Cari uomini che eravate ai cortei dell’otto marzo, che avete partecipato alle assemblee promosse dalle donne del movimento “non una di meno”, che siete andati in piazza manifestando la vostra testimonianza contro la violenza maschile verso le donne, contro le persistenti discriminazioni, contro l’omofobia, contro la riproposizione di ruoli stereotipati e destini segnati per due sessi… perché eravate lì? Cosa cercavate e cosa portavate? Cosa avete trovato, come siete cambiati? E ora come andare avanti?
Molti uomini in passato hanno iniziato una propria riflessione e un proprio percorso critico trovandosi cacciati dai cortei delle donne che gli chiedevano di assumersi la responsabilità di una presa di parola autonoma, di non limitarsi a “solidarizzare”, a volte paternalisticamente, con le lotte delle donne.
Oggi che significa per noi essere dentro quei cortei, ascoltare e parlare nelle assemblee promosse dalle donne?
Ci sono tanti modi per stare, come uomini, in questo grande cambiamento in corso.
Anche oggi vediamo uomini che colgono l’occasione per ergersi a difensori delle donne. Altri che ripropongono l’ossequio di maniera, un po’ galante e un po’ deresponsabilizzato: “facciamo fare alle donne, loro salveranno il mondo con la loro sensibilità”. Così, anziché mettere in discussione la rappresentazione stereotipata delle attitudini attribuite ai due sessi, ci si limita a valorizzarle acriticamente. O limitarsi ad affidarsi al maternage femminile anziché prendersi la responsabilità di dire cosa vogliamo, cosa siamo disposti a mettere in discussione di noi, cosa chiediamo nel dialogo con le donne.
Oppure c’è il vittimismo di molti che, dissociandosi dai modelli maschili più tradizionali, lamentano una rappresentazione ingenerosa e caricaturale del maschile, un’ostilità verso gli uomini delle donne e dei loro movimenti. Il cambiamento rappresentato come una minaccia e non come un’opportunità, anche per gli uomini, per ripensare il proprio modo di stare al mondo e di immaginare il proprio destino. Per non parlare dei tanti, troppi, che con la scusa della “ribellione al politicamente corretto”, ripropongono il conformismo di modelli maschili arcaici contrabbandati come “trasgressivi”.
La frustrazione e il disorientamento degli uomini è oggi largamente strumentalizzata da politiche basate sulla paura, l’egoismo e lo sciovinismo. Da Trump a Salvini, da Orban a Erdogan, il maschilismo becero si accompagna allo sciovinismo e magari si presenta come “antisistema”.
Il sogno dell’individuo che si è fatto da solo, che è padrone di se stesso e del proprio futuro, un modello che come uomini conosciamo bene e che è stato alla base della propaganda della società delle “opportunità”, della competizione, dell’individualismo contro i legami sociali, si è trasformato in un incubo: quello per cui ognuno è colpevole della propria condizione: se hai perso il lavoro o non lo trovi, se sei povero è colpa tua e la solidarietà sociale è un lusso che non possiamo permetterci.
Ma al tempo stesso crescono tanti percorsi di cambiamento maschile, spesso fatti in solitudine e senza avere a disposizione le parole per raccontarli, spiegarli, condividerli: essere padri in modo nuovo, vivere la sessualità, la cura del corpo, il rapporto col mondo del lavoro in modo diverso dalle generazioni precedenti. Il cambiamento maschile è già in corso ma non ha parole per essere nominato. E ciò che non ha un nome non esiste, non si può riconoscere.
La libertà delle donne e degli uomini, la libertà delle persona omosessuali ed eterosessuali, la libertà di chi vive nella propria città e di chi scappa dal proprio paese sono inscindibili: o crescono insieme o insieme vengono compresse.
I privilegi degli uomini, il nostro potere, la nostra autorità, le nostre sicurezze resistono e generano discriminazioni e dominio, ma si rivelano anche una gabbia per le nostre vite. La presunzione di superiorità verso il femminile, l’ironia e lo stigma verso l’omosessualità, la virilità come valore, sono delle gabbie dorate ma non per questo meno solide e oppressive.
È possibile per gli uomini pensare la propria libertà di stare al mondo mettendola in dialogo con altre libertà?
Il primo passo può essere quello di scambiare pensieri, storie, desideri. Chi vuole può scrivere a: [email protected]. Se emergerà un desiderio comune proveremo, insieme, a farne qualcosa. Intanto raccontiamoci.
2 thoughts on “Gli uomini nella mobilitazione mondiale delle donne”
Cambiare se stessi per superare vecchie consuetudini
Ho partecipato con mio figlio alla mobilitazione dell’8 Marzo, qui a Pescara, e cosi come bene sottolineava Stefano nella lettera aperta a noi uomini, mi sono interrogato sul senso della nostra partecipazione alla mobilitazione mondiale. Sul che fare il giorno dopo.
Odio anche io l’idea di un sostegno paternalistico, e credo che a volte solidarizzare con alcune battaglie senza fare una seria autocritica quasi rimuovendo il fatto che il nostro genere è “il problema” rischia di essere inutile e addirittura pericoloso. Mio figlio mi chiedeva perché le donne protestavano, i loro motivi, se avevano ragione e come potevamo aiutarle.
La percezione di essere parte del genere maschile non è un passaggio scontato, talvolta la si raggiunge attraverso un fatto traumatico (una vicenda personale o pubblica che ci tocca in prima persona), allora sei costretto a chiederti come sia possibile essere uomini esattamente come quei padri, fratelli, fidanzati, amici che fanno della violenza contro le donne il loro saluto di tutti i giorni. Amare una donna e sentirsi raccontare che con la stessa giustificazione le veniva usata violenza può essere la leva iniziale per porsi domande sulla propria sessualità, sul proprio genere, sulle modalità con le quali si entra in contatto con i corpi delle altre e degli altri.
Se il genere maschile è di fatto il carnefice,il corpo dominante, è impossibile non provare a fare un scarto, un cambio di passo che producano un cambio radicale che possano portare inevitabilmente a chiedersi come si faccia a non essere conniventi ma parte attiva in un processo di cambiamento complessivo dei rapporti tra generi.
Dunque non basta essere contro la violenza,in modo neutro e/o generico, ma serve che noi uomini ci facciamo carico di costruire un punto di vista soggettivo che metta radicalmente in discussione il nostro modo di relazionarsi, sia tra di noi sia con le donne.
Modificare il linguaggio che utilizziamo ogni giorno, dallo stare insieme, che rispetta i tempi di vita e di lavoro diversi per ognuno e ognuna di noi, partire da se, dalle proprie esperienze rompendo la separatezza tra pubblico e privato.
Per chi poi milita in un partito a sinistra, la questione è ancora più greve e dirimente, come cambiare noi stessi e di conseguenza modi e tempi dello stare insieme nella forma partito che ci diamo? Ulteriore difficoltà pensare di collocarsi tra coloro che in termini classici definiamo “sfruttati”, “subalterni”, “oppressi” e invece essere al contempo il genere agente dell´oppressione? Definirsi “compagni” senza affrontare questi nodi è un problema.
Spero che anche questa lettera aperta di Stefano possa essere l´inizio di un cammino che ci faccia uscire dal paradosso per cui la violenza contro le donne è un fatto che riguarda solamente il genere femminile. E ponga a noi uomini l’obiettivo, di trovare un nostro modo di costruire sia dentro che intorno a noi, pratiche altre per stare nella discussione in modo utile, e non semplicemente retorico. E vero Stefano, “crescono tanti percorsi di cambiamento maschile, spesso fatti in solitudine e senza avere a disposizione le parole per raccontarli, spiegarli, condividerli: essere padri in modo nuovo, vivere la sessualità, la cura del corpo, il rapporto col mondo del lavoro in modo diverso dalle generazioni precedenti. Il cambiamento maschile è già in corso ma non ha parole per essere nominato. E ciò che non ha un nome non esiste, non si può riconoscere.” Credo sia arrivato il tempo di irrompere nella politica trasformando queste micro esperienze individuali in un pensiero collettivo e organizzato e credo che nelle prossime mobilitazioni dovremmo arrivare con un nostro punto di vista e con azioni concrete che ci facciano essere parti attive di un cambiamento necessario.Mio figlio attende una risposta collettiva.
Diamoci degli obiettivi, degli appuntamenti, e proviamoci tutti insieme.
Oltre a lavorare su se stessi nel senso di quanto avete esposto, credo che sia necessario dare effettivamente visibilità a tutto questo. Pur rischiando, forse, qualche riduzionismo e fraintendimento, penso che occorra creare/costruire un qualche slogan-parola d’ordine-simbolo che esprima, oltre alla propria volontà personale di mettere in discussione la cultura sia vetero che neopatriarcale , anche e soprattutto l’affermazione che esiste una coscienza collettiva maschile che SOFFRE in modo indicibile ogni qualvolta una donna viene uccisa o maltrattata. Nell’era dell’informazione occorre INCIDERE sulla coscienza collettiva facendo sicuramente un salto di qualità politico e mediatico. Più queste idee diverranno parte riconosciuta del comune sentire, più dovranno farci i conti tutti i maschi, compresi quelli più condizionati (destinati diversamente a perpetrare i prossimi femminicidi); e questo faciliterà, in prospettiva, alle donne il duro e rischioso compito di rapportarsi con soggetti maschili potenzialmente pericolosi.
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Cambiare se stessi per superare vecchie consuetudini
Ho partecipato con mio figlio alla mobilitazione dell’8 Marzo, qui a Pescara, e cosi come bene sottolineava Stefano nella lettera aperta a noi uomini, mi sono interrogato sul senso della nostra partecipazione alla mobilitazione mondiale. Sul che fare il giorno dopo.
Odio anche io l’idea di un sostegno paternalistico, e credo che a volte solidarizzare con alcune battaglie senza fare una seria autocritica quasi rimuovendo il fatto che il nostro genere è “il problema” rischia di essere inutile e addirittura pericoloso. Mio figlio mi chiedeva perché le donne protestavano, i loro motivi, se avevano ragione e come potevamo aiutarle.
La percezione di essere parte del genere maschile non è un passaggio scontato, talvolta la si raggiunge attraverso un fatto traumatico (una vicenda personale o pubblica che ci tocca in prima persona), allora sei costretto a chiederti come sia possibile essere uomini esattamente come quei padri, fratelli, fidanzati, amici che fanno della violenza contro le donne il loro saluto di tutti i giorni. Amare una donna e sentirsi raccontare che con la stessa giustificazione le veniva usata violenza può essere la leva iniziale per porsi domande sulla propria sessualità, sul proprio genere, sulle modalità con le quali si entra in contatto con i corpi delle altre e degli altri.
Se il genere maschile è di fatto il carnefice,il corpo dominante, è impossibile non provare a fare un scarto, un cambio di passo che producano un cambio radicale che possano portare inevitabilmente a chiedersi come si faccia a non essere conniventi ma parte attiva in un processo di cambiamento complessivo dei rapporti tra generi.
Dunque non basta essere contro la violenza,in modo neutro e/o generico, ma serve che noi uomini ci facciamo carico di costruire un punto di vista soggettivo che metta radicalmente in discussione il nostro modo di relazionarsi, sia tra di noi sia con le donne.
Modificare il linguaggio che utilizziamo ogni giorno, dallo stare insieme, che rispetta i tempi di vita e di lavoro diversi per ognuno e ognuna di noi, partire da se, dalle proprie esperienze rompendo la separatezza tra pubblico e privato.
Per chi poi milita in un partito a sinistra, la questione è ancora più greve e dirimente, come cambiare noi stessi e di conseguenza modi e tempi dello stare insieme nella forma partito che ci diamo? Ulteriore difficoltà pensare di collocarsi tra coloro che in termini classici definiamo “sfruttati”, “subalterni”, “oppressi” e invece essere al contempo il genere agente dell´oppressione? Definirsi “compagni” senza affrontare questi nodi è un problema.
Spero che anche questa lettera aperta di Stefano possa essere l´inizio di un cammino che ci faccia uscire dal paradosso per cui la violenza contro le donne è un fatto che riguarda solamente il genere femminile. E ponga a noi uomini l’obiettivo, di trovare un nostro modo di costruire sia dentro che intorno a noi, pratiche altre per stare nella discussione in modo utile, e non semplicemente retorico. E vero Stefano, “crescono tanti percorsi di cambiamento maschile, spesso fatti in solitudine e senza avere a disposizione le parole per raccontarli, spiegarli, condividerli: essere padri in modo nuovo, vivere la sessualità, la cura del corpo, il rapporto col mondo del lavoro in modo diverso dalle generazioni precedenti. Il cambiamento maschile è già in corso ma non ha parole per essere nominato. E ciò che non ha un nome non esiste, non si può riconoscere.” Credo sia arrivato il tempo di irrompere nella politica trasformando queste micro esperienze individuali in un pensiero collettivo e organizzato e credo che nelle prossime mobilitazioni dovremmo arrivare con un nostro punto di vista e con azioni concrete che ci facciano essere parti attive di un cambiamento necessario.Mio figlio attende una risposta collettiva.
Diamoci degli obiettivi, degli appuntamenti, e proviamoci tutti insieme.
Oltre a lavorare su se stessi nel senso di quanto avete esposto, credo che sia necessario dare effettivamente visibilità a tutto questo. Pur rischiando, forse, qualche riduzionismo e fraintendimento, penso che occorra creare/costruire un qualche slogan-parola d’ordine-simbolo che esprima, oltre alla propria volontà personale di mettere in discussione la cultura sia vetero che neopatriarcale , anche e soprattutto l’affermazione che esiste una coscienza collettiva maschile che SOFFRE in modo indicibile ogni qualvolta una donna viene uccisa o maltrattata. Nell’era dell’informazione occorre INCIDERE sulla coscienza collettiva facendo sicuramente un salto di qualità politico e mediatico. Più queste idee diverranno parte riconosciuta del comune sentire, più dovranno farci i conti tutti i maschi, compresi quelli più condizionati (destinati diversamente a perpetrare i prossimi femminicidi); e questo faciliterà, in prospettiva, alle donne il duro e rischioso compito di rapportarsi con soggetti maschili potenzialmente pericolosi.