di Alberto Leiss
Ripreso dal sito di Diotima – Comunità filosofica femminile
Nei mesi scorsi ho scritto questi appunti sul rapporto tra maschilità e guerra. Ora il testo è pubblicato nella rivista del gruppo femminista Diotima, che ringrazio di avermi ospitato. Nel frattempo, dopo l’Ucraina è esplosa la tragedia di Israele, con l’attentato terroristico di Hamas, e della Palestina con i bombardamenti su Gaza e le violenze in Cisgiordania. Il femminicidio di Giulia Cecchettin ha suscitato una enorme reazione e l’apertura di una discussione sulle sopravvivenze patriarcali nella nostra società e nel mondo che mi sembra confermare la tesi di una continuità tra la violenza maschile contro le donne e la violenza bellica. Mi auguro che l’avvio, finalmente, di una riflessione approfondita tra noi maschi ci aiuti a superare la violenza personale così come la passione per la guerra e l’idea che possa esistere una guerra “giusta”.
I maschi e la guerra. Appunti
Una tesi, approssimativa ma forse risolutiva?
La violenza degli uomini sulle donne – che si ripete sempre uguale e sempre più disgustosa, dagli atteggiamenti possessivi e sessisti, agli stupri, fino ai femminicidi – è diventata uno scandalo insopportabile. Si cercano rimedi, nella legge e nella repressione, nelle iniziative di formazione, nelle scuole, e rivolte a tutti i soggetti che se ne devono occupare: dai centri antiviolenza, nati per iniziativa delle donne del femminismo, agli operatori (e operatrici, ma direi che molto determinante è il discorso da aprire con gli uomini) degli apparati giudiziari e polizieschi, della magistratura, del servizio sanitario e dei servizi sociali, dei media. Agli uomini e le donne che si impegnano per tentare di responsabilizzare i maschi che hanno agito violenza, sia in percorsi giudiziari obbligatori, sia nelle scelte volontarie. Naturalmente la questione più difficile, e anche la più importante, sarebbe mettere la lente sulle situazioni familiari nelle quali i caratteri possessivi e violenti si formano.
Il rischio di questa sempre più intensa attenzione pubblica è che le donne siano frequentemente ricacciate, nei racconti, nelle narrazioni, nel ruolo di vittime. Di soggetti deboli che hanno bisogno di protezione. Mentre il segno della violenza maschile oggi molto probabilmente è di natura esattamente opposta: deriva dall’incapacità maschile di accettare la nuova libertà, la forza e l’autorità delle donne. La dinamica che si ripete è infatti quella di maschi che non sopportano la decisione delle compagne, mogli, figlie, di scegliere e agire diversamente da quello che si aspettano in termini di obbedienza, fedeltà, sottomissione. O di quello che intendono per “amore”.
La tesi alla base di questi appunti è che ci sia una qualche forma di vicinanza se non continuità tra la violenza maschile che si esercita contro le donne (e anche contro persone percepite come “diverse”, “devianti”, “straniere”, “nemiche” ecc.) e la violenza bellica. Che tradizionalmente è stata esercitata dai maschi, e che tuttora lo è. Anche se viviamo nel tempo in cui, nel solco degli stessi processi di emancipazione e liberazione che le hanno portate a ribellarsi contro la violenza subita tra le mura domestiche e nelle strade della città, le donne “vanno dappertutto”, e scelgono anche di stare negli eserciti. Nei corpi di polizia. Al comando di altri soldati. Sulla linea del fuoco (fino a non molto tempo fa, ancora “vietata” negli eserciti alle soldate, essendo percepito questo come un limite simbolico dai capi, maschi, degli stati maggiori. Il corpo femminile – nelle case e città del nemico – è quello sul quale in guerra si acquisisce una sorta di tacito diritto di stupro, ma conservava ancora il valore di qualcosa di sacro che doveva essere preservato dalla mortale violenza bellica?).
Non sono uno storico, né un antropologo. Cercherò di sostenere questa tesi utilizzando qualche spunto dalle cronache della discussione pubblica, da qualche lettura, e dall’esperienza personale.
Dopo il trauma della pandemia, descritta non per caso con un linguaggio “bellico” – combattere il “nemico” virus, gli “eroi” e le “eroine” sul fronte degli ospedali e delle terapie intensive intasate, e persino un generale a dirigere le campagne più o meno forzose di vaccinazione – è arrivata una guerra vera molto più “vicina” a noi delle tante altre susseguitesi negli ultimi decenni. (Bisognerebbe anche riflettere sul perché, un’altra orrenda guerra vera vicinissima a noi, alla fine degli anni ’90, nella ex Jugoslavia, è stata sostanzialmente rimossa nella discussione pubblica). L’aggressione di Putin all’Ucraina – dopo anni di conflitto “locale” nel Donbass e l’annessione russa della Crimea – ci ha catapultati in un clima di paura e di contrapposizione in cui la coppia amico/nemico è tornata a determinare molta parte dei sentimenti e del linguaggio che corrono nella discussione pubblica, e anche nelle discussioni private. Tra chi la pensa in un modo e chi in un altro.
La guerra ci fa orrore, ma ci attrae anche. Ci chiama allo schieramento, al duello. Non escluderei che avvenendo “nel cuore dell’Europa” e alzando nuovi muri e fossati tra Occidente e Oriente (democrazie contro autocrazie ecc.), in una zona del mondo dove la rivoluzione delle donne ha prodotto profondi cambiamenti e creato anche un disagio maschile di cui la violenza “domestica” è un sintomo, il conflitto possa anche essere vissuto come qualcosa di “rassicurante”, “consolante” per chi vive – soprattutto maschi – con difficoltà la crisi e l’incertezza di un mondo che comincia a smarrire gli antichi ancoraggi simbolici “patriarcali”.
Forse non è un caso che un generale italiano (pluridecorato per il suo “valore” sui campi di intervento militare) abbia sentito il bisogno di esternare tutto il suo disprezzo per le femministe, i gay, il mondo glbtqia+, coloro che non hanno una “fisionomia italiana” ecc. Giungendo alla rivendicazione di un “diritto all’odio” per chi non gli sta a genio, da affermare pubblicamente.
Riconoscere da parte maschile che ci appartiene non solo la violenza contro le donne – verso la quale cresce una generale ripulsa – ma anche la violenza bellica, può forse aiutare quel rifiuto della guerra come mezzo di soluzione delle contese tra stati, popoli, fazioni politiche e religiose, cosche criminali, che oggi – nell’era della bomba atomica e di tecnologie sempre più potenti e oscure – sembrerebbe un pensiero sempre più pensabile. Come ripete solitariamente questo Papa: non può esistere una guerra “giusta”. Guerra è follia.
Laspus dei potenti
Nel giugno del 2022 si riunisce a Elmau, in Germania, il G7, vertice dei paesi cosiddetti più “economicamente avanzati” (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America) a cui partecipa anche per l’Unione Europea la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Fa molto caldo e i leader vengono fotografati intorno a un tavolo in maniche di camicia e senza le cravatte. L’unica donna presente indossa una camicetta leggera.
L’estroverso premier inglese Boris Johnson, in una intervista alla tv ZDF rilasciata dopo il vertice, se ne esce con questa osservazione:
Se Putin fosse stato una donna, cosa che ovviamente non è, non credo davvero che si sarebbe imbarcato in una guerra pazza e maschilista di invasione e violenza, nel modo in cui ha fatto. […] Se volete un perfetto esempio di mascolinità tossica, eccolo: è quello che Putin sta facendo in Ucraina. Ci sarebbe bisogno di più donne in posizione di potere.1
Ho visto lo spezzone della registrazione video di questa intervista relativo alle frasi riportate. Johnson aveva appena partecipato alla riunione del G7, e sembra parlare del tutto seriamente. Il leader inglese – forse perseguitato da pensieri sulla maschilità più o meno tossica – ha fatto anche in quella sede una battuta sulla stessa lunghezza d’onda: già che ci siamo perché non facciamo una bella foto tutti a torso nudo? «Con le giacche? Senza? Ci togliamo i cappotti? Dobbiamo dimostrare di essere più duri di Putin», aveva detto il primo ministro britannico prima delle foto di rito, spalleggiato dal canadese Justin Trudeau, pronto ad esibirsi in «uno spettacolo di equitazione a torso nudo».
A parte l’imbarazzo di una presenza femminile (qualcuno ha definito “fuori luogo” queste spiritosaggini) il destinatario era ovviamente ancora Putin, che ama farsi fotografare in maschie pose, a cavallo e non solo, a torso nudo, durante battute di caccia e altre attività sportive.
Il quale Putin non si è lasciato sfuggire l’occasione di rispondere da par suo: «Non so come i leader del g7 vogliano spogliarsi» – ha replicato da Ashgabat, dove partecipava al vertice dei Paesi del Caspio – «se a torso nudo fino alla vita o anche sotto la vita, ma penso che sarebbe in ogni caso uno spettacolo disgustoso».
Mi era capitato di commentare, in quel momento, segnalando il fatto:
Intanto contempliamo (attoniti?) che – mentre negli Usa e in altri paesi europei si scatena un’altra guerra maschilista ai corpi femminili sull’aborto – gli scambi tra il “femminista” Johnson (il più bellicoso dei capi occidentali) e il “machista” Putin sembrano rivelare che tra le cause del conflitto può esserci ciò che si cela sotto le cintole di questo gruppo di signori. Non sarebbe venuto il momento di un vigoroso e prima di tutto maschio No a qualsiasi forma di guerra e di violenza?2
Clausewitz e Winnicott
Due citazioni. (Riprese anche dai capitoli “Politica senza autorità” e “Il sesso della guerra” nel libro Il silenzio delle campane. I virus della violenza e la cura3, scritto con Letizia Paolozzi).
Del celebre trattato sulla guerra di Karl von Clausewitz, uscito postumo e incompiuto a cura della moglie Maria von Clausewitz “nata contessa Brühl”, la quale sentiva il bisogno di osservare che «si troverà, e a buon diritto, strano che una mano femminile osi accompagnare con una Prefazione un’opera di argomento guerresco»4, di quel trattato, dicevo, è rimasta famosa l’affermazione che «la guerra non è altro che la continuazione della politica con altri mezzi». Ma la prima definizione della guerra che troviamo in apertura del testo di Clausewitz è ben diversa: «Non daremo della guerra una grave definizione scientifica; ci atterremo alla sua forma elementare: il combattimento singolare, il duello. La guerra non è altro che un duello su larga scala»5.
Resta sottinteso, se non rimosso, che il duello è una pratica maschile, come di soli maschi sono composte le schiere che si fronteggiano sui campi di battaglia nelle guerre “moderne” che seguono la Rivoluzione francese. Un richiamo ai sentimenti radicalmente aggressivi – al di là delle regole cavalleresche – provati da due uomini che si sfidano a morte per questioni di onore: richiamo che contrasta alquanto con l’idea che la razionalità politica sia la vera origine e la guida della guerra, considerata come mero “mezzo” degli scopi degli Stati. E infatti la massima di Clausewitz è stata in tempi più recenti rovesciata: è la politica a essere continuazione della guerra con altri mezzi. Soprattutto Foucault ha adottato questo punto di vista per cogliere le dinamiche diffuse del potere, del conflitto, della violenza che attraversano il corpo sociale, i corpi e le menti dei singoli individui, e il loro rapporto con le politiche istituzionali.
[È] al di sopra di questa trama di corpi, di casi, di passioni, al di sopra di questa massa, di questo groviglio, di questo brulichio oscuro e talvolta sanguinoso che si costituirà qualcosa di fragile e di superficiale, una razionalità progressiva: quella dei calcoli, delle strategie, delle astuzie; delle procedure tecniche per conservare la vittoria, per far tacere – almeno in apparenza – la guerra, per serbare o rovesciare i rapporti di forza.6
Ma è lecito supporre una radice sessuata degli istinti e dei sentimenti che portano soprattutto i maschi a impegnarsi nella “singolar tenzone” – il cui racconto accompagna anche gli scenari bellici dall’Iliade, ai poemi cavallereschi, ai “duelli” aerei nella Prima guerra mondiale con il “Barone Rosso” – e nel mestiere collettivo delle armi?
Lo pensa il pediatra e psicanalista Donald Winnicott (1896 – 1971) quando interpreta l’insopprimibile tendenza maschile a cercare la lotta e a rischiare la vita osservando che nella storia le donne, dopo i mesi di gravidanza, sono in pericolo ogni volta che partoriscono. Gli uomini
invidiano alle donne questo rischio, inoltre si sentono in colpa […] così anche loro corrono dei rischi, e lo faranno sempre. Cercano di emulare la donna. […] La cosa peggiore della guerra è che spesso gli uomini che sopravvivono devono ammettere che hanno trovato la maturità, persino quella sessuale, rischiando di morire. Quindi, senza guerra gli uomini si sentono vuoti; eppure detestano essere uccisi, a meno che non siano convinti della causa per cui combattono.7
Potrebbe dunque essere questa una delle origini dei riti di iniziazione che si ritrovano in quasi tutte le culture primitive e che segnano l’ingresso del giovane maschio nella categoria dei “guerrieri”, quasi sempre superando prove feroci e a rischio della vita. Riti che «nei popoli civili […] il risultato lo danno in forma simbolica»8, scrive Gaston Bouthoul a proposito del “carattere sessuale della guerra” nel suo trattato di polemologia. Ancora per la mia generazione, ma anche per quella di mio figlio nato nel 1980, in Italia, questo “rito” consisteva nel servizio militare obbligatorio per i maschi maggiorenni. Ma non solo.
Un’esperienza
Nel 1968 avevo 18 anni. Con qualche compagno al liceo ci appassionavamo ai temi politici. Cominciai a frequentare le assemblee e le riunioni del movimento studentesco. All’inizio a muovere era la contestazione di una scuola in cui mi sembrava di non imparare niente di veramente importante. La scuola nozionista. La scuola di classe. Il desiderio di collegarsi ai movimenti nella società. Contro la guerra americana in Vietnam. Con gli operai che lottavano per migliorare le condizioni in fabbrica. Che sognavano un mondo senza padroni.
Presto comparvero i gruppetti della sinistra extraparlamentare. Mi sembrò giusto, inevitabile impegnarmi direttamente. A questo punto però ho dovuto fare i conti con qualcosa che istintivamente respingevo. Una passione per la violenza che non mi apparteneva. E che vedevo in numerosi “compagni”. Quelli che ai cortei non vedevano l’ora di scontrarsi con la polizia. Quelli che andando a riunioni con “compagni” di altri gruppi – tra divisioni settarie non di poco conto – non disdegnavano di portare qualche spranghetta di ferro nascosta tra i giornali sottobraccio. Perché non si sa mai. Più comprensibile era la teorizzazione che agli attacchi e alle provocazioni dei fascisti si dovesse “rispondere colpo su colpo”. Nel mio gruppo “marxista-leninista” andava emergendo la teoria di una graduale preparazione a uno scontro armato che sarebbe stato inevitabile conseguenza della degenerazione violenta del potere dominante. Violenza “difensiva” dunque. Ci si doveva armare (rispettando all’inizio i limiti legali) e cominciare a fare pratica “militare” in apposite escursioni in campagna. A una riunione nazionale il capo del gruppetto disse che il passaggio alla “lotta armata” sarebbe stato, per chi avesse deciso di compierlo, un po’ come il passaggio che segna la vita di un uomo tra il prima e il dopo aver fatto all’amore. Niente sarebbe stato più come prima.
Ero sempre più perplesso ma agiva in me anche qualcosa che aveva a che fare con un elemento di convinzione razionale – la situazione politica stava rendendo ineludibile quel tipo di scelte, e d’altra parte, come avevo sentito sentenziare all’inizio della mia “militanza”, il mondo “è una realtà fatta di odio” – e poi provavo un sentimento più oscuro, secondo il quale non potevo essere da meno degli altri “compagni”. Era una “prova” che dovevo superare. Ma il limite giunse quando si trattò di partecipare direttamente a una “azione”: si doveva “punire” – bastonare un po’ – un giovane fascista reo di aver aggredito altri compagni. Mi toccava di fare l’autista e il “palo”, ma a quel punto decisi di uscire dal gruppo e farla finita. Nel frattempo già qualcuno dei “compagni” era scomparso al Sud nella clandestinità. Un altro si era ferito con qualche ordigno. E altri ancora già passavano guai giudiziari. Mi sembrava una pura follia, umanamente e politicamente.
Non molto tempo dopo mi iscrissi alla sezione universitaria del Pci, e decisi di liberarmi del servizio militare, che fu anche un’altra istruttiva esperienza del rapporto tra i maschi e le armi, la disciplina, i buoni consigli del capitano per l’uso del preservativo negli auspicabili rapporti meretrici locali. Intanto avevo conosciuto una ragazza femminista che mi aveva prestato gli scritti di Carla Lonzi: Sputiamo su Hegel, La donna clitoridea e la donna vaginale …
Negli anni successivi ho pensato che se in quella deriva verso la violenza politica pesava certo – anche in me – una cultura che mitizzava l’accelerazione del “parto della storia” di un mondo migliore, e pensava a una rivoluzione consapevole che «l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi», quello che mi interessava e incuriosiva erano i meccanismi psicologici, antropologici, che votavano alcuni individui ad appassionarsi alla violenza. Era proprio il bisogno di “mettersi alla prova”, fino al rischio della vita. In quel momento forse pesava su noi maschi di sinistra anche il confronto con padri, zii, nonni che avevano fatto la Resistenza contro i fascisti. Loro sì che avevano partecipato a una vera guerra. E c’era anche l’elemento della emulazione-contestazione. Quella lotta di liberazione dal fascismo avrebbe dovuto trasformarsi in rivoluzione sociale. La Resistenza era stata tradita. Toccava a noi riprendere quella lotta, con tutti i mezzi necessari. Insomma, tutta una faccenda tra uomini. C’erano naturalmente anche alcune compagne. Ci seguivano. Qualcuna indotta anche da vincoli amorosi. Ho sempre avuto la sensazione che fossero meno entusiaste.
Alla radice, stanno forse meccanismi simili in tutte le situazioni in cui la violenza diventa pratica di vita (e di morte). Nelle gang delle periferie urbane, nei gruppi di fondamentalisti islamici terroristi, nel terrorismo rosso e nero, tra i suprematisti bianchi, nelle formazioni delle “forze speciali” votate agli interventi più pericolosi e più tecnologicamente attrezzati?
La domanda di Virginia Woolf
Nelle discussioni sulla guerra in Ucraina – attraversate da sentimenti di impotenza, di orrore, di incredulità quasi, di fronte all’assurdità di un conflitto “impossibile” tra la Russia, potenza nucleare, e l’Ucraina, per quanto appoggiata dalle potenze anche nucleari dell’Occidente – è tornata per iniziativa di alcune donne, femministe, la straordinaria pagina di Virginia Woolf Pensare la pace durante un raid aereo9. Questo testo è stato, tra l’altro, esposto nella vetrina della Libreria delle donne di Milano, e citato nel libro di Maria Luisa Boccia Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista10. Bisognerebbe leggerlo e rileggerlo, meditarlo, e provare a farsi venire delle idee. Virginia Woolf racconta dei suoi pensieri in una notte in cui sente gli aerei inglesi e tedeschi volare nel cielo buio. Tra la paura delle bombe e il timore per la vita del pilota inglese che combatte, come dicono i capi del suo paese, per la libertà di tutti e tutte contro Hitler. Ma che cosa possono fare concretamente le donne, escluse dalla politica e dal combattimento con le armi?
Si parla tanto di libertà, scrive Woolf, ma
La verità è che stanotte siamo tutti egualmente soggiogati e fatti prigionieri, gli uomini inglesi negli aeroplani, le donne nei loro letti. Ma se il pilota non si concentra sulla battaglia in corso, morirà; e noi con lui. Cerchiamo allora di pensare attivamente al posto suo, di portare allo scoperto l’Hitlerismo inconscio che ci imprigiona, il desiderio di aggredire, dominare, schiavizzare.11
La propaganda promette un futuro disarmo, la guerra si fa per eliminare la guerra, ma alla scrittrice si affaccia subito un dubbio. Sono le parole di un soldato: «…più d’ogni cosa desideravo combattere contro il nemico, ottenere onore e gloria eterni eliminando nemici che fossero stranieri in tutto e per tutto e rimpatriare con medaglie e decorazioni. A questo scopo fino a oggi, avevo dedicato la vita, lo studio, la preparazione del corpo, tutto…». Non basterà promettere il disarmo per far cessare la guerra:
Il mestiere sarà forse abolito ma Otello continuerà a esistere. Il giovane aviere lassù in cielo non è spinto in guerra soltanto dagli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta dentro di sé – istinti antichi, istinti coltivati e tramandati dal sistema scolastico e dalla tradizione. È dunque colpa loro se i ragazzi inglesi incarnano tali istinti?12
Ed ecco la domanda che mi sembra fondamentale:
Anche questo deve dunque far parte del nostro impegno per la libertà, aiutare i giovani inglesi a estirparsi di dosso la venerazione per medaglie e riconoscimenti. Dovremmo inventare attività più gratificanti della guerra per coloro che lottano contro l’istinto bellico, l’Hitlerismo subconscio, in modo da compensarli per aver rinunciato alle armi.13
Alla fine della pagina l’autrice abbozza una risposta, pensando alla bellezza dell’arte in tempo di pace:
per compensare il giovane soldato della rinuncia alla gloria che avrebbe potuto ottenere con l’uso delle armi, dovremmo senz’altro offrirgli la via delle emozioni creative. È nostro dovere creare la felicità, liberarlo dalla mitragliatrice, dalla sua prigione e farlo uscire all’aria aperta. Seppure ci dovremmo chiedere a che serva liberare il soldato inglese se il tedesco e l’italiano restano in catene.14
Forse, più che aspettarci una soluzione dalla cura femminile che ci accompagna da quando ci materializziamo nel ventre di una donna e poi veniamo al mondo, dovremmo noi stessi, uomini, pensare a una risposta. Se siamo davvero convinti che sia giunta l’epoca di una “emancipazione” e liberazione dai vincoli simbolici del patriarcato non possiamo saltare una sorta di rendiconto della violenza esercitata per secoli, privatamente tra le mura domestiche, e pubblicamente nella guerra e nella politica. Compresa la rimozione della presenza femminile nella dimensione della guerra, dalla mitica sconfitta delle Amazzoni, scolpita nei fregi del Partenone, in poi.
Recentemente Lia Cigarini ha fatto quest’altra domanda: che cosa voi maschi considerate “irrinunciabile”? Ho provato a pensarci, ma non sono andato molto al di là della prima reazione che mi era venuta in mente. Non possiamo rinunciare al vostro riconoscimento, al vostro sostegno, al vostro amore. In secondo luogo, e forse per alcuni sarebbe il primo, al nostro desiderio di “fare mondo”. Qualcosa che ci consola dall’impossibilità di mettere al mondo come potete fare voi?Tutto, però, dovrebbe essere reinventato. Dovremmo ripensare la nostra relazione con la cura materna, dopo tante parole, spesso vacue mi sembra, sulla assenza, l’“evaporazione” del padre. Non sarà il fondamentale persistere inconscio di questa attesa e pretesa dall’altra che conduce un maschio alla più orribile violenza omicida (e spesso suicida) quando la donna che considera “sua” decide di rivolgersi altrove?
Uno scambio, una mediazione di tipo nuovo potrebbe avvenire se anche gli uomini si decidessero a rivolgere tutto il tempo necessario – se riuscissero a desiderarlo – alla cura della vita, non solo attraverso la dedizione molto ideologica, astratta, al “fare mondo”. La cura della vita dei figli, delle compagne e dei compagni, degli anziani, degli altri e delle altre. Qualcosa – come ha scritto Laura Colombo15 – che sta cominciando a succedere nel privato, in un altro modo di vivere la paternità, ma che stenta a raccontarsi e a esistere sulla scena pubblica, a divenire nuovo senso comune. Un nuovo modo di agire politicamente, cioè in relazione non violenta con la “polis” e con tutto ciò che la circonda e vi è connesso.
Ciò implicherebbe un modo di organizzare il mondo molto diverso da quello attuale, costretto nella gabbia della competizione sfrenata per una produzione di “ricchezza” che svela ogni giorno di più i suoi effetti devastanti, sulle menti, sui corpi, sull’ambiente. In una logica di mercato in cui entrano solo valori monetari e materiali, e i sentimenti, i desideri, sono ridotti troppo spesso ai peggiori che ci appartengono.
Servirebbero anche gesti capaci di un valore simbolico forte. Mi è capitato di sostenere, in più sedi e da ultimo nella discussione sulle relazioni tra uomini e donne fatta il 3 e 4 giugno 2023 alla Libreria delle donne di Milano per iniziativa delle “Città Vicine” e dell’associazione “Identità e Differenza”, l’idea, la proposta – che dovrebbe essere fatta propria prima di tutto da noi uomini – di un servizio civile di cura (rivolto alle persone, all’ambiente, alla cultura ecc.) obbligatorio per tutti i maschi, e facoltativo per le donne. Un modo per riconoscere che alle donne da sempre e ancora oggi tocca – che lo scelgano o meno – la cura necessaria a metterci al mondo, tutte e tutti.
Un uomo, un amico per cui provo molta stima e affetto, ha protestato vivacemente in quella occasione rispetto all’idea di ritrovarsi in un altro ambiente a maggioranza ipoteticamente maschile. Sarebbe proprio quello da evitare – se ho capito il suo pensiero – per non perpetuare certe modalità della “maschilità tossica”. Io invece credo – anche per un’esperienza assai lunga e tutto sommato per me positiva nella rete di maschile plurale – che un cambiamento radicale come quello di cui qui si prova a parlare non possa fare a meno di pratiche capaci di mutare proprio le relazioni tra uomini. Un passaggio necessario nella ricerca difficile, ancora non compiuta, ma con alle spalle significative esperienze da rimeditare, di una pratica politica comune tra donne e uomini, e le persone che non si riconoscono in questo “binarismo” sessuale, o se si preferisce, di genere. Una pratica capace di superare le ipoteche patriarcali (starei per dire le rovine del patriarcato) che ancora pesano in una politica dei partiti e delle istituzioni sempre più povera di senso, incline a far leva sulla paura, pronta a civettare con la violenza, e con la guerra.
Una discussione tra uomini. Da allargare a tutte, tutti, tutt*
Questi “appunti” derivano anche dal tentativo di discutere sulla guerra che nei mesi scorsi è avvenuto tra alcuni della rete di maschile plurale. Ci sono stati due momenti. In un gruppo più ristretto il confronto è rapidamente scivolato nella contrapposizione secondo gli schieramenti emersi soprattutto nella prima fase della discussione pubblica sul conflitto: bisogna stare dalla parte degli Ucraini, sostenerli anche con l’invio di armi. No, mandare armi significa alimentare l’“escalation” della guerra, e poi anche l’Occidente e la Nato hanno le loro responsabilità… Questo ha provocato risentimenti e di fatto il blocco del confronto. La logica amico/nemico – semplificando – ha rischiato di vincere anche tra noi.
Un secondo tentativo, più largo e durante una riunione nazionale (parte in presenza e parte grazie al collegamento in rete) è ripartito tentando di spostare lo sguardo: prima di interrogarsi sulla geopolitica, i torti e le ragioni di chi combatte, tracciamo la cartografia dei nostri sentimenti, interrogativi, reazioni a un evento che ci tocca profondamente, o che allontaniamo da noi proprio per rimuovere il disagio di una sostanziale impotenza, di una difficoltà insormontabile a capire, conoscere, agire. In un contesto – comune a tutte le guerre, ma oggi forse ancora più evidente – in cui il discorso pubblico è saturo di bugie, propaganda, rimozioni, segreti impenetrabili. Non senza qualche fatica ne è nato un resoconto e la proposta di provare a riaprire una discussione più larga, in cui è entrato anche l’interrogativo sulla matrice sessuata della violenza bellica16.
L’idea è che interrogarsi sulle motivazioni più profonde di chi la guerra la vuole fare, e all’opposto di chi la rifiuta – come per fortuna sta accadendo in modo notevole in Russia, ma anche, sia pure in misura meno evidente, in Ucraina, Bielorussia e in altre parti del mondo (compresi gli Usa, dove sembra sempre più difficile trovare giovani disposti ad arruolarsi) – possa essere più fecondo rispetto all’azione meritoria, ma finora non sufficientemente incisiva, dei mondi del pacifismo e della nonviolenza e dei loro linguaggi. Mondi nei quali sembra ancora poco presente una riflessione sul ruolo maschile nella pratica della guerra e nelle teorie sul conflitto.
Termino questi appunti negli ultimi giorni di agosto (2023). Vedremo se, alla “ripresa”, il tentativo di riaprire la discussione da questo punto di vista otterrà qualche risultato17.
Infine, una piccola notazione. Due libri, diversissimi per contenuto e, a mio giudizio, per valore letterario, forse testimoniano di una sensibilità diversa che si fa strada nelle menti maschili. Ho letto il bellissimo Il passeggero di Cormac McCarthy18, e l’interessante Tasmania, di Paolo Giordano19. Qualcosa li accomuna: il ritorno di un pensiero sull’orrore della guerra atomica, in cui le scoperte più geniali della scienza si sposano con la violenza più totale contro gli umani, il disagio mentale per un mondo in cui la guerra si moltiplica e la vita è minacciata da rischi sempre più oscuri, come oscuro diventa sempre di più il potere politico e economico. E tutto ciò intrecciato con una riflessione sul mutamento radicale delle relazioni tra i sessi. Sarà interessante vedere come nel secondo volume annunciato per settembre McCarthy sarà riuscito – secondo quanto annunciano gli editori – a calarsi nella mente della protagonista femminile (la sorella tanto amata).
Da Musil a Lacan a oggi, dopo la rivolta delle donne dell’ultimo mezzo secolo. La differenza sessuale resta il pensiero da pensare?
Qualche altro libro e testo
Ida Dominijanni, Le tre guerre d’Ucraina, in AAVV, Esiste una guerra giusta? 13 punti di vista su interventismo e pacifismo, UTET, 2023.
Letizia Paolozzi, Cosa mi ha insegnato un anno di guerra, si veda: https://www.donnealtri.it/2023/02/cosa-mi-ha-insegnato-un-anno-di-guerra/
Günther Anders, L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, Mimesis 2016.
Chiara Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis 2020.
Lia Cigarini, La politica del desiderio e altri scritti, Orthotes 2022.
Emmanuel Carrère, V13, Adelphi 2023.
Note
1 https://www.open.online/2022/06/29/boris-johnson-putin-donna-guerra-ucraina/
2 https://www.donnealtri.it/2022/07/in-una-parola-la-mascolinita-che-intossica-il-mondo/
3 Alberto Leiss, Letizia Paolozzi, Il silenzio delle campane. I virus della violenza e la cura, Harpo 2021.
4 Karl von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, 2013, p. 3.
5 Ivi, p. 19.
6 Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Corso al College de France del 1976, Feltrinelli, 1998.
7 Donald W. Winnicot, Dal luogo delle origini, Raffaello Cortina editore, 1990, p. 205.
8 Gaston Bouthoul, Sociologia delle guerre. Trattato di polemologia, Pgreco edizioni, 2011, p. 135.
9 Virginia Woolf, Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, Il saggiatore, 2011.
10 Maria Luisa Boccia, Tempi di guerra. Riflessioni di una femminista, manifestolibri, 2023.
11 V. Woolf, op.cit., p. 600.
12 Ivi, p. 601.
13 Ibidem.
14 Ivi, p. 602.
15 https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/la-questione-maschile-3/
16 Il resoconto e un primo scambio tra alcuni è pubblicato dalla fine di luglio (2023) sul sito della rete di maschile plurale:https://maschileplurale.it/maschi-e-guerra/
17 https://www.donnealtri.it/2023/08/in-una-parola-unaltra-via-per-vincere-sulla-guerra/
18 Cormac McCarthy, Il passeggero, Einaudi 2023.
19 Paolo Giordano, Tasmania, Einaudi 2022.