Incontro tra uomini
di Giancarlo Viganò
Una mail, un colpo di telefono e il ritrovo è davanti all’immenso ipermercato. Poche parole puntuali di riconoscimento e i quattro uomini si tuffano nell’autostrada che, quasi alla meta, espelle i naviganti perché bloccata da lamiere contorte. Non c’è problema né ansia, così capita e così ci si adegua e tra una parola e un’altra e un boccone veloce si aspetta che il tempo riapra il varco, per scivolare fino alla grande villa nascosta nella campagna romana dell’Appia Antica.
Un abbraccio coi nuovi compagni, l’offerta di una stanza con due lettini ed un matrimoniale. Anche brande da campo sarebbero state accettate senza un commento, gli uomini sono così, basta sdraiarsi.
L’indomani il sole scalda saluti timorosi e presentazioni accompagnate da sorrisi di circostanza, ma siamo qui, aperti alla curiosità, al desiderio di condividere. Colgo in me, mi pare anche in altri, l’inerzia di chi fatica a mettersi in moto, forse la resistenza ad affidarsi a guide non conosciute, così come soldati mandati in esercitazioni il cui senso sfugge, ma il ritmo è scandito, poi eseguito. Siamo qui per scelta e per avventura e si farà, ci si affiderà.
Fatico nel simulare sentimenti che mi chiedono di provare a freddo quello che non sento e il mio corpo cui chiedo scioltezza resiste nella rigidità; mi pare di ballare goffamente una danza che non conosco; insomma cambiare il proprio passo presenta inevitabili difficoltà.
La lunga tavola accoglie un vociare che si fa più allegro, la condivisione del cibo rilassa le membra e piccole défaillance di porzioni forse non soddisfano l’appetito ma non scalfiscono il buon umore. In fondo, nell’allegria, il cibo per dieci basta anche per venti. Dopo il caffè arrivano le altre dieci porzioni e va bene così, chi vuole soddisfa la fame rimasta.
Il pomeriggio ci ritrova in cerchio in uno spazio di prato odoroso di menta e di resina, scricchiolante di aghi di pino, a intrecciare impressioni e parole, incalzati da domande ed esercizi che costringono alla verità, talvolta faticosa, spaesata, incerta. Ma si percepisce che si è tra amici e nessuno tradirà lo sforzo del proprio parlare.
La cena riaccende le voci, i sorrisi e le delicate domande finora taciute. Lentamente i visi diventano noti, come le voci che danno spessore ai nomi.
Seduti a cerchio nel grande salone, si raccontano dolori non ancora sopiti, incomprensioni che cercano un senso che non si è ancora capito, ma ci basta lo sforzo comune dell’ascolto per trovare forse più pace, per condividere ferite non chiuse.
Ancora una notte di quiete e, al risveglio, ancora un mattino di sole. Il parco ci trova a giocare, a diventare groviglio di statue dalle cento braccia, a correre come convogli di treno cieco sfidando i tronchi e gli altri convogli pure senza occhi che corrono sugli stessi binari, ad eseguire esercizi di scoordinamento fisico ritmato che la mente trasforma in scoordinamento fisico impazzito; gli uomini tornano bambini e le risa tolgono gli anni e il peso di tante fatiche. Si distendono i volti e rivelano il nascosto. Così ci si lascia, con quest’ultimo abbraccio di gioco, con la leggerezza del sole e con lo sguardo sereno che ringrazia i compagni di quest’ avventura.