di Gianni Ferronato
Se dovessi dire in breve del mio percorso esistenziale e politico da quando ho conosciuto, attraverso alcune amiche, Adriana in particolare, il movimento femminista, direi che ho imparato in primis a pensarmi relativo, parziale. L’essere di sesso maschile non mi autorizzava a parlare al neutro e a nome di altri, soprattutto di altre. Potevo solo dire la mia esperienza, i miei desideri, le mie proposte. Il famoso partire da sé.
Uno stereotipo maschile antico mi imponeva in un certo senso di pensare solo pensieri che potessero essere estesi a tutti gli esseri umani e che il mio pensare fosse solo uno scoprire le leggi universali. Altri stereotipi tipicamente maschili dovetti superare in seguito, dal controllo delle emozioni al successo nella carriera, dall’esibizione di forza virile a dimostrazioni di interesse per il potere. Da me comunque sempre vissuti come ingrate ingiunzioni. Di grande aiuto mi fu in questo la relazione con donne libere dai tipici stereotipi femminili, la cura e la maternità come destino, la complementarietà con il maschile, la debolezza e l’emotività, ecc…
Questa cosa fu per me liberante ma anche spiazzante. La relazione con loro diventava più complicata, a volte ansiogena, un navigare a vista, anche se più interessante. Sento come un paradosso il fatto che dove le donne hanno storicamente acquisito competenza ed autorità proprio là si siano fissati gli stereotipi che per secoli e millenni hanno tarpato o deturpato la loro soggettività.
Oggi penso alle relazioni donne-uomini come a un laboratorio in cui le soggettività interagiscono a partire dai desideri di ciascuno e di ciascuna, soggettività però capaci di fare i conti con la realtà storica da cui provengono. Fare i conti significa non solo uscire dalle gabbie, dai modelli, ma anche valorizzare le competenze, anche quelle non scelte, quelle che ci sono toccate nella nostra contingenza storica.
Recentemente mi è capitato di conoscere anche un altro filone del femminismo italiano, quello di Lea Melandri. Mi ha colpito in particolare l’insistenza sul tema del rapporto madre-figlio maschio che può secondo me dirci qualcosa di più sul groviglio amore- violenza. Il femminismo della differenza invece ha messo a tema soprattutto il rapporto madre-figlia, il rapporto di affidamento e di autorità, le genealogie femminili. Restituendo grandezza e forza alla condizione femminile. Con quest’ultimo approccio finora io davo per scontato, in un certo senso, che ogni donna “libera” fosse anche “autorevole in sé” e che se io non la percepivo così era perché non avevo occhi adatti. La conseguenza era una forzatura nella relazione che poneva l’altra “là dove mi aspettavo che fosse” (per dirla come Ciccone) e me in uno schema predeterminato dalla mia aspettativa. E’ questo il risultato su di me di un pensiero che attribuisce ad una condizione umana, quella femminile, una sorta di privilegio ontologico? Come io in fondo ho colto nel pensiero della differenza. Non lo so. Non ho gli strumenti per rispondere, mi basta ragionare sulla mia esperienza. Ho scambiato a volte per autorità l’assertività ed il coraggio di esporsi in pubblico unite ad una buona parlantina. Oggi riconosco autorità ad una donna, ma anche ad un uomo, quando sento, oltre al coraggio, anche competenza, amore, capacità di comunicare. Ma anche questo potrebbe essere uno schema nel quale mi costringo per capire chi è autorevole per me. Per questo oggi preferisco pensare al libero gioco-conflitto tra libere soggettività di donne e di uomini.
Le cose non sono semplici. Stefano Ciccone parla di soggetti opachi a sé stessi. Sara Gandini e Laura Colombo ci incalzano perché pensano che noi ci sottraiamo al conflitto, lamentando in fondo la perdita di una delle conquiste del femminismo e cioè che anche il privato è politico. Qual è il punto politico di questa nostra difficoltà di dirci quando uno di noi è accusato di violenza? La mia prima reazione è stata di capire qualcosa di più sui fatti, non dando per scontato che tutte le ragioni fossero dalla parte di lei e rendendomi conto poi che una verità “oggettiva”, se anche si potesse dire, in realtà sarebbe poco interessante per capire le radici della violenza.
Così ora sento il bisogno di chiedere alle donne con cui ho una relazione significativa quali miei atteggiamenti e comportamenti loro abbiano percepito come violenti. Ho anche ripensato ai conflitti con mia moglie e a cosa mi ha permesso di superarli senza che degenerassero da parte mia in violenza o in chiusura della relazione. Io credo che questa cosa sia stata l’apertura di credito che lei fece nei miei confronti all’inizio (“con te ho sentito che potevo fidarmi” mi disse), ma poi anche un amore femminile senza maternage, senza sconti. Un pungolo, senza il quale forse non mi sarei mosso. Io credo che un uomo, se non percepisce il “mi fido di te” di una donna, difficilmente potrà uscire dall’imprintig del controllo, del potere, della violenza, specialmente se non ha avuto una madre “sufficientemente buona” come dice Winnicot. Perché l’amore materno non è scontato, come dice Badinter. Questo non significa che tutto dipenda solo da lei. Anzi io credo che anche tra uomini sia possibile un’apertura di credito in una sorta di sfida non violenta come ben descritto da Chiara Zamboni tra Gandhi e il governatore inglese dell’India in “Parole non consumate”.
All’ultimo Convegno di Torreglia Antonella Barina ha segnalato con forza che la violenza maschile contro le donne deve essere considerata come patologia. Aprendo il campo ad un possibile dibattito su responsabilità personale e terapie di guarigione. Allora perché la complessità non paralizzi e perché si possa andare oltre il potere e la violenza è necessario conservare ed ampliare gli spazi in cui gli uomini possano dirsi oltre le proprie paure (gruppi di autocoscienza, gruppi di autobiografia, scrittura, narrazione di sé, psicanalisi, centri di ascolto), senza restringere quelli che le donne si sono costruiti in questi ultimi decenni e senza dimenticare il sapere teorico e pratico da loro prodotto.