SENZA PIU’ PERDERE IL FILO
di Giacomo Mambriani*
Quale linguaggio possiamo usare per comunicare ad altri uomini (ma in buona sostanza a chiunque) il percorso di libertà che abbiamo avuto la fortuna di cominciare? Io credo che non si tratti di trovare un lunguaggio nuovo, o parole nuove, bensì di raccontare un cambiamento dello sguardo: su di sé, sugli altri/sulle altre e anche sul linguaggio.
E’ stato parlando pochi giorni fa con i compagni di viaggio del gruppo di Verona che ho messo a fuoco meglio due passaggi cruciali nel mio rapporto con il linguaggio:
- Da piccolo, più o meno tra i 10 e i 15 anni, senza che ne avessi coscienza, si è strappato il filo che teneva unito ciò che dicevo a ciò che sentivo e alla mia più profonda interiorità. Credo sia stata una forma di autodifesa, seppure inconsapevole; un modo per sopravvivere all’esperienza dolorosa e traumatica che qualsiasi bambino/a nato/a nella nostra civiltà si trova prima o poi ad attraversare: l’essere giudicato/a, schernito/a, aggredito/a, frainteso/a, svalutato/a, banalizzato/a, manipolato/a, minacciato/a, per avere espresso in modo diretto e spontaneo il proprio desiderio-bisogno, per essersi esposto/a con la propria preziosa, spiazzante e unica soggettività. Questo attacco alla soggettività avviene fin dai primi anni di vita, ed è un tratto caratteristico della civiltà occidentale, la quale spesso si presenta (o viene considerata) come estremamente individualista, mentre al contrario persegue, tramite vari strumenti coercitivi (tra cui per esempio il sistema scolastico, gli stereotipi di genere, il bombardamento informativo-pubblicitario, eccetera…), l’omologazione e il progressivo spegnimento di ogni soggettività. Sottoposto come tutti quanti/tutte quante a questo tiro incrociato, io ho intuitivamente e non consapevolmente scelto, come strategia di sopravvivenza, di continuare, sì, a parlare, ma sottraendo alle parole la mia reale presenza, svuotandole del mio sentire, per non essere più ferito, per non espormi più alla disapprovazione e al sarcasmo degli altri/delle altre. E così ho continuato a usare il linguaggio in modalità “neutra”, o potrei anche dire tecnicista, cercando cioè di ottenere il riconoscimento e l’approvazione degli altri tramite l’uso sapiente delle frasi e delle parole (mi piaceva scrivere, e in molti predicevano che sarei diventato un giornalista o uno scrittore di romanzi), ma senza metterci quasi nulla di me. Allora avevo un’illimitata e ingenua fiducia nel linguaggio, e pensavo che, acquisendo la necessaria maestria nell’usarlo, sarei riuscito a esprimere e comunicare tutto quello che volevo. Allo stesso tempo, mi capitava spesso in quegli anni di partecipare alle discussioni, con gli amici o in famiglia, dicendo soltanto cose che intuivo ci si aspettasse da me, oppure ricorrendo alle classiche frasi fatte o luoghi comuni sul tema. Altre volte invece restavo in silenzio, senza sapere semplicemente che cosa dire, o incapace di tirare fuori ciò che mi si agitava confusamente dentro.
- Poco prima dei trent’anni, grazie al fatto di essermi innamorato di una ragazza che rifletteva su di sé e lo faceva anche insieme ad altre donne (all’interno di un “gruppo donna” i cui incontri cercavo inutilmente di immaginare, provando un senso di esclusione e di invidia), ho incontrato il femminismo e la sua pratica del partire da sé, la sua critica dell’universale neutro maschile, la sua fiducia nel potenziale trasformativo delle relazioni… è stato grazie a questo incontro che mi sono accorto del vuoto che sentivo, della mancanza di senso dovuta alla perdita di contatto con il mio sentire, del sostanziale isolamento in cui stavo vivendo. Negli anni successivi la vita mi ha regalato incontri con parole che mi toccavano in profondità, offerte coraggiosamente e generosamente da persone che non temevano di esporsi nella loro verità, complessità e vulnerabilità. Ascoltare o leggere queste parole risvegliava in me il bisogno/desiderio di ritrovare il contatto con le mie radici, forse per poter offrire a mia volta, nel futuro, qualche parola-frutto in grado di sfamare chi, come me, si fosse trovato in una carestia fatta di silenzio o di parole senz’anima.
Questo percorso di ri-avvicinamento alle radici, tuttora in corso, ha significato per me un grande, felice spiazzamento: lungi dall’essere un ripiegamento egoistico (come in parte temevo, essendo cresciuto con un ideale di altruismo vuoto ed astratto), questa ri-scoperta di me stesso si è rivelata essere un ponte (forse l’unico possibile) con le altre soggettività. Imparando a ri-conoscere, ascoltare ed accogliere se stessi, diventa magicamente possibile ri-conoscere, ascoltare e accogliere gli altri/le altre!
Inoltre, il ponte si è creato non solo con le altre soggettività, ma anche, finalmente, con l’ambiente in cui vivo e mi trovo immerso. In questi anni, infatti, seguendo il sentiero dell’interiorità in compagnia di altri/e meravigliosi/e compagni/e di viaggio, ai miei occhi hanno progressivamente guadagnato visibilità e importanza anche la natura e i nostri oltraggiati maestri/fratelli animali, tanto da decidere, dieci anni fa, di smettere di mangiare carne e pesce, sciogliendo così una tensione e contraddizione interna che mi logorava da molto tempo, senza che ne fossi consapevole!
Per concludere, oggi conosco e posso usare un solo linguaggio, che si potrebbe anche chiamare lingua corrente, ma nel senso che corre avanti e indietro tra la mia esperienza e quella degli altri/delle altre, tra interno ed esterno, portatrice di luce e ombra, di vuoti e di pieni. Bella, imperfetta e potente; non più onnipotente. Uno strumento alla portata di tutti/e, quindi universale, ma che ogni parlante rende unica e irripetibile. Lingua traducibile, anche se con inevitabili scarti e fraintendimenti (che alla fine sono il vero motore della comunicazione e della conoscenza). Lingua intrinsecamente materna, ma aperta a diventare, all’occorrenza, anche paterna. Lingua che spiega, ma rispettando le pieghe del reale. Lingua che smuove, che muove me verso te, e viceversa. Lingua curiosa delle altre lingue, e che trasforma il mondo, perché è disponibile a lasciarsene trasformare. Infine lingua sommamente fluida e volatile, ma d’ora in poi tenacemente aggrappata al filo del discorso che intercorre tra me e me, tra me e te, tra lei e me, tra te e lui, tra me e un filo d’erba, tra un cane e un gatto, tra la montagna e il tramonto…
* Questo testo è stato scritto in vista dell’incontro del 5 maggio, a Triuggio (MB), tra alcuni gruppi di condivisione maschili, come contributo a una discussione in cui si era scelto di focalizzarsi sul tema del linguaggio