Nove mesi, sette minuti, tutta la vita. Lettera di un padre
di Andrea Melis*
Le parole non nascono per caso. I nomi non nascono per caso.
Attendere. Quanto sono profonde le cose lo capisci solo quando ti manca il fiato.
Come trascorrere nove mesi ad attendere tua figlia. Dolce attesa. Anche quando è amara. Piena di preoccupazioni, paure, ostacoli, sfide. E’ dolce l’arrivo, ma questo lo capisci solo quando lo raggiungi. E’ dolce guardare quell’esserino che ti sembra impossibile sia stato davvero per nove mesi dentro quella pancia, e che ha rappresentato il punto di domanda più grande della tua vita.
E poi ti ritrovi con la risposta tra le mani: ricordo il respiro che ti allargava il petto, fragile e invincibile allo stesso tempo, come la vita, Matilde.
I tuoi polmoni che si gonfiavano come un palloncino pronto a scoppiare. Eri nata da un minuto e piangevi con una bolla di saliva in bocca, Matilde.
Quando ti ho cantato la canzoncina che io e tua madre ti sussurravamo attraverso la pancia, quel miracolo che tanti mi avevano descritto è accaduto davvero: hai smesso di piangere. E il mio cuore si è fermato. Qualcuno ha detto che non contano i respiri che fai nella vita, ma gli attimi in cui ti manca il fiato. Quanto fosse vera e meravigliosa quella frase l’ho scoperta quel giorno: la profondità. Nove mesi passati a guardarti dentro. Un tempo interminabile per chi attende risposte dalla vita. Per chi fino al giorno prima sbuffava davanti a un semaforo rosso, per chi si spazientiva in fila alla cassa di un fast food, o allo sportello di una banca.
Per chi è cresciuto in quest’epoca che brama la velocità delle connessioni, dei ritmi di vita, dei rapporti umani, nove mesi ad attendere sembravano un tempo irragionevole. Ma la natura si è arroccata, per fortuna, e si tiene stretta almeno la fortezza della vita, e chi se ne frega di tutto il resto. Le cose importanti richiedono tempo. Ecco la cosa che mi hai insegnato ancor prima di nascere: le cose belle meritano tempo.
Nove mesi contro sette minuti. Quei sette minuti infiniti, quando il tuo cuore ha rallentato troppo, e fuori da quella pancia i medici correvano, c’era agitazione e il mio mondo ha rischiato di crollare. Sette minuti. Ho fatto tanti viaggi nella vita e tanti ancora mi auguro di farne. Ma nessun sarà lungo come quei due metri di corridoio che ho percorso avanti e indietro per chilometri mentre preparavano la sala operatoria.
“Stiamo iniziando a operare. Appena la stiamo per tirare fuori ti facciamo entrare”
Mai mi ero sentito un viaggiatore così solitario con dentro il cuore la paura di chi azzarda in un colpo solo di giocarsi tutto: la coppia di donne più belle e importanti della sua esistenza. Madre e figlia. Magari il rischio non era scientifico, per i dottori, ma cosa c’è di più vero delle paure nel nostro cuore? Poi finalmente mi hanno detto che potevo entrare. E mi hanno intimato di non guardare il campo operatorio.
Me l’hanno raccomandato tutti. Mi rimbombava in testa. Non guardare mai lì. Ma io ho guardato. E’ stata la cosa più tremenda della mia vita ma sono felice di averlo fatto. Perché altrimenti non avrei mai capito cosa vuol dire essere madre. Cosa vuol dire essere figlio. E quindi cosa vuol dire diventare padre. Cosa vuol dire la vita. L’ennesimo abisso che ho toccato in questa avventura, profondo tanto da togliere il fiato, era dentro il ventre aperto di mia moglie.
Io che giravo la testa davanti a una ferita, e avevo paura di non riuscire a medicare nemmeno il cordone ombelicale, ho tenuto la mano di mia moglie per tutto il tempo, fino all’ultimo punto di sutura, e mi sono inginocchiato a baciarle quel braccio disteso e intubato come davanti a una Madonna in croce. Nove mesi e un istante: per capire che di così grande come la nascita non c’è nient’altro. Solo la morte. E così le due parentesi dell’esistenza per un attimo me le sono trovate accanto, con intorno tutta la scienza dell’uomo, secoli di studi e freddezza, bisturi e visi sconosciuti, e quando ci pensi l’indomani capisci che anche quello è uno dei tanti volti dell’amore, anche se il più truce.
E poi vedere il trionfo della vita. Con alle spalle tutto quel sangue e quella paura, quando la tua piccola bocca si è poggiata sul seno di tua madre per la prima volta, e le vostre vite si sono intrecciate per sempre, con la leggerezza delle nuvole che si incontrano nel cielo. E il dubbio che io fossi nato al solo scopo di godere di quel momento è diventata una certezza.
Attendere. Significa anche mantenere fede a una promessa, a un debito. Significa anche dedicarsi, applicarsi in qualcosa. Significa anche volgere l’attenzione, considerare. Fare da attendente. Per tutta la vita saremo genitori di Matilde che oggi ha tre anni ed è una piccola donna.
Ora che la sua vitalità agita la casa e colora le nostre giornate, io vado due volte la settimana ad immergermi nel silenzio del mare, per non perdere il contatto con la profondità.
Rilassati, dice il mio istruttore, pensa a cose belle.
E io penso a mia figlia.
Che l’altro giorno mi ha detto:
“Papà tu sei uno “Strego”?”
Uno strego non esiste, stavo per rispondere. Esistono solo le Streghe. Al massimo gli “Stregoni”. Ma c’era qualcosa che non mi quadrava. Una bugia troppo grande si nascondeva in quel termine maschile, in quell’accrescitivo ingiusto. Un’aurea immeritata di magia e potenza protegge lo Stregone, mentre dietro alla parola Strega c’è solo bruttezza e malvagità. La strega uccide, lo stregone guarisce. Ecco come fin dalle favole ci imbattiamo ancora bambini in modelli culturali distorti e maschilisti. La verità, figlia mia, è che oggi ci sono e come gli Streghi. Anche troppi, che porgono mele avvelenate alle loro donne. Che uccidono, loro dicono per amore, ma l’amore è vita, è libertà.
L’amore è accettare che le donne sono un dono che ci viene concesso, e che bisogna meritarsi.
E quando non si è all’altezza dell’amore bisogna arrendersi alla loro libertà di scegliere, di abbandonare, di cambiare, di salvarsi, di troncare, di non appartenere, di non essere possedute. Perché alle donne dobbiamo noi stessi. Nel loro grembo risiede la culla della vita, e dal loro ventre si snoda il cordone ombelicale di tutti noi. Non c’è uomo che non debba la propria vita a questo filo di sangue e nutrimento che lo lega a una donna. Non c’è violenza, anche solo verbale, contro una donna, che non sia irriconoscente e delittuosa verso questo legame ancestrale. Dovrebbero lasciarcelo per sempre un pezzetto di cordone ombelicale, per ricordarci da dove ci viene data la vita, prima di osare pensare che dall’universo femminile qualcosa ci sia dovuto oltre il fatto di essere vivi.
E mi ritrovo a pensare che troppe vite di donne finiscono nel sangue, lo stesso sangue da cui la vita sgorga alla nascita. E mi manca il respiro. Ho fame d’aria, riemergo e mi aggrappo alla superficie del mare.
– Come va?
Mi chiede il mio istruttore.
“Potrebbe andare meglio”, vorrei dire, ma ascolto il suo consiglio: pensa alle cose belle.
Penso a Matilde.
Penso che i nomi non nascano per caso. E tu porti un nome che significa “forza, potenza” e “lotta, battaglia”. Fallo in nome di tutte le donne, Matilde, lotta con amore.
Io da uomo, prima che da padre, sarò sempre al tuo fianco.
***
Andrea Melis* è uno scrittore del collettivo Sabot
Dolce tenerezza e commozione nel leggere la narrazione di questo uomo che scopre di essere nato per “al solo scopo di godere di quel momento”. Che fortunato averlo compreso! Grazie al tuo papà Matilde.
Grazie, per la Verità e la Bellezza con cui è scritto.