la forma impositiva della relazione sociale e individuale (relazione con se stesso). La normalità è adeguazione, obbedienza. “Il potere [è] in gran parte una questione di come la più vasta disciplina di civiltà, decoro e controllo del corpo vengano impresse fin nell’intimità degli attori sociali incarnati” (Arjun Appadurai, Modernità in polvere, p.191)
La “soggettività” teme e insieme esige la relazione costitutiva con l’altro, in una mai placata oscillazione (questa duplicità avrebbe anche una base biologica che si mostra nelle fasi di rigetto nella gravidanza – M.-J. Soubieux, M. Soulé, La psichiatria fetale, Franco Angeli, 2007).
L’assoggettamento alla norma porta ad assumere come forma dominante l’identità. Con ‘identità’ intendo l’identificazione con uno schema comportamentale (dispositivo, habitus) dato/imposto di soggettività. L’identità è un movimento difensivo-offensivo di chiusura, fondato nella paura dell’alterazione nel rapporto con altro, in cui trapela sempre il rischio della distruzione. Lo dice benissimo, da vero esperto, Carl Schmitt in Ex captivitate salus (1950):
“L’Altro è mio fratello. L’Altro si rivela mio fratello, e il fratello, mio nemico. Adamo ed Eva ebbero due figli. Caino e Abele. Così cominciò la storia dell’umanità. Questo è il volto del padre di tutte le cose. Questa la tensione dialettica che tiene in moto la storia del mondo, e la storia del mondo non è ancora alla fine. […] Ci si classifica attraverso il proprio nemico. Ci si inquadra grazie a ciò che si riconosce come nemico […]
Der Feind ist unsre eigne Frage als gestalt.
(Il nemico è la figura del nostro proprio problema)” (ed. Adelphi, 1987, p. 92)
Il culmine dell’identità, che presuppone sempre un insieme sociale, è l’identità razziale: il sangue è la metafora più forte della fissazione identitaria.
Per questa sua matrice, l’individuo identificato si proietta offensivamente fuori dai confini difensivi del sé, nel mondo altro, estraneo, ostile, in termini di potere, di controllo, di impossessamento, di oggettivazione, nei confronti di umani, di viventi e di cose.
Ma ben prima della formazione storica di dispositivi d’identificazione, il bisogno di controllo e d’impossessamento dovette agire prima di tutto nei confronti di ciò che assicura la riproduzione della vita: l’ambiente naturale e le donne. Credo che qui si annidi l’origine del bisogno e del desiderio di impossessamento o di appropriazione[1]: nel bisogno di assicurarsi la riproduzione, nel suo duplice aspetto di reintegrazione costante dei corpi che quotidianamente si consumano e di riproduzione della specie.
Ritengo che la matrice storica dell’impossessamento e dell’appropriazione di esseri umani e quindi della divisione degli esseri umani in generi e raggruppamenti gerarchici di vario tipo sia l’impossessamento delle donne. Le donne sono possedute come genere, ciò che non accade, ad esempio, per gli schiavi. Una donna non può smettere di esser donna. Le donne che hanno raggiunto un potere simile a quello degli uomini, hanno dovuto assumere modalità tipicamente maschili. E’ questione di genere, non di sesso: il sistema di relazioni che chiamiamo potere è androcentrico. Uno schiavo o un servo della gleba possono smettere di essere tali, a meno che non si avanzi un’altra forma fondamentale di fissazione o naturalizzazione di inferiorità, come il razzismo, strettamente connesso con la fissazione nel genere, in questo caso gli schiavi sono tali come razza naturalmente inferiore, come gli indigeni dell’Africa. La prima fissazione naturalistica è stata quella delle donne.
Esiste, però, anche l’altra fondamentale possibilità di soggettivazione. E’ anzi primaria: “aperta al molteplice/… né rocca né trincea”, per ricordare ancora il grande poeta Darwish, che le rocche e le trincee dell’identità sionista ha vissuto sulla propria pelle. La chiamo singolarità.
E’ la possibilità di esperire il confine fra sé e l’altro, non come pericolo, ma come indice del carattere fondativo della relazione, sua presupposta e costitutiva apertura all’altro.
Questa esperienza è difficile nel regime antropologico dominante. Implica, infatti, l’accettazione e l’accoglimento della propria precarietà e vulnerabilità, della propria distruttibilità, cioè della possibilità di morire, che è l’altro aspetto del carattere dinamico, aperto al possibile, tras-formativo, all’imprevisto della soggettività – della sua qualità temporale. Implica il superamento dell’angoscia della possibilità d’annientamento (caos, follia, morte). “La vita non si può né fuggire né possedere”, diceva ancora Michelstaedter: fuga e possesso sono due atteggiamenti strettamente connessi al fenomeno del potere. Ma è solo l’accettazione di quest’angoscia che apre all’im-possibilità di uscire dagli schemi del potere:
“Sostengo che per conoscere la realtà, e dunque per eventualmente cambiarla, bisogna abbandonare le proprie certezze e accettare l’angoscia … di una accresciuta incertezza sul mondo; che il coraggio d’affrontare l’ignoto è la condizione dell’immaginazione” (Christine Delphy, in Non si nasce donna, QV Alegre 2013, p. 29)
L’angoscia è ciò su cui agisce il potere che è l’espressione del prevalere totalitario di un possibile sulla molteplicità di possibili della condizione umana.
Per l’uomo la singolarità dovrebbe significare il superamento della barriera del comportamento di genere, l’arcaico immaginario culturale di “una cultura machista del periodo giurassico [che] ancora permea come un virus il nostro intero tessuto sociale”? (Candido Grzybowski[2]; cit. in Paola Tabet, La grande beffa, Rubettino, 2004, p. 5). Non è ovviamente possibile superarlo individualmente. Individualmente è possibile tener aperto un conflitto critico, accettare una condizione permanente di schizofrenia attiva e consapevole. Di un superamento collettivo, sufficientemente diffuso oltre gruppi consapevoli, non s’intravvede certamente oggi la possibilità, mentre si diffondono invece ulteriormente comportamenti opposti. Siamo di fronte, appunto, a un’impossibile.
Chiamo ‘impossibile’ una possibilità, depositata nell’immaginario antropologico, che è stata immaginata, creduta, tentata come possibile, risultando invece impossibile, caduta, sconfitta; e poi dimenticata o rimossa.
“Eppure quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole” (Carlo Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Adelphi 1982, p. 35).
Di queste possibilità perdute e rimosse parla, come è noto, anche Benjamin nelle sue Tesi sulla storia: lo vedremo più avanti.
Ma c’è anche quello di cui parla, ad esempio, Arjun Appadurai, riferendosi al: “microcosmopolitismo delle comunità federate dei poveri” delle metropoli mondiali, ambienti sociali dal cui drammatico travaglio può nascere la capacità
“di immaginare delle possibilità anziché … arrendersi alle probabilità di cambiamento imposte dall’esterno. … Immaginare possibili futuri concreti nella loro immediatezza quanto estesi negli orizzonti a lungo termine” (Arjun Appadurai, cit., p. 292 – sottolineature mie).
Un caso limite di questa capacità di immaginare il futuro, costruendo buone relazioni dentro un presente di oppressione, sono alcune situazioni collettive in villaggi palestinesi che ogni giorno riaffermano non il diritto, che è termine giuridico, ma il desiderio di vivere creativamente, contro un’oppressione che tende a distruggerli come collettività e come singoli.
Esiste dunque, per uomini e donne, l’im-possibilità di comprendersi e accogliersi come esseri relazionali. Possono nascere allora comportamenti che non sono da definire ‘altruistici’, nel significato di negazione di sé a favore dell’altro, secondo l’accezione morale corrente. Quando si percepisce il carattere costitutivo dell’altro, non è più questione di ‘mio’ e di ‘tuo’. L’accettazione dell’altro fino alla rinuncia per il proprio sé individuale è una modalità di affermazione del sé relazionale, con pienezza di riconoscimento della propria esistenza singolare.
E’ ciò che intendo con ‘senso’: la percezione che la propria vita è degna d’essere vissuta in quanto momento integrante di un vasto percorso temporale, di una vita collettiva passata, da cui proveniamo, presente in cui siamo e futura, cui aspiriamo. “L’aver senso” è l’intelligenza, emotiva prima che intellettuale, del nostro esser parte attiva di un insieme vivente più vasto nei cui confronti abbiamo una obligation (uso un termine ‘tecnico’ di Simone Weil) – anzi, nei cui confronti siamo una obligation. Il bisogno di senso è un bisogno culturale primario, se non il primario. Ciò che Mauss chiamava ‘fatto sociale totale’. E scatta con forza soprattutto nell’esperienza del dolore.
“Il dolore esige di avere senso poiché sembra inconcepibile che l’esistenza sia spezzata senza ragione. Per essere almeno tollerato, il dolore deve assumere un significato ed essere associato a una sorta di metafisica della giustizia.”, David Le Breton, Esperienze del dolore, Raffaello Cortina 2014, p. 11).
Inconcepibile e quindi intollerabile. E con questa citazione, che ancora una volta mi riporta a Michelstaedter, il quale coniuga insieme dolore e giustizia, premetto una tematica che cercherò di trattare più avanti.
Può accadere che dia più senso perdere la vita che conservarla, anche, appunto, perché il senso non guarda solo alla vita individuale. Di ciò vi sono esperienze nemmeno tanto rare. Sono esperienze al limite, che gettano uno sguardo oltre la soglia fra possibile e impossibile. Ma credo che il mondo sia pieno di esperienze del genere, sconosciute e quotidiane.
Viaggiando fra genti quotidianamente violentate, come gli abitanti nativi della Cisgiordania, lo si tocca con mano, come è indicato dal motto che là ho sentito e visto attuare: esistere è resistere, resistere è esistere. Un motto michelstaedteriano.
Queste esperienze di senso sono certamente diverse per l’uomo e per la donna. Non voglio dire che per la donna sia più facile. Non lo so. Per la donna il rischio è l’oblatività cui è addestrata, una difficoltà forse non minore di quelle cui va incontro l’uomo. L’uomo e la donna, nella loro forte disparità, si sono formati come storicamente complementari. E’ piuttosto evidente, tuttavia, che nelle situazioni critiche la donna regga meglio e abbia più vivo il sentimento della relazione, probabilmente perché è molto meno scissa dell’uomo fra res cogitans e res extensa.
III
“La trama nascosta è più forte di quella manifesta” (Eraclito, fr. A 20 ed. Colli, Adelphi 1978).
Ho detto prima che il potere – questo onnipresente formatore di soggettività – è il fenomeno relazionale che si costituisce nel prevalere di una dimensione sulla contraddittoria duplicità della condizione soggettiva – vorrei dire: dell’angoscia dell’essere-per-la-morte sul desiderio di vita, cioè di rinascere quotidianamente.
Formare soggettività, assoggettare, significa definire e quindi circoscrivere possibilità: i percorsi del viaggio esistenziale in cui la soggettività consiste. Dare un’unica direzione al tempo di vita.
Il potere è figlio del connubio nefasto di angoscia e desiderio, per cui il desiderio diviene desiderio d’impossessamento, d’appropriazione ovvero di potere, di controllo, di dominio, la cui forma attuale e suprema è il denaro.
Chi ha potere è colui che può, che ha delle possibilità, ma, più precisamente, è colui che può determinare possibilità altrui, ciò che equivale possedere (la cui radice è sempre ‘potere’). Chi non ce le ha, non può, non ha possibilità proprie, ma solo quelle consentitegli appunto da chi può, dal sistema di potere, dal padrone del possibile. Di conseguenza, il potere è un fattore fondamentale dell’antropogenesi, così come finora storicamente è accaduta. E’ un fondamentale modo di produzione e di governo dell’umano. Produce formazioni antropologiche, forme di vita (Rahel Jaeggi), dispositivi di assoggettamento collettivi e quindi individuali. Ciò si attua, appunto, mediante la circoscrizione dell’orizzonte del possibile, oltre il cui cerchio si aggira l’im-possibile.
Il potere ‘lavora’ sulle emozioni, sull’immaginario, sul linguaggio, su ciò entro cui emerge a prender forma la soggettività individuale: trasmissione genealogica, ordine familiare e sociale, acculturazione. Agisce sul bisogno elementare di prevedere il futuro, quindi di avere degli schemi più o meno fissi di previsione, di orientamento, degli stereotipi culturali.
Questa è un’esigenza intrinseca anche al pensiero, alla scienza: classificare e dunque di fissare, che vuol dire anche porre dei confini, dei divieti; scavare forme definite dentro la complessità – identificare l’altro da sé e quindi il sé, inteso come ‘persona’. Non a caso si parla di leggi sia in ambito scientifico che giuridico.
Incardinandosi in questi bisogni fondativi della cultura e mettendoli al proprio servizio, il potere costituisce, nel continuo cangiare delle vicende umane, una classe di comportamenti e di relazioni che sembrano immutabili. Oltre le mutevoli forme assunte – da quelle più arcaiche, al capo clan, al patriarca, al signore feudale, al monarca ‘assoluto’, alla democrazia rappresentativa, al potere ‘globale’ del capitale finanziario -, agisce un’invariante, che è il potere stesso: il dominio di una parte sul tutto, dei forti sui meno forti e sui deboli – quali che siano i dispositivi attraverso cui la forza diviene violenza; il dominio dei pochi sui molti (perché la forza violenta seleziona), che devono rientrare nel campo di possibilità stabilito dai pochi. Qualche tempo fa, mi sono ritrovato per caso sotto gli occhi il famoso brano di Tacito:
« Predatori del mondo intero … dopo aver devastato tutto, non avendo più terre da saccheggiare, vanno a frugare anche il mare; avidi se il nemico è ricco, smaniosi di dominio se è povero, tali da non essere saziati né dall’Oriente né dall’Occidente, gli unici che bramano con pari veemenza ricchezza e miseria. Distruggere, trucidare, rubare, questo, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il deserto, lo hanno chiamato pace. » (La vita di Agricola).
Se un testo scritto 1900 anni fa è così perfettamente adatto al nostro tempo, ciò accade perché, al di là dell’enorme differenza socio-economica fra la civiltà romana e quella capitalistica, Tacito mette in rilievo il fenomeno del potere, che sta dietro la ‘moderna’ ricerca la del profitto, fenomeno che oggi, come allora, appare nella sua nudità devastatrice.
L’efficacia ancestrale di qualunque dispositivo di potere sta anche nel fatto che è inseparabile da una funzione vitale essenziale: la produzione e riproduzione di un ordinamento e di una classificazione dei viventi, necessari per affrontare il caos dell’immediatezza vitale, ma che produce anche gerarchia, in cui compaiono da sempre tre grandi classificazioni stereotipiche principali, tre dispositivi d’ordinamento e di potere che si implicano a vicenda: genere, razza e classe.
Ma il genere e la razza offrono il vantaggio di una maggior disponibilità alla fissazione naturalistica rispetto alla classe, che più difficilmente può esserlo, almeno in epoca moderna.
“L’arcaico è qualcosa di rimosso che continua a vivere in forme invisibili nel moderno […] ogni tanto affiora, viene alla luce senza che se ne abbia consapevolezza … ho studiato il fenomeno del razzismo inconsapevole. C’è un immaginario razzista che non sa di esserlo” (intervista dell’antropologa Clara Gallini a “la Repubblica”, 2/11/014).
Del resto, anche Freud, che non si riferisce all’androcentrismo ma generalizza, afferma nelle Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte del 1915: “anche noi, considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini” (Opere Complete, VIII, p. 145). A questa citazione del fondatore della psicoanalisi, aggiungo le conclusioni di un sociopsicologo americano, John Steiner, che commentando una serie di esperimenti comportamentali – tutti su uomini, suppongo – conclude “tutte le persone … posseggono un potenziale di violenza che in determinate condizioni può essere innescato” (citato in Szigmunt Bauman, 1989 Modernità e Olocausto, il Mulino)
Perciò ginofobia e razzismo risorgono così facilmente nei tempi di crisi, quando le identificazioni vanno in crisi e più forte si fa il bisogno dell’inferiore e del nemico. Ginofobia e razzismo possono anche diventare intercambiabili, come pensava Gustave Le Bon, l’influente autore della Psicologia delle folle (1895), studiata dal Freud de La psicologia delle masse e analisi dell’io (1921): “in queste razze superiori, i crani femminili sono spesso appena più sviluppati di quelli delle femmine delle razze molto inferiori” (cit. in Maurice Olender, Razza e destino, Bompiani 2014, p. 98)
In sintesi: il potere è dunque alla sua radice gestione del tempo come controllo sui possibili, che implica la de-cisione del confine fra possibile e impossibile. Ogni forma di potere ha i suoi impossibili. Il potere agisce sull’angoscia prodotta dalla misteriosa imprevedibilità del tempo. Agisce sulle più intime speranze. Trasforma l’indefinibile dell’angoscia in paure determinate, da cui mostra di potere difendere, paure determinate nei confronti di ‘oggetti’ immaginari o reali che esso stesso indica. Offre sicurezza, per lo più immaginaria, cui si accompagna l’implicita minaccia di poterla togliere in ogni momento. E’ questa la normale arte di governo.
Il più potente strumento di assoggettamento storicamente prodotto da un sistema di potere è il denaro, la cui enorme efficacia, come forma di controllo dei possibili mediante il suo poter diventare oggetto generale del desiderio, appare, ai nostri giorni, pienamente dispiegata – ma era già ben nota da moltissimo tempo: la nomina con forza Lucrezio: hominum genus […] non cognovit quae sit habendi/finis.
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IV
“Non v’è uomo che non voglia esser despota quando gli tira” (Sade, La filosofia nel boudoir)
Ritengo dunque plausibile l’ipotesi per cui il potere sorga (prolungando la nota tesi della longue durée della scuola storica delle Annales, che può ben raccordarsi con la freudiana concezione ‘geologica’ della soggettività) in epoche remote dell’antropogenesi come bisogno di controllare la riproduzione della vita, controllo storicamente ricaduto su colei che può riprodurla, la donna. Nasce, quindi, con il dominio del genere maschile su quello femminile, producendo l’irrigidimento culturale della differenza sessuale in differenza di genere. Il fenomeno del potere è nato androcentrico. Probabilmente, l’esigenza di controllare la riproduzione umana e quindi la donna si accentua con le prime società agricole, rispetto alle società di caccia e raccolta; con le prime forme di controllo della quotidiana necessità di alimentare la vita, accompagnata dalla produzione degli strumenti indispensabili.
“… il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose, dall’altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie” (F. Engels, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello stato, “Introduzione alla I edizione”, Editori Riuniti, Roma 1963, p. 33).
“con estrema monotonia, le società umane sovradeterminano la differenziazione biologica, assegnando ai due sessi funzioni differenti … nell’ambito del corpo sociale” (M. Mathieu, in Non si nasce donna, Edizioni Alegre QV, 2013, p.102).
Il bisogno di controllare l’inafferrabile misteriosa dinamica della vita mi sembra il più profondo bisogno delle società umane. Forte come per ogni vivente è la fame – forse sta qui la sua origine, nell’elementare bisogno di sopravvivenza che richiede un controllo dell’ambiente. Qui si annida anche il carattere possessivo (di potere) del rapporto uomo/donna. “E’ un terreno rivelatore ed esplosivo, se un altro mondo sarà possibile dipenderà molto anche da come verrà affrontato il nodo del rapporto fra i sessi” (Paola Tabet, cit., p. 5)
Ciò è oggi reso molto evidente dall’importanza delle “scienze della vita” che “hanno assunto una posizione di comando” nell’orientamento della ricerca scientifica da parte dell’economia, “nella nuova configurazione delle relazioni di potere”, caratterizzata dall’assunzione diretta del potere da parte dell’economia, saltando la mediazione politica legata al conflitto sociale. La forma attuale di dominio cerca di annettere il controllo della vita “alle leggi del commercio e del mercato” (Eva Illouz, La vita come plusvalore, Ombre Corte, p. 90)
Siamo di fronte, anzi dentro una veramente estrema sussunzione del tempo di vita, nella sua complessità, al tempo dello scambio mercantile e, in definitiva, al tempo astratto del denaro.
“Ciò che costituisce il valore del capitale nel nostro sistema sociale è l’accumulo di informazioni in sé, l’immanente qualità della vita. La sua capacità di auto-organizzazione, estratta attraverso le tecniche impiegate dal’ capitalismo cognitivo’ per testare e monitorare le capacità affettive dei corpi ‘bio-mediati’: la prova del DNA, le impronte digitali del cervello, l’imaging neuronale, la rilevazione del calore corporeo e il riconoscimento virtuale dell’iride o della mano. Tutte queste tecnologie sono immediatamente rese operative come dispositivi di sorveglianza, sia nella società civile che nella guerra contro il terrorismo: una governa mentalità necro-politica che convive felicemente con la gestione della vita stessa” (Eva Illouz, cit, p. 118).
Qui siamo di fronte a un paradosso ontologico. Il bisogno di dominare la vita porta alla sua distruzione.
“Armato della sua intelligenza [Homo sapiens] … ha vinto la natura e i suoi pari miserabili nel corso di un’evoluzione guerriera … trionfo tuttavia così paradossale, che potrebbe, in cambio trascinare la specie allo sradicamento …l’arma minacciosa dell’intelligenza, tuttora orientata dal lato del veleno e della zanna…” (Michel Serres, Tempo di crisi, Bollati Boringhieri, 2010 p. 84)
La vita, infatti, ha anche – e soprattutto – bisogno di essere accudita, accolta, mantenuta e promossa. Direi: amata, se questo verbo non fosse così difficile da usare in modo non banale.
Secondo un’ipotesi portata avanti da un filone psicanalitico, in cui mi ha colpito particolarmente la ricerca di Felicity de Zulueta su come “la violenza derivi dall’attaccamento andato male”, un ‘andar male’ che è però la norma nelle nostre società. De Zulueta, nel suo notevole libro Dal dolore alla violenza (Cortina 2009), scrive:
“[è] importante capire che alle radici della violenza umana c’è soprattutto la disumanizzazione dell’”altro”; questo processo sembra quasi intrinseco alla differenziazione dei ruoli maschile e femminile che esiste nelle culture patriarcali. Il risultato è che i maschi diventano ‘uomini’ a spese dell’”altro” femmina” (p. 381)
Un infante il cui “attaccamento” (termine tecnico), che non è solo il legame primitivo con la madre, è andato male, muore o sopravvive soltanto o, come accade per i più, diventa violento. Quest’ultimo sviluppo è per i maschi socialmente approvato e anche imposto come un valore (entro i limiti della norma-lità vigente). A me pare, con lo psichiatra Jan Suttie, autore de Le origini dell’amore e dell’odio (1935, trad. italiana Centro Scientifico Editore 2007) che sia opportuno, concettualmente e praticamente,
“prendere in seria considerazione l’ipotesi che il bambino possa recare in sé dall’inizio tanto la capacità quanto la volontà dell’amore e che nell’angoscia di separazione e nella protesta rabbiosa egli si stia incamminando verso due possibili direzioni. Nel primo caso aspira a recuperare quel rapporto d’amore nel quale non esistevano competizione, rancore o sospetto …; nel secondo caso, il bambino mostra invece di rinunciare a questo tipo di relazione amorosa spontanea a favore di una relazione alternativa basata, questa volta, sul potere” (cit. p. 44)
Nel fenomeno del vivente e della cultura sono racchiuse dunque altre possibilità – e qui torna il discorso di prima – che sono necessarie, tutt’altro che un lusso superfluo, perché la vita continui e si sviluppi e senza di cui a lungo non può reggere. Non si tratta di abbandonarsi a filosofemi romanticheggianti – non a caso preferisco appoggiarmi a psichiatri -, ma di capire che la vita, non solo umana, è relazione, è un sistema dinamico relazionale e che la relazione comporta due possibilità principali: la contrapposizione offensiva/difensiva (violenza) e l’accoglienza, che implica l’accettazione del rischio, perché relazione vuol dire anche possibilità di perdita di controllo, impossibilità di controllo; al limite caos – quindi follia o morte -, quando la complessità supera la capacità del soggetto.
Le due possibilità, tuttavia, non possono separarsi del tutto, perché, se prevale completamente la prima, la vita tende a distruggersi. Il potere sa che allora può crollare anch’esso. Perciò usa questa dimensione necessaria sottomettendosela: la delega al genere femminile, che da questa delega viene plasmato. Il bisogno di controllo ha facilmente prevalso su quel bisogno che possiamo chiamare di cura, in senso lato, cura per la vita nei suoi molteplici aspetti. Nell’usare questo termine facilmente equivocabile, non mi riferisco soltanto all’ambito tradizionale della cura domestica delegata alle donne, ma penso anche alla cura dell’ambiente e a riferimenti concettuali diversi come in Heidegger (Essere e tempo, 1927) e nell’ultimo Foucault (L’herméneutique du sujet, 1982).
Intendo con cura il comportamento che scaturisce dalla piena comprensione di essere parte integrante della vita come insieme relazionale aperto, umano e non umano; un comportamento di rispetto, aiuto e compartecipazione nei confronti della convergente diversità e singolarità dei fenomeni della vita.
Oggi, al contrario, sembra che il dispositivo economico abbia perso la capacità di capire fin dove arriva il suo limite nel sottomettersi l’intero sistema della vita.
Come una macchina senza manovratore.
L’arcaica formazione di un potente immaginario maschile inconscio – profondamente stratificato dentro (quasi) ogni cultura e senza dubbio nelle grandi culture che hanno influenzato, dominato e distrutto tutte le altre – è dunque responsabile di ciò che appare come la perennità storica delle formazioni di potere e della vanità dei tentativi di superarlo. E’ significativo, in tal senso, che oggi sia un’unica cultura, quella di matrice europea, a dominare.
Ciò si può cogliere con particolare evidenza nella storia delle rivoluzioni, cioè dei tentativi di costruire formazioni sociali in grado di superare l’ingiustizia sociale. In particolare nella più ricca di valenza simbolica, quella sovietica, che generò, in un drammatico travaglio, un potere simile al preesistente (certo con importanti differenze sul piano sociale, come l’istruzione e sanità per tutti, residuo delle originarie esigenze liberatrici, ma anche con un’inesausta capacità di violenza nel periodo staliniano).
Il potere genera potere, riproducendo se stesso. Cambia sempre per restare identico. E’ una delle sue caratteristiche rinascere dalle sue ceneri, come la Fenice. E’ questo forse uno dei significati impliciti che si possono leggere nell’importante concetto hegeliano di Aufhebung: togliere per conservare.
I dispositivi d’identificazione propri delle varie forme di potere, sono moltissimi e diversissimi, da quelli di tipo religioso, validi (sembra) in ogni tempo, al nazionalismo, al localismo, a quelli di tipo razziale o etnico, a quelli innumerevoli legati alle più svariate articolazioni dei ruoli sociali.
Nel corso degli ultimi duecento anni, si sono enormemente diffusi i dispositivi d’identificazione legati al lavoro produttivo. A questi si sono contrapposti dispositivi alternativi, come l’identificazione politica di classe, elemento portante di un grande immaginario culturale otto-novecentesco di lotta e di liberazione, per cui sembrava possibile “dare la scalata al cielo”; dispositivo giunto a consunzione, a quanto sembra, negli ultimi decenni del secolo scorso, almeno nelle forme note. Questo immaginario sembrava mostrare possibile ciò che il potere, nella sua moderna veste economica, riteneva e voleva rendere impossibile. Oggi la scalata al cielo sembra, appunto, impossibile e l’economia nella sua accentuazione neoliberista è divenuta l’orizzonte unico dell’immaginario culturale.
Ho accennato sopra al passaggio per cui questo immaginario alternativo, quando poté e volle passare alla costruzione concreta dell’alternativa, si trovò a ripercorrere le vecchie strade del potere, ricadendo su se stesso dopo aver sbattuto contro il muro dell’impossibile.
Ho anche ricordato come pensiero e pratiche femministe negli anni Settanta abbiano mostrato dove stava l’impossibile per le rivoluzioni che si definivano comuniste, il buco nero che finirà con il risucchiare il desiderio del nuovo nella ri-produzione del vecchio.
Da questa zona cieca, che copre insieme il soggettivo e lo storico-sociale, bisogna ri-partire.
Si tratta allora di capire come praticare l’impossibile oggi, in un’epoca in cui il dominio del possibile, ridotto all’economia capitalistica nella sua versione estrema, quella finanziaria, cerca di occupare tutto l’orizzonte dell’immaginabile.
Quando non esiste un immaginario collettivo dell’impossibile, non possiamo che cominciare dal singolo (singolo, ovviamente, non individuo).
La condizione di singolarità – l’esser ciascuno un centro di energia relazionale, aperto quindi e intrinsecamente politico – deve essere colta e manifestata consapevolmente nella sua piena valenza politica.
Ognuno deve, per principio, considerare se stesso come generatore di socialità. Oggi c’è una radicale mancanza di riferimenti a livello di forme associative date, ma anche della capacità di associarsi in maniera continua, creativa, efficace. Ci sono, certo, gruppi, centri sociali, esperienze collettive anche in forme di creazione ‘artistica’. Ma sembrano impotenti di fronte all’imperversare dell’economia e alla ripresa di forme autoritarie di governamentalità anche in paesi con tradizioni di ‘democrazia’ rappresentativa. Si manifestano continuamente, qua e là, ‘movimenti di massa’, imprevedibili, che non sembrano però, per ora, trovare i modi di una durata efficace. Nascono, peraltro,in situazioni di disagio e di percepita ingiustizia, dalla libera associazione di pochi, al livello appunto di scelte di singoli.
Del resto, l’importanza della dimensione della soggettività, nei suoi aspetti già definiti ‘privati’, è stata ben colta a modo suo dal capitale che l’ha ‘messa al lavoro’ e al profitto mediante la sua formidabile potenza d’astrazione – ragione della sua forza apparentemente invincibile – attraverso la formulazione elettronica. Come ci indicano Andrea Fumagalli e Cristina Morini, nel linguaggio proprio di un’analisi socio-economica mirata alla pratica politica, parlando di “processo di sussunzione vitale” in atto:
“Oggi all’attività di inchiesta più tradizionale, ancorata allo studio dei processi di organizzazione del capitale e del lavoro, occorre aggiungere un nuovo tipo di inchiesta, di natura differente che, in linea con la sostanza “bio-cognitiva” dell’attuale paradigma produttivo, attiene all’analisi della partecipazione psicologica individuale, alle forme di vita, agli stati d’animo, agli aspetti affettivi, al grado di dipendenza e/o di autonomia dai processi di creazione immaginifica del consenso. In altre parole, vanno approfondite le dinamiche e i fattori che più innervano il processo di sussunzione vitale. Il fine è costruire una chiave di comunicazione “comune” in grado di aprire ambiti di confronto trasversale con tutte quelle soggettività che ritengono di soffrire in solitudine lo stato di crisi” (Tratto dal sito Commonware.org).
V
Ma ora deve comparire un altro elemento, secondo me essenziale, per un pensiero politico: il carattere tragico della condizione umana.
Senza il riconoscimento di questa dimensione, la politica di liberazione rimane un’appendice laica della religione, legata cioè a un immaginario e a una speranza posti in un perenne altrove.
Che cosa intendo con ‘tragico’?
Il tragico sta nell’irreversibilità della vita e della storia. Quindi, nel tempo.
La sofferenza indicibile di coloro che sono passati e di coloro che, senza speranza, soffrono nel presente, è irredimibile. E’ qualcosa di inaccettabile e insieme ineliminabile dalla condizione umana.
Nel mio viaggio in Palestina ho visto un’intera popolazione di milioni di persone sottoposta a un sistematico tentativo di riduzione ai limiti della mera sopravvivenza o anche peggio.
Sappiamo che sono annegati a migliaia bambini, donne, uomini nel mare fra l’Italia e la Libia. E sappiamo che ciò continuerà ancora.
Nessuna meravigliosa condizione futura, per quanto soddisfacente, potrà riscattare questo dolore. Chi vive o muore nella sofferenza prodotta dall’impossibilità di vivere una vita degna di essere vissuta, ha due possibilità.
Può riscattarsi da sé, riuscendo a dare un senso alla propria sofferenza e alla morte. Per dare un facile esempio, un individuo torturato e ucciso perché non rivela il nome dei suoi compagni (come un palestinese, o un argentino durante la dittatura militare o tante altre situazioni simili di ieri e di oggi – ma questo è di pochi, relativamente). Ma pensiamo, soprattutto, a situazioni meno o nient’affatto ‘eroiche’, del tutto sconosciute, di solidarietà attiva e creativa, che avvengono ogni giorno nelle innumerevoli situazioni drammatiche del nostro mondo e senza di cui il mondo affonderebbe più rapidamente.
Se non riesce o non può, soprattutto se è impedito a farlo e soffre o muore senza senso – come avviene ogni giorno per moltissimi, per i più – è perduto per sempre. Niente e nessuno possono riscattare quel dolore senza parola e senza nome. E ciascuno di noi è un po’ perduto con loro. Ritengo infatti che ci sia un legame fra tutti gli esseri umani, anzi fra tutti i viventi che, per quanto al disotto di ogni consapevolezza, agisce sempre nell’”intimo” di ciascuno e nelle collettività.
Questo è il tragico.
La rimozione del tragico ha prodotto la religione e un immaginario politico che, in ultima analisi, da essa deriva, se colloca la realizzazione della speranza in un futuro indeterminato che non ha rapporto con il presente.
Il movimento comunista, l’immaginario utopico novecentesco pensava di poter togliere (aufheben: in un’altra accezione) tale condizione in un futuro riscatto. Non ha fatto altro, svuotando di senso il presente, che facilitare l’indifferenza o la scarsa attenzione per la vita dei singoli, che vivono sempre nel presente.
La proiezione in un futuro sperato tende a portare e ha effettivamente portato alla cattiva dinamica del rovesciamento del rapporto tra i fini e i mezzi, sacrificando la vita presente ridotta a mezzo per la vita futura.
Benjamin comprese, nella raffinata tensione del suo pensiero, la difficoltà di questo passaggio. Nelle Tesi sulla storia (e nei materiali relativi), fa un’affermazione importante, cui ho già accennato prima. La riassumo come la intendo. L’unico riscatto possibile del passato è la fedeltà alle possibilità di liberazione, immaginate in qualche modo nel passato, ma represse, dimenticate e rimosse. La fedeltà agisce, però, soltanto nell’interpretare in situazioni diverse, quindi trasformare, fare qualcos’altro di quelle possibilità. Questo tipo di fedeltà storica può avvenire soltanto se è creativa, innovativa. Altrimenti fallisce, diventa sterile o mitologica. Rientra nei cupi stereotipi identitari. E’ qui implicito il riferimento a una concezione complessa, molteplice, stratificata del tempo come fascio di possibili, la cui riduzione lineare è frutto dell’imposizione dell’unica temporalità del dominio – il tempo dell’economia, del capitale.
In ogni caso, però, i singoli portatori in carne ed ossa di quelle speranze che con esse allora naufragarono, non possono essere riscattati. E ciò non si può dimenticare. E insieme, come ho detto prima, non possiamo dimenticare gli innumerevoli individui che non hanno potuto e nemmeno possono avere speranze.
Come ci ha indicato Freud, la rimozione agisce distruttivamente nel profondo, individuale e collettivo.
La sofferenza irredenta era un punto di crisi anche per un cristiano come il Dostoewskij de I fratelli Karamazov: “Perché anch’essi [i bambini come esempio di sofferenza innocente] dovrebbero costituire il materiale per concimare l’armonia futura di qualcun altro?”. Ed è un punto di crisi per qualunque riscatto posto in un futuro più o meno remoto.
Lo stesso Benjamin concludeva il suo saggio del 1922 “Le affinità elettive” con la frase: “Solo a chi non ha più speranza è data la speranza”, che ricorda molto da vicino il sintagma di Michelstaedter: “una disperata speranza” e anche il suo motto in esergo a questo scritto: “il coraggio dell’impossibile” (forse per entrambi la risonanza di un’antica voce ebraica, che Emmanuel Levinas ha ripreso). Ma l’impossibile è anche un altro nome di ciò che Eraclito chiamava l’insperabile, anélpiston: “Chi non spera l’insperabile non lo scoprirà, poiché è chiuso alla ricerca, e a esso non porta nessuna strada. (E’an mé élpetai anélpiston ouk exeurései, aneuxeuréseton eòn kaì àporon” (Eraclito, fr. A 63 Colli)[3]
Chi sa se Michelstaedter, che non cita questo frammento, l’aveva in mente…
La disperata speranza sta nel fatto che ogni essere umano può farsi portatore d’alternativa, lì dove si trova, assumendosi il rischio del fallimento che coinciderà con quello suo personale. Non ne conosco miglior narrazione di quella scritta da Varlam Salamov nel racconto (autobiografico) “Il primo dente” in I racconti di Kolyma,
“E all’improvviso mi sentii come una vampata al cuore. E compresi che tutto, tutta la mia vita sarebbe stata decisa in quel momento. E che se non avessi fatto qualcosa, ma che cosa esattamente non lo sapevo neanch’io, significava che ero arrivato fin lì per niente, che avevo vissuto inutilmente i miei vent’anni.
Uscii dalla fila e con voce rotta dissi:
– Non si permetta di picchiare quell’uomo” (Einaudi 1999, p. 697).
Questa narrazione è esemplare perché presenta la drammatica evidenza tipica di una situazione estrema. Le situazioni estreme – il mondo ne è pieno – sono esemplari per la loro potenza rappresentativa. Mostrano ciò che la ‘normalità’ nasconde o rimuove, ma di cui pure si nutre, in tutti sensi, compreso quello letterale: basta pensare a come sono prodotti quasi tutti i nostri generi alimentari. La normalità è la condizione di una limitata percentuale di esseri umani che stanno in quelle parti del mondo o di quei gruppi sociali che si possono definire genericamente ‘benestanti’, il cui stile di vita e le cui aspettative sono imposte a tutto il mondo come immaginario dominante.
La ‘normalità’ è la rimozione del tragico.
C’è un altro aspetto fondamentale della normalità, messo in evidenza dalle catastrofi den nostro tempo, fra cui esemplare quella sintetizzata nel nome simbolico (e ahimè sacralizzato) di Auschwitz. Tali catastrofi non sono animate dalla crudeltà ma dalla normalità, come fra i primi, mostrò Annah Arendt con il suo concetto della banalità del male, formulato dopo aver seguito le sessioni del processo gerosolimitano contro Eichman. Come nota Szigmunt Bauman nel suo importante Modernità e Olocausto, gli stermini di massa della modernità non nascono dall’infrazione dell’ordine, ma dall’obbedienza e, aggiungo, dalla passività e dall’indifferenza, che sono potentemente sollecitate dall’organizzazione delle società moderne. L’apparato burocratico delle società moderne e lo sviluppo della tecnologia hanno un’elevatissima funzione deresponsabilizzante, dovuto allo spezzettamento dell’azione in un’organizzazione complessa e alla sua diffusione in gruppi vasti, come l’esercito, la burocrazia, l’organizzazione del lavoro, la quale si manifesta sia nel voltare la testa dall’altra parte, sia nell’eseguire ciò che è comandato dall’autorità. In tale contesto, lo sterminio nazista non è unico ma, al contrario, esemplare. La stragrande maggioranza dei componenti degli eserciti tedesco nella seconda guerra mondiale e americano in Vietnam, i piloti di Hiroshima, erano uomini comuni come recita il titolo del libro di Christopher Browning che studia il comportamento di un battaglione di riservisti tedeschi durante la seconda guerra mondiale (Einaudi 1995). E oggi il processo di dissociazione fra attore e conseguenze dell’azione è ancora più avanzato (droni): “questa capacità di separare legittima qualunque delitto” (Simone Weil, citata in G. Chamayou, Teoria del drone, Derive e Approdi, 2014).
Il tragico comporta una diversa esperienza del tempo.
Un’esperienza non più proiettata verso un futuro in fuga dal presente, sempre necessariamente immaginato sulla base di un presente vuoto che lo risucchia verso un altrove perenne; bensì, un’esperienza del presente come attestazione della propria capacità di costruire relazioni, di fare collettività, dalla cui attiva presenza scaturisca la promessa di un futuro ricco di vita. L’esistenza si dà sempre nel presente e il suo primo darsi parte sempre dal desiderio del singolo per l’altro che lo costituisce. Giocando un po’ con le parole, si può dire: una concezione intensiva e non distensiva del tempo
Il futuro si può immaginare politicamente soltanto a partire da un’esperienza attuata nel presente. Se non c’è da qualche parte una capacità costruttiva/creativa in atto nel presente, in grado di comunicarsi, di estendersi, non ci può essere un futuro positivo, che non può arrivare dall’alto o dalla folgorazione di un evento straordinario.
Tale esperienza è costretta a confrontarsi necessariamente con la situazione data, cui può anche soccombere. Anzi, è quello che per lo più accade. Sarebbe fondamentale non soccombere, ovviamente, e produrre sempre più vasti inizi di socialità degna di questo nome. Ma l’essenziale è che accada sempre un nuovo inizio, che la fiamma non si spenga; sia riprendendo creativamente possibilità represse e rimosse nel passato, sia inventandone di nuove. In tal modo diventa possibile, come dice Michelstaedter con espressione precisa ed efficace, “preoccupare il futuro”, costituirne una pre-figurazione in atto.
Il carattere tragico della condizione umana, come è qui inteso, non comporta dunque una visione disperante. Anzi, ritiene che l’im-possibile di un nuovo inizio sia sempre qui. Concentra l’attenzione sul presente e sul singolo agente relazionale. E’ il fondamento di una pratica politica pensante senza delegare a niente o a nessuno nel presente e senza delegare al futuro. Il rifiuto della delega implica, però, la rinuncia a ogni tipo di sicurezza, l’assunzione della precarietà e del rischio intrinseco all’esistenza, che ogni società cerca di ridurre affidandosi a dispositivi di potere.
E’ l’implicito dell’ossimoro michelstaedteriano: una disperata speranza.
La consapevolezza del tragico mi sembra la necessaria base di una visione autogestita dell’esistenza collettiva e perciò veramente singolare, l’unica libera e liberante.
L’idea per cui il singolo cerca se stesso negli altri, ed è quindi intrinsecamente politico in quanto intrinsecamente relazionale, non può non essere il fondamento di una concezione per cui l’iniziativa parte ‘dal basso’, da un singolo appunto che, cercando se stesso, cerca gli altri – perché è questo l’atto esistenziale e politico fondamentale. Punti d’iniziativa singolari e perciò collettivi che cercano di crescere nel devastato corpo sociale dei nostri tempi, in cui i centri di potere ‘nazionali’ – già controparte raggiungibile ai tempi ormai trascorsi della democrazia conflittuale, unica forma di relativa democrazia: quella in cui la gente si organizza e agisce sul potere, restandone fuori – si sono liquefatti, per quel che riguarda l’essenziale, nel cielo della ‘globalizzazione’, divenendo quindi inafferrabili.
E l’iniziativa non può che partire da chi soffre lo stato presente delle cose, da chi soffre in vario modo sfruttamento e subalternità a dinamiche di potere omicide e ormai anche suicide nei confronti dell’insieme umanità-vita; da chi è privato di se stesso, dei suoi possibili resi impossibili, non solo nella forma classica dello sfruttamento produttivo, ma in una condizione esistenziale ormai interamente sottoposta a processi di sfruttamento e dominio di un capitalismo privo di quella attiva controparte, in grado di frenarlo e anche, in qualche modo, di dirigerlo dove non voleva andare, che era in passato la classe operaia in quanto soggetto politico. L’iniziativa sarà diversa ma confluente per uomini e per donne, innanzitutto, e per le innumerevoli tipologie e contesti dell’immensa popolazione dei subalterni.
Riprendo ancora il motto palestinese citato sopra: esistere è resistere/resistere è esistere – l’esistenza come resistenza. In Palestina ciò assume l’evidenza di una situazione estrema in cui i corpi, le case, la terra, l’acqua – ciò su cui poggia l’elementare della vita – è quotidianamente minacciato e tolto. La vita, lì, nei villaggi resistenti, però, è vita e non sopravvivenza.
E’ molto più ai limiti della sopravvivenza colui che conduce una vita tranquilla e confortevolmente affaccendata nelle comuni attività di un ricco paese occidentale.
E’ molto più disperato chi si dibatte senz’alcuna possibilità di resistenza fra le mille difficoltà dell’”austerità” neoliberista.
La consapevolezza del tragico mette l’iniziativa politica nelle mani del singolo, alla portata di chiunque, sapendo che se non si fonda su ciascuno come punto d’inizio dei molti, tendenzialmente dei tutti, qualunque imponente sommovimento di massa o defluisce o finisce in un cul de sac gerarchico e quindi viene a cadere ogni processo di liberazione.
Il tragico sta anche nel dato per cui il progetto collettivo può soltanto sgorgare da noi, da chiunque, senza garanzie religiose o di metafisiche della storia, fossero pure ‘materialiste’.
Tutto è affidato alla decisione – sempre singolare nel punto d’inizio e perciò veramente collettiva – di esporsi e rischiare per l’unica cosa che può dar senso all’esistenza: costruire comunità di eguali e differenti che è, nello stesso tempo, costruire se stessi.
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[1] In ‘impossessamento’ c’è la radice potis, che può; ‘appropriazione’ rimanda a rendere proprio, incorporare.
[2] Sociologo brasiliano, organizzatore del Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre
[3] Devo questo suggerimento al saggio di Gianfranco Bonola, “Redenzione del passato” in Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio in “Quaderni di Millepiani”, Mimesis 2002, pp. 29-43.