Ricordami di te
di Mario Simoncini
Ci ho messo una vita a capirlo, a capire che la fine di un grande amore è sì un trauma all’inizio, quali che siano le circostanze che vi hanno posto fine (noia, tradimenti, morte…), poi subentrano malinconia e rimpianto, e poi ancora, finalmente, l’accettazione e il ricordo affettuoso: riesco a tornare nei luoghi dove l’amore si è consumato, mi siedo nel “nostro” caffè di Place Contrescarpe, forse allo stesso tavolino dove sedevo in tua attesa, in attesa di te, Marie Thérèse, mia amante, mia amica, mia compagna, mia sorella, così bella e bionda e forte, cerco di ricordare, ma senza riuscirci, dove fosse, in quale città o borgo della Toscana, la chiesa dove ci baciammo per la prima volta con te, F, baci famelici, feroci, sacrileghi, rivedo come fosse ieri lo studio dove tu, L, affrontasti la tua prima seduta fotografica, e il fotografo era uno dall’aria un po’ loschetta di Catanzaro, di Catanzaro! e ti chiese se avessi problemi a spogliarti e così io assaporai con gli occhi la magia dei tuoi seni nudi, due piccole coppe su un corpo efebico, prima, molto prima, di prenderne possesso e di poterli accarezzare e baciare e succhiare, torno a Levanzo, ML, e mi immergo in quel mare trasparente e azzurro e odoroso dove una volta facemmo l’amore, parecchio tesi, ma tu di più, per paura di essere scoperti dagli altri bagnanti, e poi prendo in affitto la “nostra” casa di Manarola con quell’enorme terrazzo dove prendevamo il sole e ci immergevamo nel tramonto abbacinante, e tu mi raccontavi della famosa femminista veneta che avevi salutato poco prima mentre ci arrampicavamo su per i vicoli del paese, perché anche lei villeggiava là, e io avevo esclamato “ma è identica a Lino Toffolo!”, attraverso via Lomazzo accanto alla sede del Sole 24 ore e ti rivedo, R, così minuta sotto l’ombrello che ti avevo prestato perché ti riparassi dalla pioggia, mentre mi vieni incontro lentamente quasi per permettermi di contemplarti più a lungo e cercare di indovinare che ne sarebbe stato di noi, della nostra storia cominciata appena il giorno prima, e sono con la fantasia nella mia vecchia casa di Formigine, è domenica mattina, e tu, D, mi chiami quasi scandalizzata nel vedere i miei vicini che zampettano operosi sotto un sole cocente, “Mario, varda sti mona che laveno e machine, de domenega!”, faccio la fila al botteghino del Festival di Locarno ricordando la mia impazienza di allora per gli anziani tedeschi che ci mettevano un’eternità a farsi consegnare gli accrediti, quando sbuffai ad alta voce “amunì ca scurò” (“forza che si è fatto tardi”) e tu, C, mi rimproveravi fingendo imbarazzo ma ridendo nel contempo per la mia sfacciataggine…
Ma sono soprattutto le strade di Palermo e di Modena, le città dove ho vissuto più a lungo, così cariche di presenze, che mi fanno sentire ricco di ricordi, di affetti, di sensazioni ancora così potenti, e non mi curo di fare distinzioni, è tutto così vivo, così bello, amori teneri e costanti, ma anche amori passeggeri, amori onesti tuttavia, privi di inganni e di prevaricazioni, amori fatti di sesso e di poco altro, odori attaccati alla pelle, e mani e bocche e lingue che si cercano e si abbrancano prepotenti, sospiri che diventano ansimi.
La cultura popolare spesso è portatrice di saggezza, e così, pur fatta la tara del maschilismo/machismo di Sergio Leone, pensiamo a quanto racconta di sé Cheyenne (Jason Robards) a Jill (Claudia Cardinale) nel suo capolavoro C’era una volta il West: “Sai Jill, tu mi ricordi mia madre, era la più grande puttana di Alameda ma anche la donna più in gamba che sia mai esistita. Chiunque sia stato mio padre, per un’ora o per un mese, è stato un uomo molto felice”. Appunto, i grandi amori possono durare anche un’ora, anche solo per un’ora si può essere felici e appagati, come felici e appagati ci appaiono Kyle Reese (Michael Biehn) e Sarah Connor (Linda Hamilton), i protagonisti di Terminator di James Cameron, che in un delirante trip distopico riescono, sia pure per poco, a nascondersi dal cyborg che li insegue e ad amarsi e a concepire un figlio che rappresenterà il loro legame affettivo e simbolico e un ponte tra mondi che non potranno mai incontrarsi.
Ma poi, per dirla con Hegel, il riconoscimento dell’Altro è qualcosa di imprescindibile per la stessa definizione di me stesso, per la stessa possibilità della mia esistenza. E’ pacifico tutto ciò? No, per niente, la pace si raggiunge solo con la morte, con la definitiva assenza, questa tensione verso l’Altro è invece conflittuale, è dinamica, si manifesta attraverso un continuo divenire, una incessante trasformazione. Sperimento negli amori, lunghi o brevi, amori di anni o amori di una notte, comunque amori in cui la mia soggettività non si è mai scissa dal mio corpo (e così spero accadesse per chi mi era accanto), una sorta di irriducibilità, lo spazio incolmabile della differenza, dell’alterità.
In questo spazio si annida il soffio caldo e rigenerante del desiderio.
Ma che fatica coltivarlo, annaffiarlo come una pianta fragile e preziosa, preservarlo dalle insidie del tempo e soprattutto da quelle di un appagamento illusorio! Anche qui si fa strada il ricordo dell’ultima sequenza di un vecchio film, un film di Mike Nichols, Il laureato: ricordate? ricordate Benjamin (Dustin Hoffman), il protagonista, che si è precipitato dalla sua amata, che incollerita e aizzata dai genitori sta per sposare un altro? la cinepresa inquadra di fronte i due finalmente riuniti, seduti accanto nell’autobus che li sta accompagnando verso una vita da vivere insieme; nei primi istanti ci appaiono felici e sorridenti, ma passato il breve momento di euforia li sorprendiamo con lo sguardo fisso in avanti, non si chinano più l’uno verso l’altra, non si toccano, immersi presumibilmente nel dubbio e forse nell’angoscia per un futuro tutto da esplorare e inventare; solo lei per un attimo si gira a guardare lui e sembra che pensi: “ma chi è quest’estraneo, questo sconosciuto a cui sto per affidarmi, con cui mi accingo a condividere la mia vita?” Un film che, a saperlo leggere, rovescia il tradizionale happy end hollywoodiano in un punto di domanda: che ne è, che ne sarà del loro desiderio?
Ma un piccolo amore che finisce è molto peggio, non lascia nulla se non recriminazioni e domande ossessive (se avessi o non avessi detto, se avessi o non avessi fatto, e come abbiamo potuto giungere a questo, e come avremmo potuto evitarlo…), è impotente come un moscone che sbatte con insistenza contro i vetri di una stanza che è la sua prigione e che potrebbe diventare la sua tomba, è tossico come un parassita che ti si aggrappa e ti penetra nell’organismo spargendo veleno. Un piccolo amore vive nello spazio indefinito di cui scrive Robert Frost: “We met. But all we did that day was mingle great and small footprints in summer dust as if we drew the figure of our being less than two but more than one as yet.” Già, impronte nella polvere, che il vento non esiterà a cancellare, di noi che ci siamo incontrati, che siamo stati sì più che uno, ma comunque meno di due, purtroppo. Un piccolo amore si lascia dietro rancori pesanti come tossine, e anche quei pochi momenti delicati e struggenti sono avvolti nell’amarezza. Che fatica restare fedeli a sé stessi, alle proprie conquiste di libertà, la propria, quella dell’altra, che fatica resistere all’agguato del narcisismo esasperato, che fatica allontanare da sé la tentazione di procurare dolore, di farsi giudici e persecutori, di farsi carnefici. Resta il ricordo di corpi che si erano scoperti solo parzialmente complementari, che non aderivano del tutto l’uno all’altro, che lasciavano passare tra loro, come un soffio gelido, uno spazio mortifero, the deadly space between di cui, nel contesto di una caccia alla balena/demonio che è poi la caccia alla nostra ombra, alla nostra parte oscura, ci parla Melville. E allora attraversare questo spazio, così come si attraversa un tunnel pieno di aria stantia, è forse ineludibile proprio per chi ha vissuto questi piccoli amori, a volte neppure consumati o consumati nella fretta o nel disinganno, piccoli amori oscuri, piccoli amori disperati. Per andare incontro e aggrapparci comunque con ostinazione a quel flusso disordinato, contraddittorio, caotico che chiamiamo vita.