Ritratto di padre e figlio in abiti tradizionali delle Alpi Walser (1920 – 1930)
Apr 2012 “Un padre anti-sessista”
di Lorenzo Gasparrini
già pubblicato sul sito genitoricrescono
Doveva essere, più o meno, nel Maggio o Giugno del 2004. Ero in macchina, sul Raccordo Anulare, per lavoro. Per l’ennesima volta mi viene in mente che da lì a pochi mesi sarò padre e, finalmente, scoppio a piangere. Mi tocca accostare, perché tra una smorfia che non è né pianto né riso le lacrime non si fermano, e neanche mi va tanto di fermarle.
Padre, io? Col padre che ho avuto? Un padre assente, dopo il divorzio. Per il quale a otto anni mi sono trovato a parlare davanti a un giudice, che voleva sapere se davvero mio padre non lavorava quindi non poteva pagarmi gli alimenti. Quello stesso che ricordavo benissimo aver picchiato mia madre, averla spesso trattata male, anche davanti ad altri.
Certo, crescendo di modelli ne ho avuti altri; tutti i sogni di un bambino, di un adolescente, sono lì, pronti a occupare un vuoto – tanto non ci riusciranno comunque. Allora mio padre era un po’ Roberto Pruzzo, un po’ Bobby Fisher, un po’ Tempei Matsuki, e comunque era anche quello che vedevo, a giovedì alterni e su disposizione del giudice, tutti i weekend.
Insomma, fermo in corsia di emergenza, piangevo di felicità mista a paura, e continuavo a chiedermi: sarò il padre che ho avuto o quello che volevo?
Domanda sciocca, che solo uno non ancora padre può porsi. Perché poi tuo figlio nasce e il tempo delle domande è finito: adesso devi dare solo risposte. E pure in fretta.
Scopri così che non puoi non essere anche come tuo padre, qualunque padre tu abbia avuto, perché per essere un buon padre devi prima di tutto aver fatto pace con il tuo. Non tanto con quello che sta fuori – può darsi che con lui tu non ci riesca mai – ma con quello che ti porti dentro, con l’immagine, col modello di tuo padre.
E’ cominciato così, contemporaneamente, il lavoro su me stesso, il lavoro di padre, e il lavoro con mio padre. C’era tutto questo non-pensato ancora da sistemare, e pure di corsa, perché adesso ero responsabile di un Ivan che aveva me come padre e non aveva certo potuto sceglierselo. Quindi dovevo darmi una mossa.
Al di là delle questioni psicologiche, è questo che mi ha fatto riprendere la mia attività politica. Quando è nato anche Andrea, e sono diventato padre di due maschi, mi sono guardato in giro per capire che modelli avrebbero potuto incontrare; e la risposta è stata molto triste.
L’uomo comunemente apprezzato e valorizzato dai media è un machista, un esibizionista di virilità nei rapporti umani, economici, sociali, culturali. E’ l’uomo che vince, che arriva primo, che conquista, che possiede, che ordina, che ottiene, che pretende, che ha di diritto. Questo tipo di uomo mi fa schifo, e non posso sopportare l’idea che un modello così stupidamente violento possa condizionare la crescita dei miei figli. Non voglio neanche che, per il solo essere maschi, possano essere accomunati a chi usa il proprio corpo come un’arma, o a chi si crede autorizzato ad essere violento perché avrebbe subito dei torti. Questo modo di intendere la “virilità”, l’ “essere maschio”, la trovo una mostruosa esibizione di frustrazione e di incapacità – nonché la strada più sicura per essere isolati socialmente e soli nell’esistenza, malgrado le promesse dei luoghi comuni, delle pubblicità, e di certe organizzazioni.
Per adesso, lo so, si tratta di giocare in contropiede. Si tratta di sopportare le risatine dei conoscenti, certi sguardi dei padri (e delle madri) dei compagni di scuola, la violenza verbale dei tanti troll e dei pochi poveracci ignoranti sempre pronti a rovesciarti i loro rozzi insulti (e le loro raffinate ipocrisie). Mentre tu provi a non dividere la realtà in rosa e celeste, a non abituare i tuoi figli a ruoli già imposti dalla semplice “educazione”, mentre provi a rendere i tuoi piccoli sensibili e pronti al dialogo, invece che scimmiette contente di ripetere le arroganze dei “grandi”, puoi solo, ogni tanto, ricevere un grazie, uno sguardo meravigliato, un gesto di complicità. Per ora, deve bastare e avanzare; loro capiranno più avanti quanto è necessaria adesso questa “diversità”.
Penso a Ivan e Andrea, come a tutti gli uomini che stanno ancora crescendo, e non posso evitare di impegnarmi a difendere il loro linguaggio, la loro cultura, il loro pensiero da quei poteri che li vogliono sempre forti, virili, vincenti, da quei modelli che ne vogliono fare dei conquistatori, dei primeggiatori, dei competitivi sempre e comunque, in ogni aspetto dell’esistenza, e sempre a scapito e al prezzo di assoggettare tutto e tutti, in primo luogo gli altri generi.
Per questo, oggi, in Italia, sono un padre antisessista. Lo sono perché il modello di uomo diffuso mediaticamente dalla nostra cultura è un uomo che usa gli altri corpi e le altre parole come un mezzo per il proprio godimento, e non come un fine per il piacere comune.
Mi terrò ancora per molto, lo so, il bollino infamante – per chi lo usa, ovviamente – di “femminista”, di “quello che aiuta le donne”, perché è molto più facile dirmi che sono uno interessato alle donne (o rincoglionito dalle donne, o soggiogato dalle donne) piuttosto che interessato ad essere un uomo diverso dal sessista medio che circola per questo paese, e ad educare due figli in modo che non siano gli squallidi “maschi” che tanto vanno di moda.
Io voglio i miei figli umani, non li voglio né primi né ultimi. Li voglio mossi dalla sensibilità dell’affine, non dalla pietà del superiore; li voglio interessati al diverso, non indifferenti al dissimile; li voglio volenterosi e non violenti, li voglio vedere collaborare e non comandare; li voglio curiosi, non morbosi; li voglio empatici e non aridi, curiosi di apprendere e non smaniosi di sapere. Li voglio capaci di rispettare, e non pronti a condannare.
Per fare questo, il lavoro su me stesso, sul mio linguaggio, sul mio corpo, sulle mie abitudini, è continuo e incessante – ma fatto insieme a loro, è una continua fonte di piacevoli sorprese, perché impariamo insieme a essere uomini.
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