di Sandro Casanova
(numero speciale de I Quaderni del Venerdì)
Articolo scritto per La Bottega del Barbieri
A volte mi sento più vicino e dico sì, mi ci riconosco, in certi momenti mi ritrovo ai margini. Sicuramente faccio ampio uso di stereotipi, anche quando cerco faticosamente parole mie. Mi dicono spesso che l’espressione degli occhi, del volto tradisce quello che volevo comunicare e posso arrossire di fronte a un commento inaspettato, perdo il filo e mi lascio prendere dall’emozione. Non sono di certo l’esempio dell’uomo che ha il controllo della situazione. Mi chiedo: dove mi colloco nella linea ondivaga e incerta della mascolinità?
Penso a quando mi invitano e sono catalogato come “esperto”. Della maschilità. Si può essere un esperto, un rappresentante della voce maschile? Ha senso? Io credo di poter rappresentare solo me stesso. Sono quello che dico, faccio, sono i mie gesti, la mia postura, il mio corpo. Che cambia nel tempo. Dò per scontato che tutti si fanno immediatamente un’idea di me. Che difficilmente si avvicina alla mia autorappresentazione.
E va bene, spesso qualcuno (sempre uomini) mi rimprovera di essere troppo out of the closet, che nemmeno sottotraccia ma apertamente parlo dei miei affetti, della mia sessualità, insomma del mio privato. Come se fosse un’esplicitazione invadente, quando l’oggetto della conversazione di amici, conoscenti o persone da poco conosciute ricade perennemente sulla (loro) sessualità. Eterosessuale.
Mi sono fatto questa idea: certi discorsi sono autorizzati e altri devono rimanere in silenzio ed evidentemente c’entra l’orientamento sessuale.
Insolito, nella vita adulta mi si chiede di non pronunciarmi sulla mia omosessualità, salvo poi fin da adolescente (e probabilmente da prima) venire messo alla prova sulla presunta automatica eterosessualità. C’entra con il cognome che porto? – potrei narrare all’infinito episodi in cui mi è stato chiesto segno, traccia che qualificasse concretamente il mio cognome: all’aeroporto, in banca, all’ufficio elettorale, in biblioteca, a una presentazione in libreria in cui ero tra gli invitati, ogniqualvolta devo esibire le generalità, ma anche a una cena…
Il primo ricordo: al liceo, davanti a tutta la classe, il professore di italiano insisteva per sapere come impiegavo i mie pomeriggi, chiedendomi con pervicace maliziosità se mi comportavo come un casanova. Destino davvero beffardo: a 15 anni, timido e impacciato, dovevo già obbligatoriamente adeguarmi a essere un maschio eterosessuale. E performare come tale! Io non mi interrogavo minimamente su chi volevo affermare di essere. Anzi decisamente, nella contorta rappresentazione che mi stavo costruendo, ero più propenso a non trovare nulla di piacevole, piuttosto ero contro ogni etichetta che fin da bambino mi appiccicavano. Prima di dire a me stesso chi ero, soprattutto avvertivo cosa non mi piaceva, cosa mi sembrava assolutamente estraneo… faticando molto a intercettare i miei desideri. D’altronde i modelli maschili attorno con cui confrontarmi non erano particolarmente invitanti.
Certo, ce l’hanno messa tutta negli anni 80 per complicare la vita del sottoscritto indeciso e dubbioso sulla strada da percorrere. L’Aids non era un semplice fantasma minaccioso ma condizionava molto concretamente la quotidianità delle persone oltre a essere il più convincente mezzo del potere per sancire ancora di più i confini tra sessualità ritenute legittime e sessualità considerate devianti. Per molto tempo, non solo dai discorsi istituzionali ma anche nelle parole di persone vicine, ho avvertito una condanna morale sul mio corpo e sui miei desideri. In fondo, non è sempre la stessa strategia di controllo ed evitamento di cui parlavo sopra?
Nel limbo informe di un sentire incerto, non ci sto troppo dentro ma nemmeno completamente fuori alla mascolinità (godo comunque dei privilegi di essere un adolescente maschio, a casa, a scuola, mi viene permesso di fare certe cose che alle mie sorelle vengono negate). Ricerco faticosamente un posizionamento, un’identità dove accasarmi anche solo illusoriamente, anche per rispondere alle aspettative e partecipare legittimamente alla pratiche di convivenza sociale.
Aiuta rileggere la propria storia con un nuovo sguardo. Che è sopratutto politico e forse disincantato. Paradossalmente nelle tappe che allora leggevo come di smarcamento dal destino segnato (rigettare l’equazione nascere biologicamente maschi e identificarsi automaticamente eterosessuali) l’entrare nel mondo da una porta laterale per rivendicare orgogliosamente di farne parte con il proprio orientamento sessuale dissidente, lo spostamento simbolico e fisico dalla campagna alla città con tutte le sue facilities e l’accesso agli spazi di visibilità e socialità omosessuale, mi lasciano intravedere le avvisaglie di una collocazione che dai margini inevitabilmente rientra (volente o meno) al centro di quel sistema che contestavo. Alla luce dei fatti: soggetto consumatore perfettamente omologato.
La domanda allora è: quali strategie mettere in atto per non vedere la propria differenza normalizzata, come evitare che i propri desideri vengano imbrigliati, messi a valore per la produttività del mercato neoliberista, della nazione; perché nella quotidianità devo far rientrare le mie passioni, i miei affetti in uno standard sociale che impone, regola, disciplina i comportamenti e legittima, dichiara ciò che è degno e ciò che non lo è?
Eppure ancora una volta percepisco e vivo concretamente la mia precarietà esistenziale a tutto tondo, per tempi di vita e di lavoro, ovvero precarietà di identità maschile (ben lontano da certi codici ancora dominanti) di orientamento sessuale, di “instabilità” affettiva/ sessuale (non mi riconosco nella narrazione dell’amore romantico di coppia che oggi sembra l’unico modo per sdoganare l’omosessualità), di condizione economica, di reddito, di alloggio abitativo.
Cerco, forse in modo confuso, di decostruire e ricostruire, perché dentro alla crisi del maschile ci ho convissuto e ci convivo da sempre. Non si tratta di dipingersi come eroi (le medaglie servono più alla retorica del sistema che alla felicità delle persone) piuttosto cercare un equilibrio instabile anche là dove sembra prossimo il fallimento.
E’ il consiglio spassionato che rivolgo a quei maschi che, di fronte all’estrema vitalità dei movimenti femministi e transfemministi queer, sento discutere con timore quasi apocalittico della parola crisi, del maschile.