La luce di Giacomo
Parte prima: “Da uomo a uomo, sempre pensando allo sguardo delle donne”
di Mario Gritti
Inizio così, da due incontri fra uomini della “rete”. Tenutisi nell’inverno scorso 2015-2016. Dal movimento interiore che questi incontri mi hanno dato. Ma anche dal mio linguaggio, asciutto e crudo, troppo personale ma che, alla mia età, faccio fatica ad ammorbidire. Chiedo scusa.
Dunque a partire da un conflitto fra due parti del maschile: da una parte io, dall’altra…l’altra. In fondo so, per quel poco che la conosco, so che anche Lei, l’Anima mia, ama immensamente – e nel suo profondo desidera – es/porsi fiduciosa ad uno sguardo in-conosciuto. Non crediate che Lei si accontenti di poco! Vuole tutto, tutto desidera, la chiamerei: Puro desiderio -Desiderio allo stato puro.
Io, invece, voglio solo dire – vorrei! dire – come stanno le cose, prima che sia troppo tardi, prima di perdere la faccia e la parola, prima di con-fondermi totalmente, prima di “morire”.
Ora guardo a me, agli amici uomini presenti, prima ancora di ri-volgermi alle donne, per tentare di metterci insieme, da uomo a uomo, in gioco: uso il plurale noi, quello della sociologia. A me sta così antipatico! Sì , magari ci aiuta a capire dove stiamo ma l’ho sempre sentito , quello della sociologia, come uno sguardo duro su di me; mi ha sempre collocato lontano da me stesso, magari nel cuore del problema, ma mai, mai, mi ha condotto vicino a me, alla soglia di me stesso…a chi forse sono realmente: nulla sul mio percorso. Dunque uso questo noi chiedendo in anticipo la vostra comprensione, vi chiedo scusa, e spero mi farò comprendere meglio quando tornerò a me, al singolare.
Sì: ce lo dicono tutte/i, siamo divisi in due in noi stessi, noi uomini maschi, siamo spezzati. Da un lato la Madonna, dall’altro il Demonio. Carne, sesso, eros-erotico, corpo di Donna, corpi di Donne, desiderio di controllo e legame di potere, immaginari di amanti e di amori sconvolgenti…ridotti a fantasticherie. Verso: madre, mamma, Donna, Madonna, moglie, sorella, figlia, Amore. Un lato oscuro ed uno luminoso. Trump ed Obama a pelli rovesciate.
Corpi grevi senza spirito, sguardi persi e spiritati, privi di corpo, ascetismo fuori dalla storia. Parole senza suono e senza luogo, vuote nel vuoto, senza vibrazioni vitali: meglio dire uomini “senza parola”, chiusi in un silenzio autoreferenziale e con gli occhi volti a modelli dal cuore di pietra e violento. In questo sguardo-focus al lato oscuro degli uomini ecco una parola, quella di Giacomo, che dice: “desidero portare uno sguardo che faccia un poco di luce, un lumicino in questa oscurità, senza rimuovere la presenza di questo lato oscuro, ma per capire, a partire da me stesso come ritrovare nelle relazioni gioia e desiderio di vita…”
Ecco una parola che mi/ci viene in aiuto in particolare nella sua versione inglese: leggera, light, luce. Un segno, un tirami-su, un guardare altrove rispetto alla De-Pressione in cui per paura potrei sprofondare. Luce per ritrovare nel buio la via del cuore, quello fatto di carne. Giacomo mi affida, me l’ha affidata questa Parola, nei nostri incontri. Nella pratica della vicinanza. E’ un caro amico del gruppo uomini di Verona, ci incontriamo da 14 anni. Per tutto questo tempo l’ho seguito come in un cammino simbolico a due a due nel suo andare lento e sicuro. Una relazione in cui sono stato addomesticato dal suo sguardo: lui è semplicemente lì attento a te. Il suo modo d’essere, solo quello, senza nessuna altro mezzo. Con tenerezza. Ha sbriciolato–frantumato nella mia mente l’idea dell’altro interiorizzato come nemico, come competitore, ha dato inizio alla trasformazione del mio cuore di pietra in cuore di carne. Ha rovesciato un potente dal trono. Mi ha aiutato a ritrovare la via interiore, ad abbandonare il legame dell’ideologia dell’homo homini lupus, e ritrovare un sentiero che si avvicina ad una altra soglia: da uomo a uomo, verso Sé, l’autenticità di sé come via…all’interiorità che è tale perché lì c’è posto per l’uno e per l’altro.
Non una luce abbagliante che invade la scena. No. Una luce incerta, tremolante di corpi e di ombre, di riflessi danzanti. Di certi fuochi notturni al centro. Con lingue di fuoco, brucianti di Uomini e Donne, di amori e tradimenti. Come quella notte, La luna e il falò, in cui Pietro conobbe se stesso nel suo tradimento, nel tradimento di se stesso in primo luogo, in cui ha fatto l’esperienza della sua lontananza da sé stesso, scoprendo senza alcun dubbio che è – era – una lontananza lunga tutta intera la sua vita. Tutta la vita in un riflesso, un baleno, tanto chiaro per lui da fargli comprendere ogni cosa con nitidezza, quanto sfuggente per nascondere il suo profilo al linciaggio. Che ha fatto di male? Era ripiegato su se stesso, deluso, spezzato! Ha solo pensato alla fine di un sogno, rassegnato alla fine. Insegna la sua storia che si può incontrare oltre il buio uno sguardo mite riflesso nel profondo, luce di tenerezza che salva, lo salva, dalla morte per disperazione. Riprendi in mano la tua Vita, Pietro, ricomincia il tuo sogno!
Lo sguardo è lì nel silenzio Prima della parola, come dice l’emozionario: “Alcuni esseri risvegliano la nostra tenerezza. Un Cucciolo, i germogli sui rami di un albero, un nonnino…La tenerezza è dentro di te, però sono gli altri che aprono la porta della tua tenerezza” [Come immagine raffigurata accanto alle parole scritte – seduta su un fiore morbido come batuffolo – l’illustrazione presenta mamma Pecora che sta sferruzzando per completare una sciarpa di lana già lunga, in capo alla quale il suo Cucciolo dorme beatamente avvolto.] Riprendo simbolicamente questo filo e lo annodo all’altro filo del discorso interiore, del posto-luogo per l’uno e per l’altro che nasce dalla e cresce nella interiorità. Prende vita nella tenerezza una relazione leggera apparentemente senza più legame, che si nutre solo dello sguardo, che si esprime in gesti, senza parole vive nel silenzio, attende fiduciosa il risveglio e con desiderio la rivelazione dell’altro: direi con una parola semplice una relazione impropria, in cui l’altro è essenziale, già da prima della sua apparizione. Una relazione con la vita. Voglio fare un salto mortale e dire: una relazione gioiosa con la vita, così come è. E, ti chiedo se stai leggendo di restarmi vicino col pensiero, non andartene, non abbandonarmi ora. Non voglio vendere illusioni, no; penso di quel filo di gioia, che resta “dopo”, come il respiro, come il battito del cuore che non possiamo fermare. Mi auguro che resti sempre in me, e nel petto di ogni essere vivente, anche dopo che abbiamo visto tutte le brutture del mondo. Che sia possibile accogliere e rifare l’esperienza dello stupore!
Ancora incontri di uomini, fra uomini nel periodo gennaio-marzo di questo 2016 anno in cui mi sono molto spostato simbolicamente..in treno (il treno aiuta a lasciare la presa)!
Sono stato a Bologna, un paio di volte. Andata/Ritorno per 2, 4 viaggi. Per linee/corse secondarie, ad esempio regionali Brescia-Parma, viaggi popolari in cui si fanno incontri ancora…ci si vede…ricchezze da sommare al simbolico del viaggio in treno già fecondo di ricordi ed attese, di sentimenti e di emozioni bagagli preziosi. Viaggio di andata, tratta Parma-Bologna: mi sono messo in viaggio con la mia fedele e pungente compagna malinconia, ed anche, quella volta, incartato in un sentimento di desolazione da abbandono.
Quando vado ad incontri di “soli” uomini, mi capita a volte che faccio fatica a tenere aperta la porta interiore, e mi ritrovo alle prese, ancora nel profondo, con una parte [maschile] di me ferita , incapace di rialzarsi, non riconciliata, direi ancora abbandonata. Così con questo bagaglio mi lascio cullare dal ritmato dondolio del treno con le sue ripetute e rassicuranti combinazioni: tata, tata, tata, traratantatan. Ascolto delicato di onde lontane, visioni e fessure di immagini , intime e sfumate carezze, ogni tanto un poco di reale mi sfiora…ma sopra tutto conta il fatto che di li a due o tre giorni sarei tornato da Clara. [Riferimento e citazione di una intervista ad Arturo Paoli poco tempo prima della sua morte – a 102 anni- con la domanda a bruciapelo: “Arturo, cosa è per te la felicità?” – risposta di Arturo dopo qualche istante di riflessione: “Tornare a casa, quando qualcuno ti aspetta!”].
Oltre il corridoio altra coppia di sedili contrapposti, sedili doppi da due, dunque una parte della carrozza compresa nell’orizzonte di 8 posti: persone. Sono seduto al finestrino, ed all’estrema diagonale opposta nel punto del compartimento più lontano ma di fronte a me noto, seduta, una donna. Ho bisogno di diversi kilometri e di alcuni ritorni alla realtà per vederla e, pian piano, per metterla a fuoco. E’ una rivelazione. Età vicina ai 45, occhi chiusi e sempre assopita, ha la testa leggermente inclinata, lievemente appoggiata. Il soprabito beige chiaro lascia intuire un corpo robusto. Il suo volto è luminoso , irradia una dolce luce. La pelle latte-bianco pallido mostra, delicatamente disteso in filigrana, un velo di tenerezza, a sfiorare una carnagione a “buccia d’arancia”, in un volto tondo, capelli corti e neri.
E’ una badante, una donna dell’est. Nelle successive e non frequenti sbirciate – non ho fatto alcun gesto che potesse attrarre la sua attenzione – con lo sguardo l’ho solo sfiorata, senza mai incontrare i suoi occhi. Quasi una visione fra me e me…mi viene naturale non appesantire il mio sguardo, amo questa leggerezza, so che quella luce è tanto magica quanto reale, che viaggia su questo confine. Non c’è altro da aggiungere o togliere, né altro da vedere. Solo contemplare. Forse…lasciamo stare.
Nell’ora trascorsa dopo la rivelazione, diverse persone si sono alternate negli altri posti a sedere, fino alla destinazione. Al capolinea ci siamo alzati per scendere dal treno, i nostri corpi si sono avvicinati per un attimo uno di fronte all’altra…ed ho ricevuto , dono inatteso, il sorriso dei suoi occhi, neri. Uno sguardo diretto, aperto, proprio rivolto a me, non di “cortesia” o di circostanza ma pensato, intenso ed esclusivo . Di Donna.
Improvvisamente ho avvertito la trasfigurazione dello stato d’animo. Con il pieno di energia felice.
“Buona sera”
“Buona sera”
Perché la mia mente, la mia mente-corpo convive incessantemente con l’inesauribile desiderio di essere avvolta in un abbraccio senza fine? La mia vita emotiva, “io”, io (in fine torno al singolare!) dipendo da questo abbraccio, ne dipendo radicalmente. E potrei aver trascorso metà della mia vita portandomi dentro questo segreto, come mendìco. Ad elemosinare briciole d’amore…ma non sono nato, non siamo nati – riuso convinto il plurale, anzi l’universale – nessuna/o è nato per elemosinare… La sociologia potrebbe attribuire al termine metà della vita un significato non quantitativo, bensì qualitativo. Metà nel senso di dimezzata, ma non ci sto!
Proprio no perché anche quando vedo che ciò [il “chiedere” simbolicamente l’elemosina] è realmente ed effettivamente cosa da evitare, non lo penso per me, no. Se anche è stato. Io voglio dire, gridare che voglio amare la mia vita, come è, come è stata, come auguro anche a “Pietro”
Così, riprendo alcune parole di Giacomo, nulla di più fecondo che accogliere – dentro una relazione – la fragilità, forse legata a questo bisogno radicale. Imparare la cura è lavoro di tutta la vita, intera.
Questo lato della fragilità “maschile” della dipendenza radicale rimanda anche alla scarsità, alla carenza della forza di cui ho-abbiamo bisogno per andare oltre: forse questa mancanza porta in sé una verità profonda, dice di un gioco rischioso ma carico di potenziale di trasformazione, dice di un’attrazione che questo gioco esercita verso gli uomini, un richiamo misterioso che mi-ci invita ad andare oltre la morte che non vuol morire, mi/ci aiuta a lanciare il cuore oltre l’ostacolo [come dice il poeta].
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e rimirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo, ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Grazie Giacomo.
Fine della prima parte