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Feb 2013 “Trasformare il maschile” – intervista a Salvatore Deiana
a cura di Marco Reggio
già pubblicata da antispecismo.net
Trasformare il maschile [S. Deiana e M. Greco (a cura di), Trasformare il maschile nella cura, nell’educazione, nelle relazioni, Cittadella Editrice, Assisi 2012] è un testo a più voci sul cambiamento in corso dei “modelli” maschili, a partire dai temi delle esperienze maschili pedagogiche e di cura.
“Questo volume vuole partecipare al dibattito ormai aperto in ambito pedagogico su se e come educare un essere umano a vivere anche in termini di genere, partendo dall’idea che sia poco naturale e spontaneo il vivere come maschi e come femmine, ma che pure in questo ambito siamo in larga parte costruiti dalle culture e dalle società. Il libro riserva un’attenzione e un approfondimento particolari nei riguardi degli uomini, coinvolti come attori o come destinatari – bambini e adulti – della formazione/educazione/cura.
È uno spazio per alcune voci maschili – tra cui un padre, un maestro di scuola, un educatore, un volontario ospedaliero, un formatore in ambito sportivo, uomini impegnati contro la violenza maschile sulle donne – a partire dalle proprie esperienze, perché, al di là dei momenti di teorizzazione o di governo, la presenza maschile nei luoghi di educazione e di cura è sempre più numericamente minoritaria ma può essere, forse anche per questo, originale e portatrice di trasformazione.”
Abbiamo intervistato uno dei curatori, Salvatore Deiana, ricercatore e docente di Pedagogia presso la Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari, e membro dell’Associazione Maschile Plurale.
Marco: Trasformare il maschile introduce alcune riflessioni teoriche di tipo pedagogico e filosofico sui rapporti fra i generi e sulla cura “al maschile”, ma è anche una raccolta di contributi di uomini che si raccontano, che mettono a nudo il proprio vissuto negli ambiti educativi e di cura, o in contesti particolari come le campagne contro la violenza maschile sulle donne. Come siete arrivati a scegliere un approccio del genere, direi quasi inusuale per gli autori di sesso maschile?
Salvatore: Credo sia stato determinante un bisogno percepito di concretezza, di esprimere delle riflessioni collegandole alla vita di ciascuno di noi: non solo un’osservazione distaccata, stando fuori dai problemi e dalle questioni, bensì vedere questi aspetti calati nella nostra esperienza, anche se non soprattutto in quella personale e individuale. In questa scelta, poi, ha inciso molto il riferimento a una prassi del “partire da sé”, di matrice femminista, che riconosciamo e sentiamo come un principio ispiratore di grande importanza. Ancora, questa scelta delle testimonianze alla prima personale maschile, singolare e plurale, cioè individuale e collettiva, era di per sé stessa una scelta trasformativa: esserci come persone intere, come uomini che pensano e sentono, che elaborano idee e provano emozioni, e vivono in relazioni dando a queste valore, quindi non mera e sola razionalità.
La vostra attività di confronto ed attivismo politico nella rete “Maschile Plurale” (e la ricerca del gruppo “Trasformazione”) è stata evidentemente determinante. Puoi parlarci della nascita e della storia dei gruppi di riflessione maschili in Italia?
Io sono abbastanza giovane alla partecipazione diretta e in prima persona a questa storia, avendo cominciato a frequentare Maschile Plurale nell’ottobre 2009, ma ho cercato di conoscerla e di farmene un’idea. Mi sembra si possa dire che esista già da diversi anni una rete di singoli e gruppi di uomini impegnati contro la violenza maschile sulle donne. Questo tema è stato direi il più delle volte il punto di origine di queste esperienze di uomini: interrogarsi sulla propria appartenenza, appunto come uomini, a una cultura della violenza maschile sulle donne, farlo in spazi di condivisione ristretti e intimi e simultaneamente agire più apertamente per l’emersione della violenza nascosta, in modo da poterla più efficacemente prevenire e contrastare. Così il problema originario ha portato a nuove domande, e più in generale a una messa in discussione dei modelli identitari del genere maschile: rendere plurali i modi di essere maschi, renderli differenti dal modello del virilismo, cominciare a costruire nelle nostre vite altre esperienze di relazione, fra uomini e con donne. A volte, ma mi sembra più raramente, la riflessione sul maschile e l’esperienza della condivisione del proprio vissuto relazionale, espressa in gruppi maschili, ha invece anticipato un’azione più direttamente rivolta a intervenire sul problema della violenza maschile: mi sembra sia questo il caso del Cerchio degli Uomini di Torino, per come emerge nel contributo al volume da parte di Roberto Poggi. Può forse essere indicativo datare alcuni momenti: ad esempio Stefano Ciccone, l’autore di Essere maschi, e altri già scrivevano sulla violenza e sull’identità maschile negli anni Novanta; Uomini in Cammino, il gruppo e foglio nato presso la Comunità di base di Pinerolo, compie nel 2013 vent’anni di attività; i primi incontri del Cerchio degli Uomini risalgono al 1998; i gruppi locali di Roma e Bologna, già autodenominatisi Maschile Plurale, hanno una storia significativa in questo primo decennio del secondo millennio; infine, mi sembra abbiano segnato una svolta l’appello “La violenza contro le donne ci riguarda come uomini”, del settembre 2006, e la stessa costituzione formale dell’associazione nazionale Maschile Plurale nel 2007. L’associazione ha poi tenuto un ritmo di tre incontri nazionali all’anno, uno iniziale e invernale di programmazione, un secondo più di condivisione e di comunicazione personale, un terzo più politico e aperto al confronto con la società. Gli incontri nazionali sono stati affiancati da una gran quantità di iniziative locali, e da un vivace dibattito nel web, che è testimoniato dai molti documenti inseriti nel sito www.maschileplurale.it
Come sottolineato nel testo, esistono però una serie di fenomeni (penso ad alcuni gruppi di padri separati, o ad alcune pubblicazioni) che vedono con ansia, se non con aperta ostilità la presa di parola delle donne e la crisi del ruolo maschile tradizionale. Beppe Pavan, nel suo articolo, parla della necessità di “elaborare un lutto”. Tu come interpreti questa insicurezza, questa aggressività di fronte al cambiamento che hai chiamato “autoesclusione maschile che si narra e rappresenta come vittima”? Ritieni che vi sia il rischio del ritorno di modelli smaccatamente virilisti (non ancora superati, peraltro)?
L’“autoesclusione maschile che si narra e rappresenta come vittima”, in un mio saggio nel volume, è connessa all’interpretazione del fenomeno della femminilizzazione dell’educazione da parte dello psicanalista junghiano Claudio Risè: non ritengo sia corretto dire, come fa lui, che le donne hanno cacciato gli uomini dall’educazione, quando abbiamo davanti agli occhi situazioni come quella dell’allontanamento maschile dalle professioni della cura educativa, con particolare riferimento alle scuole per l’infanzia e primarie, in cui si intrecciano scelte e quindi volontà maschili di non occuparsi professionalmente in questi ambiti e peso delle rappresentazioni sociali e culturali dei ruoli di genere. Per altro, mi sembra che i movimenti delle donne abbiano causato dei sommovimenti in stati e condizioni esistenziali permanenti da tempi molto lunghi: siamo di fronte a trasformazioni di cui sui tempi brevi riusciamo a vedere solo aspetti limitati e significati o senso molto parziali.
Le questioni di genere inoltre si connettono e interagiscono, in una doppia direzione e senso, cioè ricevendo e dando, con altri fenomeni di vasta portata: ad esempio potremmo mettere in relazione l’insicurezza degli uomini, per un ruolo e un’identità maschile perlomeno in discussione e transizione, con l’idea di Edgar Morin della nostra epoca come momento dell’incertezza, che dobbiamo imparare ad accettare e gestire, oppure con il passaggio di stato delle identità, individuali e collettive, da uno stato “solido” a uno “liquido”, secondo Zygmunt Bauman. Certamente esiste questa insicurezza e incertezza, specialmente maschile, soprattutto maschile, perché si tratta di trasformazioni in buona parte subite dagli uomini, ovvero originatesi dapprima dal fatto che molte donne non sono più state disponibili a vivere e a stare in relazione secondo le modalità che hanno perdurato per molti secoli e millenni.
La presenza ancora estremamente diffusa di modelli virilisti la percepiamo spesso chiaramente nelle affermazioni quotidiane basate su formule stereotipate, in cui si manifesta la ricerca di complicità, rivolta a uomini ma anche a donne. Credo che di questa mentalità si possano raccontare una quantità di aneddoti. Ma non è solo questo: è anche che queste forme mentali, schemi pregiudiziali si intrecciano con altre “gabbie di genere” ancor più problematiche, dubbie, difficili da decostruire e ricostruire, per cui facilmente ci affidiamo a vecchie soluzioni sempre pronte all’uso. Ne racconto solo una: in un laboratorio di formazione pedagogica sulla genitorialità, ho sentito presentare da un uomo partecipante, come esempio di “coraggio paterno”, la propria scelta di assumersi la responsabilità esclusiva di lavorare e portare i soldi a casa, cioè in famiglia, in quanto marito e padre, con complementare accettazione da parte della moglie e madre del compito della cura della casa e della prole. A me pare invece trattarsi di un non meditato ripristino di posizioni già sottoposte a critica approfondita e radicale, che prima o poi farebbe riemergere i problemi di potere, di relazione asimmetrica e di mancanza di libertà di sempre. E non ritengo si tratti di un caso isolato, anzi.
Una riflessione che introduce in qualche modo le esperienze e i temi dei diversi contributi del libro è quella relativa all’educazione. Puoi spiegarci in che senso il genere è – come tu dici – “una questione pedagogica”?
Con questa formula intendo dire che il genere, le identità e differenze di genere, ci pongono interrogativi che dobbiamo affrontare quando scegliamo di occuparci della formazione degli esseri umani, bambini e bambine, uomini e donne. Perché ciascuno di noi si forma stando in relazione, principalmente con altri esseri umani, e la sessuazione, l’essere sessuate/i influenza in maniera decisiva questo nostro vivere ed essere-con. Quindi vi sono dei presupposti teorici della pedagogia: le identità, alterità, differenze come aspetti fondamentali della pratica formativa e della cura educativa, e il genere in questo è un aspetto primario. Inoltre, se ci pensassimo scopriremmo quanto ci poniamo in maniera irriflessa rispetto al genere: vi è un sapere del senso comune a portata di mano, e quando abbiamo fretta, cioè quasi sempre nelle nostre vite attuali, troviamo immediatamente disponibili le risposte preconfezionate. Così dobbiamo sottoporre il genere e i generi a un’opera di decostruzione, vedere quale sostanza ci rimane eventualmente, e provvedere a ricostruire le “forme dell’umano”. Potremmo anche scoprire che spesso riusciamo solo a dire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Veniamo a una questione che tocca fortemente la mia sensibilità di animalista, cioè di soggetto umano che, nel contestare la violenza sugli animali, si scontra con il fatto che le azioni autonome degli oppressi – gli animali, appunto – non siano ancora politicamente efficaci, tanto che l’opposizione allo sfruttamento viene dagli umani (o almeno da una loro piccola parte) che pure avrebbero evidenti vantaggi dal perpetuamento di tale sfruttamento. I contributi del libro, ognuno a modo proprio, sottolineano un fatto importante: i maschi, di fronte all’attuale messa in discussione di ruoli, stereotipi, identità di genere, hanno molto “da guadagnare” dal punto di vista esistenziale, delle relazioni. Partendo dall’idea, mutuata dal Teatro degli Oppressi, che “la leva originaria della trasformazione è sempre in mano alle figure oppresse”, poni il problema dell’azione maschile nella trasformazione delle questioni di genere. Riguardo al posizionamento degli uomini in questa dialettica, mi sembra che una prima risposta, una prima direzione da voi indicata sia quella di riconoscere che lo stimolo al cambiamento scatti dal soggetto oppresso (il genere femminile che con le rivendicazioni politiche, le pratiche individuali e collettive di ridefinizione dei modelli, l’elaborazione teorica ha messo in moto una trasformazione delle identità), ma che gli uomini possono coglierne l’importanza scoprendo come tale cambiamento incontri dei loro bisogni, desideri, insoddisfazioni. Cioè scoprendo che si può “stare dentro il processo di cambiamento che questa presenza femminile determina con il suo agire, e non contro”, come dite tu e Massimo Greco. Questa possibilità mi sembra che venga illustrata sia sul piano generale, teorico, sia su quello delle esperienze individuali, come in quella di Beppe Pavan, il cui percorso di cambiamento è iniziato su stimolo della moglie. Quali pensi che possano essere (o quali senti che siano per te) gli elementi che gli uomini possono valorizzare per non essere, appunto, contro? Che cosa hanno da guadagnare da questo momento storico di ridefinizione (o superamento) dei modelli di genere?
La difficoltà a individuare e a vivere, come uomini, motivazioni che ci spingano a praticare un maschile differente, e a partecipare a un “movimento politico”così orientato, o in cui questo sia un aspetto di rilievo, emerge anche in una certa predilezione e maggiore presenza e coinvolgimento che riscontriamo nelle attività di condivisione, nelle situazioni di prossimità raccolta. Da una parte io credo che si debba sottolineare il desiderio, o meglio il bisogno di relazione, e ovviamente di relazioni soddisfacenti, positive e gratificanti, che è in me e credo un po’ in tutti gli uomini dell’area: sentire il disagio rispetto a certi modi di essere maschi, la mancanza di reciprocità, riconoscimento, affettività, e l’esigenza di trovare altri modi di essere e modalità di relazione che invece producano benessere nello stare ed essere con. In questo senso c’è il mio desiderio di relazione, che è un eros, anche variegato come natura, cioè sessuale ma non solo, e che scopre di non poter essere soddisfatto se non incontra il desiderio dell’altra o degli altri, di non poter essere unilaterale, paradigma e criterio unico ed esclusivo della relazione. Dall’altra anche questo desiderio è insufficiente, a mio parere, se non incontra una spinta etica, se non si intreccia e rafforza unendosi ad essa. Perché in qualche modo la forza per agire ci viene quando inclinazione e imperativo morale, essere e dover essere, piacere e dovere si rafforzano reciprocamente, ci sono entrambi, che altrimenti mi pare si esaurisca prima o poi la carica e l’impegno, quando si scopre il peso della relazione, il suo non essere mai tutto piacevole, nell’incontro con l’alterità che è anche urto con essa.
Il “guadagno” è sempre quello che nasce quando il nostro moto verso l’altra/o viene ricambiato, quando al nostro “amore” qualcuna/o risponde ugualmente con amore. E quando scopriamo un senso, di noi stessi e del nostro essere, che riconosciamo e che ci viene riconosciuto. E questo non può avvenire con l’imposizione. È come con l’autorità, che funziona, esiste ed è efficace quando consensualmente è riconosciuta, e vive nell’eteroattribuzione: qualcuna/o dice di qualcun’altra/o che è autorevole, ne afferma il sapere e il valore. Vi è inoltre il senso di libertà, l’uscire dalle gabbie identitarie, dai modelli stereotipati, dal dover essere conformisticamente corrispondenti a un’idea di potenza, anche questa molteplice, che però non corrisponde al nostro essere come singole soggettività maschili: il che vuol dire ancora poter provare, avere la possibilità di provare emozioni sinora vietate al genere maschile, nella sua versione più tradizionale, e fra queste ad esempio la tenerezza e la paura, senza soggiacere a condanne preventive.
Un’altra questione che sento molto come antispecista, è la questione della cura, che nel testo emerge in riferimento alla genitorialità e ad altri ambiti esplorati da testimonianze in prima persona: le esperienze di educatori, di infermieri, di volontari ospedalieri. La prima cosa che mi viene da pensare, è che avremmo bisogno anche di una narrazione autobiografica della cura maschile degli animali: anche questo è un campo considerato “tradizionalmente” femminile, in cui gli uomini faticano a raccontarsi, a proposito di quanto sottolineato da Massimo Greco, e di cui avremmo invece un gran bisogno (diciamo pure, sfacciatamente, che è una proposta per la prossima pubblicazione…). Il legame fra la questione della cura e quella della corporeità è evidente, e nell’ambito maschile proprio Greco sviluppa l’idea che le difficoltà nella cura abbiano a che fare soprattutto con la difficoltà di percepire e raccontare il proprio corpo, anche e soprattutto nella malattia. Tu affronti in modo molto diretto anche il tema della gratuità della cura, e della sua retribuzione, chiarendo un punto piuttosto importante: “non compensare la pratica dell’aver cura sul piano retributivo rimane uno dei modi per non riconoscerle valore, ed è stata questa una delle strategie sociali (o maschili) più ricorrenti per negare il riconoscimento del lavoro domestico e familiare delle donne”. Questo non può non farmi pensare alla cura degli animali, sia negli ambiti domestici, sia in quelli riconosciuti istituzionalmente, come i canili. In questi ultimi, le attività previste dalle leggi italiane sono rette quasi interamente dal volontariato, da una gratuità che è spesso motivo di vanto (e che è in effetti ammirevole), ma che nasconde proprio una svalutazione di tali pratiche. Nel caso specifico, ad onor del vero, tale svalutazione si affianca però alla svalutazione più macroscopica, quella dei soggetti destinatari della cura, gli animali. Forse proprio per questo, sarebbe ancora più importante che il mondo che ruota attorno alla cura degli animali chiedesse un maggiore riconoscimento: non a caso, questa rivendicazione è stata una tappa significativa nel percorso politico del movimento femminista. Puoi dirci qualcosa del rapporto fra il valore del dono disinteressato del proprio tempo e la necessità di un riconoscimento in termini economici?
Sinceramente, non mi esaltano le posizioni e le affermazioni assolute a favore di una gratuità pura. Credo di voler dare e insieme ricevere, di vivere molti “conflitti di interessi”. E’ che dobbiamo riconoscere i valori e i beni che contano, e vedere quali “monete” esistono e quali utilizza ciascuna/o di noi nello scambio. In questo può non esservi, in molte modalità di relazione, una reciprocità totale, un ricambiare o un ripagare con la stessa moneta. Ma qualcosa interviene sempre, ripaga, retribuisce il nostro sentire e agire appassionato: andiamo alla ricerca del riscontro di un sorriso, nelle cure e coccole che facciamo a una creatura neonata, a un nostro bambino o bambina piccolo/a. Andando alla ricerca dei migliori beni e valori, un sentimento profondo, ad esempio, un legame, un “ne va della mia vita nella tua”, è un bene o valore che al “cambio delle relazioni” è secondo me particolarmente pregiato. Ma esiste nelle nostre società una povertà indotta e un insufficiente apprezzamento di certi “beni” e “monete”, di questi beni, per cui io credo si debba intervenire, mi verrebbe da dire culturalmente e politicamente, nel piccolo e nel grande mondo delle relazioni. Precisando ancora questo discorso, possiamo evidenziare come la cura, che è un bene relazionale di grande valore, nella sua dimensione di lavoro e non solo, non sia particolarmente apprezzato, nei fatti, nei contesti in cui viviamo.
Perciò io sposterei la questione: piuttosto che di doni disinteressati, parlerei di beni e valori relazionali, e della necessità ed esigenza di riconoscere il loro pregio, tanto più a confronto di altri beni di molto più limitato valore. E questo dovremmo dirlo sia affermando il primum vivere, come hanno fatto le donne riunitesi a Paestum a fine 2012, sia l’esigenza crescente di ottemperare e dare risposte alla sopravvivenza materiale e alla miseria economica.
So che alcuni attivisti di Maschile Plurale hanno posizioni critiche nei confronti di specifiche forme di sfruttamento degli animali, a partire dalla caccia. Credi si tratti di un caso, di sensibilità individuali, o al contrario pensi sia possibile ricondurre tali voci all’esistenza di qualche nesso fra la violenza sugli animali e la violenza patriarcale? Lo sgretolamento dell’immaginario maschile “tradizionale” può avere ripercussioni positive anche sulle relazioni fra la specie umana e gli altri animali?
Credo che l’immagine o il modello culturale del maschio cacciatore sia un aspetto molto presente nel paradigma tradizionale e storicamente egemone della maschilità. Si possono elencare più testimonianze al riguardo. Una è quella del film recente “Il sospetto”, del regista danese Thomas Vinterberg, in cui possiamo rintracciare più elementi e spunti per la messa in discussione dei caratteri identitari del maschile. Il protagonista è un uomo separato che lavora come maestro in una scuola per l’infanzia, con un atteggiamento che direi improntato a una forza gentile. Non mi soffermo molto sul nucleo scatenante la vicenda, che comunque è un sospetto di distorta, perversa pedofilia nei confronti di quest’uomo. Piuttosto, rispetto alla domanda, è significativo che la caccia sia nel film l’esperienza di identificazione e condivisione maschile per eccellenza: i maschi sono compagni di caccia, lì si forma l’amicizia reciproca fra uomini, e il ricevere un fucile da caccia e andare a usarlo per la prima volta è il rito di iniziazione di genere maschile fondamentale.
Poi possiamo pensare al rapporto con la carne animale e la sua preparazione come cibo da mangiare, la sua cottura e divisione delle parti. In particolare in Sardegna, ma certamente anche altrove, siamo stati abituati a vedere il maschio, l’uomo di casa, spesso quello di maggior prestigio nel clan familiare, il capofamiglia, che si prende l’onere ma soprattutto l’onore dell’arrostire la carne: il senso simbolico è l’attribuzione di prestigio e autorità.
Credo che nell’esperienza della caccia vi sia un senso di potenza predatoria, di non considerazione degli altri esseri viventi, di dominio dell’alterità, di subordinazione e gerarchia di valore fra le diverse forme di vita, che ha una relazione con la gerarchia e il dominio fra persone di genere e sesso diversi. Perché se è vero che ciascuna forma di violenza ha una sua specificità, le diverse forme di violenza sono anche accomunate da modalità simili, ovvero tautologicamente una strutturazione e costituzione della relazione come violenza tra un Maggiore, cioè un dominante, e un minore, un essere dominato, come dice l’antropologa ed educatrice nonviolenta Pat Patfoort. Alla domanda sulla possibile o eventuale influenza della messa in discussione dei modelli tradizionali del maschile sui rapporti tra uomini e animali risponderei quindi con una considerazione molto ampia e generale: nelle nostre pratiche, credo vi sia l’autocoscienza come immagine di sé riflessa in uno specchio interiore, ma anche la consapevolezza che le nostre identità si formano nella relazione e soggiaciono allo sguardo degli altri esseri. Dobbiamo perciò, come procedura conoscitiva ed etica, praticare esercizi di decentramento, stare nell’equilibrio acrobatico fra la percezione autonoma e la chiamata dell’alterità, il dentro e il fuori le cornici, la nostra visione del mondo e altri punti di vista: io la chiamo teoria del fenicottero, che sta con una zampa nell’acqua e l’altra piegata all’esterno. La prima ricaduta sarà quindi nell’apprendere, nel diventare consapevoli della propria parzialità, nell’emanciparci o liberarci dal paradigma universale del maschio umano, insieme a tutti gli altri corollari di una autocentratura.
Una questione secondo me centrale è quella del concetto di “Natura”, da cui discende quello di “contronatura”. Le relazioni di dominio trovano infatti giustificazione nell’idea che certi ruoli siano “naturali”, che i rapporti storicamente dati siano ineluttabili, non contestabili, non modificabili. Semplificando un poco, le donne in cucina, gli animali in tavola, gli uomini “cacciatori”. Mi sembra che la critica delle visioni essenzialistiche, della “naturalizzazione” dei modelli di genere, ispiri la vostra riflessione.
Risponderei sottolineando che tra la realtà e la sua rappresentazione esiste un’interazione, uno scambio bidirezionale, per cui cerchiamo di vedere le cose per come esse sono, ma l’idea che ce ne facciamo poi condiziona il loro modo di essere e le trasforma. Detto anche diversamente, il sapere trasforma la realtà, perché opera per modificarla a sua somiglianza. In questo senso, ad esempio, la paternità biologica è un sapere che in quanto tale ha un’origine storica e che ha cambiato le culture, a volte sentiamo affermazioni per le quali ha fatto nascere le o addirittura la civiltà. E non è che io mi senta totalmente in disaccordo con questo, solo si tratta perlomeno di vedere secondo che segno, con quale senso e giudizio parliamo di civiltà, se critico o meramente come riconoscimento del come sono andate le cose. La paternità biologica è natura, seppure direi non solo, perché anche per essa vi è un’attribuzione di senso e un’interpretazione culturale, cioè interna a specifici sistemi di valori e visioni del mondo; è però una natura non immediatamente evidente, per cui la paternità è anche un modo di vivere certe relazioni e richiede un riconoscimento da parte di altre persone, da parte di una madre e da parte di un figlio o una figlia, e perciò può accadere che si riconosca e chiami padre qualcuno che non è il padre biologico. La paternità è ai miei occhi un esempio adeguato di intreccio fra cultura e natura, in cui un fenomeno naturale viene ricostruito, rimontato secondo un sapere e secondo parametri culturali. Nei miei saggi nel volume, faccio riferimento anche a ricerche scientifiche che sembrano dimostrare questo: che un uomo diventa padre quando un sapere glielo dice –l’ecografia della madre con la nuova creatura incorporata- e quando quindi qualcuna/o lo riconosce come tale e sceglie di convivere con lui chiamandolo con questo nome.
A proposito di questo, che influenza ha avuto sulla vostra riflessione l’emergere del movimento LGBTQI e l’elaborazione della teoria queer? Che relazione hanno i temi proposti da tali ambiti, in particolare, sulla prospettiva che proponi tu – sulla scia della filosofia di Diotima – legata all’idea di un’autorità materna quasi “naturale” contrapposta ad un’autorità paterna da costruire? Tale prospettiva entra in qualche modo in conflitto con l’idea di un superamento radicale del binarismo di genere? O esiste una possibilità di sintesi?
A me sembra che un’influenza delle elaborazioni dell’arcobaleno degli orientamenti sessuali e queer vi sia stata, ma ancora debba svilupparsi una riflessione più profonda e collettiva nell’area di Maschile Plurale al riguardo. Credo che vi siano significative differenze su questo tra gli uomini della rete, ma non una radicalità sul tema nell’esperienza e riflessione e condivisione in comune. Come dire, ancora non ci siamo pluralizzati abbastanza, mi sembra, e privilegiamo la riflessione e l’azione sul maschile nella relazione con il femminile, l’appartenenza di genere più che la singolarità libera dalla identificazione in modelli, denominazioni, orientamenti, e a volte l’eterosessualità sembra essere un presupposto latente. Questo è per me un problema ma anche in parte una “necessità strategica”, una scelta contingente e storica: dico questo perché comunque il vedere i generi, soprattutto il maschile e il femminile, con la loro parzialità, far vedere in particolare quella che è stata e ancora è spesso “l’invisibile parzialità del maschile”, con la felice espressione di Sandro Bellassai, è già un progresso molto importante rispetto a un paradigma del maschile come universale, spacciato per neutro. Certo manca molto, è un limite e un peso non da poco essere ingabbiati nel maschile e dover sopportare la realtà di una storia e l’etichetta conseguente, come singolo che vive nelle grandi categorie collettive e in esse è in prima istanza incasellato: credo però sia un passaggio necessario, il riconoscere questa appartenenza, perché solo dopo questa ammissione, consapevolezza e presa di responsabilità si potranno fare altri passi avanti.
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