Feb 2013
“A margine del libro di Lea Melandri Amore e violenza“
di Gianandrea Franchi
A Pordenone, il 15 febbraio prossimo si terrà un incontro con Lea Melandri sul suo libro Amore e Violenza.
Giandrea Franchi assieme all’autrice parteciperà all’incontro, organizzato da Voce Donna di Pordenone .
Per un uomo della mia generazione, che si è sempre occupato di politica extraistituzionale, salvo una breve e remota parentesi nel PCI, la crisi di questa politica nella seconda metà degli anni 70 è stata un’esperienza ovviamente dolorosa: il richiudersi delle acque stagnanti di un sistema di potere che in questo paese non aveva nemmeno quei bagliori storici che poteva avere in altri paesi.
Dolorosa, con una sensazione anche personale di fallimento, ma comprensibile. Ero infatti in grado di capire, avendo attraversato gli anni Sessanta e Settanta con l’opportunità di incrociare il movimento delle donne, il femminismo, per rapporti personali, frequentazione di ambienti e letture, i limiti stessi di questa politica che voleva contestare il potere, non avendo mai messo a tema il rapporto uomo/donna, cioè la forma più arcaica e originaria di dominio, peraltro già dichiarato apertamente da Engels agli albori del movimento social-comunista, ma non a caso rimasto lettera morta.
E, proprio per questo, aveva ripetuto inesorabilmente, come in un copione, ciò che Lea Melandri chiama la scissione originaria: la riduzione del corpo pensante a organismo, la separazione fra corpo e pensiero, matrice di ogni altra scissione, che nasce con il dominio dell’uomo sulla donna.
“Sulla diversità biologica del maschio e della femmina la storia – in quanto storia di una comunità di soli uomini – ha costruito il più duraturo dei rapporti di potere: divisione dei ruoli sessuali, esclusione delle donne dalla polis, identificazione della donna con il corpo, la natura” (Amore e violenza, p.29)
Questa scissione fonda anche il politico, lo spazio pubblico come spazio di esclusioni, da cui le donne sono – e complessivamente tuttora (ma non è questione di quote rosa) – escluse per principio.
Questa scissione originaria – e la definizione è giustissima, una sorta di trauma mai sanato – legata al dominio maschile sul corpo della donna, cioè sul corpo che genera, che riproduce la vita (questo è essenziale), fra il corpo, sessuato, e un pensiero che diviene ragione astratta, conoscenza volta al controllo, questa scissione è insieme anche quella fra uomo, fra umanità sotto il segno maschile, e natura, considerata, appunto, una matrice (chora) da controllare e poi una semplice fonte di materie prime, di energia passiva per così dire, come il legno, il carbone, il petrolio, materia che dà energia distruggendola e poi dà rifiuti: un principio di morte è inserito nell’industrialismo capitalista.
C’è quindi un nodo soffocante alle origini della storia conosciuta in cui si originano la violenza e infelicità che attraversano la storia, un rimosso che riemerge sempre e che ha sempre reso velleitari i tentativi di andare verso una comunità degli esseri umani abitata dal piacere e dalla felicità, come se ci fosse una natura umana stabile e definita, aggressiva e violenta, ratificata anche scientificamente o pseudoscientificamente, ad esempio dal darwinismo o dalle sue deformazioni.
Lea Melandri mette in particolare rilievo il ritorno dell’originario, mostra come l’oggi sia caratterizzato dal fatto che “ il residuo più arcaico che si è incorporato nel tessuto sociale tanto da scomparire dalla coscienza riemerge come attualità” e che la ricomparsa di questo residuo non è una sorta di regressione, ma il riaffiorare di uno strato profondo e sempre attivo della condizione umana, del trauma originario.
C’è qui in gioco un aspetto concettuale importante, una concezione non storicistica della storia, che non sembra ideologica ma, oltre che di letture soprattutto psicoanalitiche ma non solo, frutto d’esperienza, per cui gli strati arcaici non sono delle fasi che vengono superate, ma vanno a costituire una sorta d’inconscio storico che agisce perciò con tanta più forza.
Ad esempio, in fenomeni di odio e di violenza incontrollabili, come nell’insorgere continuo del razzismo, in qualcosa che si è visto non da molto e non da lontano nel feroce disfacimento dello Stato Jugoslavo e anche, ovviamente, nella violenza contro le donne che, proprio nella crisi jugoslava, ha conosciuto un diapason.
Sembra che oggi la trama della convivenza, gli schemi d’identità, insomma tutto ciò che tiene in qualche modo insieme la gente, pur tra mille drammi e traversìe storiche, si sia eroso, si stia consumando e non sia più in grado di operare quella colossale rimozione su cui si basa la nostra civiltà.
La crisi che stiamo vivendo non è dunque una crisi come altre, neanche come quella del ’29, che pure ha generato le decine di milioni di morti della II guerra mondiale e l’orrore di Auschwitz, ma è una crisi di civiltà, della civiltà che domina su tutta la terra, della civiltà in cui il valore supremo sono il profitto e il guadagno a tutti i costi.
Nella crisi, tuttavia, agisce anche, con varia visibilità, ma con costanza e con forza, il movimento delle donne, una corrente d’istanze radicali di liberazione, nata negli anni Sessanta – l’epoca nel segno del ’68! – istanze represse e rimosse, significativamente nelle aree a dominante maschile. Il movimento delle donne, il femminismo, nelle sue varie componenti è l’erede delle istanze più profonde di quegli anni.
Ma oggi domina anche l’’altro aspetto della scissione originaria, l’aggressione contro la natura, che ha raggiunto un livello insopportabile, superando la fase di non ritorno: sta intaccando le basi della vita, il genoma, il periodo perinatale…
E’ come se questa scissione, alla base della civiltà dominante, oggi stesse diventando una sorta di spinta cieca alla morte, visibile nel dominio della figura antropologica dell’individualismo proprietario, che è la fase attuale del patriarcato nei paesi cosiddetti sviluppati, nella forme astratte del dominio del denaro, che è pur sempre un dominio sessuato, maschile
Questa condizione di riemersione dell’arcaico rimosso deve ridefinire i principi della politica. Parlo ovviamente di quella politica che ritiene necessario andare verso una trasformazione delle condizioni della vita sociale e che chiamo politica di liberazione.
Un tema centrale del pensiero delle donne è il concetto che il personale è politico, tema che è anche divenuto uno slogan, perché é in effetti molto difficile da mettere seriamente in atto, ma che è fondamentale, perché tenta di superare un altro aspetto della scissione originaria, quella fra privato e pubblico, la costituzione stessa della sfera politica come sfera separata.
Intende cioè portare direttamente nella politica i propri desideri, le proprie emozioni, la propria sessualità e quindi, per noi uomini, un ripensamento della nostra antropologia, dei desideri, delle emozioni, della nostra struttura simbolica basata sull’aggressività, sul controllo, sull’astrazione. L’economia che domina il mondo è una sublimazione astratta dei valori maschili.
A questo proposito si pone, anche e soprattutto per noi uomini, il fatto che “per costruire una nuova cultura politica, che abbia presente l’intera vita occorre ‘mettere in gioco il proprio corpo’, interrogare la propria esperienza, vedere la soggettività come corpo pensante, sessuato, plurale, capace di riconoscersi nella sua singolarità e al medesimo tempo in ciò che lo accomuna agli altri, consapevole che solo avanzando verso strati sempre più profondi di noi stessi si può accedere a un orizzonte più generale” (p.29)
Qui c’è anche quello che mi viene da chiamare il problema politico dell’infanzia. L’infanzia, la fase in cui si forma l’essere umano, non è una fase superata, il cui il ritorno sia regressivo, ma è continuamente attiva, sia positivamente come possibilità di recuperare le proprie emozioni primarie, il centro della propria soggettività, sia in senso negativo come impedimento, incapacità, blocco.
Il problema politico dell’infanzia è strettamente legato al ritorno del rimosso originario indicato prima. Se si tratta per noi uomini di fare i conti con la nostra antropologia, complice del dominio, questo deve individuare momenti e spazi, non può essere affidato soltanto al conflitto sociale, al ‘movimento’.
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