Il linguaggio
di Giancarlo Viganò*
Cari uomini, intanto un ringraziamento a Mario, Giacomo e Federico per i loro scritti, le loro testimonianze, in definitiva per il loro sforzo che mi spinge a partecipare vincendo una naturale pigrizia che è di natura molteplice, intellettuale, di condivisione, di esposizione, di protezione. Il linguaggio, o meglio la comunicazione, è frutto di una continua fatica che è quella, come hanno sottolineato i nostri tre amici, dell’ascolto. E l’ascolto ha come basi due fondamentali valenze: la prima verso se stessi e la seconda, a mio avviso consequenziale, verso il mondo esterno a noi. Ma senza la prima, la seconda è scalata impervia se non impossibile.
Come a Giacomo anche a me è sempre risultata confacente la scrittura; da adolescente tenevo una fitta corrispondenza con le mie pen friends, (quasi sempre ragazzine) e quindi, in definitiva, la utilizzavo per la relazione, per la comunicazione, per dire chi fossi, che emozioni avessi. Ho già sentito rammentare il presunto assioma che il dialogo deve essere scevro da una eccessiva “mentalizzazione” o “specializzazione” o “filosofizzazione”, cioè dovrebbe svolgersi, come sottolinea Federico, con un linguaggio semplice, corrente e quotidiano. Io trovo che questa specificazione non sia rilevante. Dipende da cosa voglio dire, come e a chi. Il linguaggio oscuro, il “latinorum” dei Promessi Sposi, o le “convergenze parallele” democristiane, nascondevano il germe del potere alto e irraggiungibile, dunque la volontà di non farsi comprendere. Ma, al contrario, la semplificazione eccessiva del linguaggio, la riduzione del lessico si traduce in una semplificazione concettuale, proprio come l’attuale potere mediatico dominante impone e dunque il risultato, troppo in alto o troppo in basso, non cambia. Il potere tende a livellare menti, coscienze, anime. Non possiamo esprimere quello che conteniamo, luci ed ombre, pace e violenza, se prima non lo comprendiamo con il pensiero, rendendo usufruibile anche a noi stessi le mille contraddizioni che albergano in noi.
Quando il nostro desiderio si sposta sulla ricerca del dialogo, dell’ascolto, della partecipazione, dell’interesse, in definitiva verso un’ alterità diversa dalla nostra limitata individualità, ecco che aprendoci e accettandola, possiamo colmare le nostre infinite lacune rendendo meno dolorosa la nostra solitudine. Allora il linguaggio utilizzato diventa automaticamente semplice perché contiene il desiderio di farsi capire. Come sostiene U. Galimberti, la povertà lessicale dei giovani di oggi rappresenta un grave problema: “come ha bene evidenziato Heidegger, noi riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri ai quali non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono le condizioni per poter pensare”.(cfr U. Galimberti, La parola ai giovani)
E la riflessione che nei nostri gruppi maschili ci sforziamo di esercitare, altro non è che la necessità di traduzione, di rendere chiaro e decifrabile a noi stessi attraverso il pensiero e dunque affrontabile, di ciò che ci attanaglia il cuore. E fortemente concordo con Giacomo quando dice: “imparando a riconoscere, ascoltare ed accogliere se stessi, diventa magicamente possibile ri-conoscere, ascoltare e accogliere gli altri/altre”. Io senz’altro devo essere particolarmente duro di testa perché questo impegno dell’ascolto è un po’ ballerino…e mi devo proprio impegnare per attuarlo.
Ancora una piccola osservazione che riguarda l’universo femminile: è indubbio che dalle relazioni tra le femmine noi maschi abbiamo molto da imparare, soprattutto lo sdoganamento delle emozioni che troppo sovente ci marciscono dentro, putrefacendosi. Se va bene ci rendono afoni e atoni; se va male ci rendono violenti perché da qualche parte la loro potenza esplode. Ma mi trovo invece in disaccordo con l’amica di Mario quando sostiene: “Tu (maschio) non puoi parlare della violenza (sulle donne) se non a partire dall’esperienza diretta che ne hai”.
Certo, non sentiremo l’umiliazione, il dolore, lo strazio, le conseguenze terribili che una violenza, uno stupro porta con sé. Ma allora non potremmo parlare di eccidi, guerre, shoah, pogrom, ogni tipo di violenza che sembra accompagnare la vita di tutti gli esseri umani, non si potrebbe parlare di nulla di cui non si abbia avuta l’esperienza. E invece, come stiamo facendo, dobbiamo parlarne, con un dolore indiretto e certamente con intensità diverse da coloro che le hanno subite, ma dobbiamo raccontarle ai giovani uomini perché imparino ad ascoltare, ad amare, ad arricchire la propria anima e cioè il loro senso profondo dell’esistere, abbracciando il mondo intorno a loro senza volerlo dominare e dunque distruggere.
* Questo testo è stato scritto in vista dell’incontro del 5 maggio, a Triuggio (MB), tra alcuni gruppi di condivisione maschili, come contributo a una discussione in cui si era scelto di focalizzarsi sul tema del linguaggio
“Tu (maschio) non puoi parlare della violenza (sulle donne) se non a partire dall’esperienza diretta che ne hai”.
Cercherò di farlo, dunque. A partire esattamente da questo: dall’esperienza diretta che ne ho. Non possiedo le vostre qualità letterarie, e raccontare non mi è facile, né semplice. Scuserete, spero, la frammentazione della scrittura – che riflette la frammentazione del mio essere, le sue contraddizioni.
Ho 57 anni, e le mie relazioni, lunghe, belle e a volte tragiche, sono state – tutte – con donne che avevano subito molestie o violenze sessuali. Tutte me lo hanno raccontato; a volte sono trascorsi anni assieme, altre volte è stata una comunicazione più immediata. Ma io, che avevo un padre che picchiava duro, e una nascita da prematuro che mi fanno comportare come un sopravvissuto (e tale mi sento, in effetti), ho vissuto su di me il racconto, l’angoscia, i punti oscuri, i comportamenti, le contraddizioni e il dolore che hanno accompagnato l’amore e la gioia, la bellezza e l’intelligenza di queste donne e della loro faticosa, incerta, e splendida capacità di prendersi cura di se stesse.
Posso solo dire che è difficile. So che non è la stessa cosa per tutte le donne. So che c’è chi si ricostruisce meglio, chi peggio, e chi non ne esce mai. So cosa vuol dire, e quanto sia difficile, frenarsi, agire, dire, toccare, con cautela. So quanto è faticoso sentire la sfiducia profonda che queste donne si portavano e si portano dentro. Quanto mi sia sentito ferito nel venire accomunato ad un genere, quasi a confondermi in un insieme indistinto di aggressori. Quanto sia simile ad un paradosso la relazione: a volte il troppo è troppo poco; altre volte vale il contrario. Quel che mi fa più male è il sapere che male ne ho fatto. Senza saperlo, perché non conoscevo la loro storia. Senza volerlo, perché le sbarre delle loro prigioni erano invisibili. Ma capita, accade, di toccare angoli nascosti della mente e del corpo che risvegliano memorie, dolori, fatiche. E di trovarsi di fronte ad un’incomprensibile alternanza di chiusure e aperture, di sfiducia e abbandono, di contrasti fortissimi. Chi puliva la casa molte volte in un giorno, chi si era rinchiusa in una solitudine quasi assoluta, uscendo solamente per andare al lavoro, chi utilizzava e utilizza il suo tempo per occuparsi di chiunque sia povero, malato, emarginato, con una forza ed un’energia incredibile. Cose bellissime e – insieme – funzionali ad evitare di pensare, di rimanere con le proprie paure, di approfondire l’intimità e la relazione.
Mi hanno cambiato. Non so se in meglio o in peggio. So che mi hanno reso cauto, incerto, poco propenso alla gioiosa incoscienza con la quale tanti avvicinano una donna al bar. Ogni volta, per me, è come se mi muovessi in un gioco di moscacieca. Bendato, incapace di vedere e costretto a sentire, tremante di fronte alla possibilità di infliggere di nuovo dolore senza volerlo né saperlo. Per un po’ di tempo c’è stato dentro di me un odio terribile verso gli uomini che avevano – volendolo, loro sì, volendolo – trasformato le vite di queste donne e trasformato la mia. Adesso è quasi scomparso, ma la trasformazione rimane. Quel che seguirà, è nel grembo di Giove.
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