IL MISTERO DELL’INFANZIA
di Gian Andrea Franchi
Io non sono uno psicologo, uno psicanalista, un esperto in qualche cosa. Certo, mi occupo di filosofia, ho pubblicato qualche testo, ma non penso che ciò mi dia titoli particolari a parlare dell’argomento di questa sera. Io inoltre non sono stato nemmeno padre, son privo quindi di quella fondamentale esperienza che è la relazione con un figlio.
Sono un uomo qualunque che, per ragioni contingenti, si trova a parlare dell’infanzia. Questo però è un argomento a mio favore. Chiunque non solo può ma deve occuparsi dell’infanzia, a cominciare dalla propria. Peggio per lui se non lo fa! Siamo stati tutti infanti e occuparsi della propria infanzia è non solo il presupposto per occuparsi dell’infanzia altrui, ma anche per occuparsi veramente di se stessi. La cura dell’infanzia (propria) dura tutta la vita.
Sono dunque profondamente convinto dell’essenzialità e della persistenza della dimensione infantile nell’adulto. E’ il tema principale di quel che cercherò di dire.
Vorrei quindi parlarvi essenzialmente della presenza dell’infanzia nell’adulto. Presenza fondamentale ma sottaciuta, che si ritrova in tutti gli aspetti della vita, soprattutto nei momenti fondamentali di essa, dolorosi o gioiosi.
Ovviamente, la presenza dell’infanzia nell’adulto differisce profondamente da quella nell’infante e nel bambino per l’evidente motivo che deve confrontarsi con altri aspetti con cui può entrare in conflitto. Infatti, nell’adulto è generalmente rimossa o denegata. Ciò significa che agisce al di sotto del livello cosciente, ma non per questo è meno attiva, al contrario, ciò che è rimosso agisce con la massima forza.
Perché chiamare l’infanzia un mistero?
Voglio citare una grande scrittrice brasiliana perché dice una cosa splendida sul mistero: “Quando si raggiunge il nodo incomprensibile del sogno, si accetta questa grande assurdità che il mistero è la salvezza” (Cl. Lispector, La mela nel buio, Feltrinelli, p. 317).
“Il mistero è la salvezza vuol dire” vuol dire, secondo me, che, per avere intelligenza della vita, bisogna dirigersi verso i suoi aspetti misteriosi e accoglierli in quanto tali, senza spaventarsene o cercare di oggettivarli, di ridurli al noto.
Trovo che mistero sia una parola bellissima perché indica l’apparire di qualcosa che non si comprende, di cui ci si stupisce ma che si deve accogliere. Indica quindi una dimensione di apertura nei confronti della vita. Indica il mettersi in gioco con poche difese, correndo rischi.
Nel mistero dell’infanzia – vorrei dire nel mistero della potenza dell’infanzia nella vita – è custodito il mistero della condizione umana.
Ogni bambino che viene concepito dà inizio al lunghissimo processo di formazione di un essere umano che riassume in sé tutta la storia dell’antropogenesi, depositata nel suo corpo. Il nostro corpo, infatti, è un condensato di storia dell’umanità e non solo dell’umanità, della vita. Ad es., sappiamo che nel cervello ci sono parti più e parti meno arcaiche o che i gruppi sanguigni sono scaglionati lungo una linea temporale: alcuni, come il gruppo 0 sono più antichi, altri come il gruppo ab più recenti e ciò ha delle conseguenze per quel che riguarda la tolleranza alimentare.
Per me adulto, che ricordo frammenti della mia infanzia, che osservo la condizione infantile per quel che posso vederla e che ci rifletto, avendone compreso la fondamentale importanza per tutto il corso della vita, l’infanzia è un mistero in quanto sfugge a una conoscenza precisa, anche quando si esercitano su di essa gli strumenti di varie discipline, come la psicoanalisi, la psicologia e altre ancora.
Tutto ciò che nella vita è importante ha un alone di mistero. ‘Mistero’ vuol dire, nel mio linguaggio, che la vita è troppo complessa per essere oggettivata, per essere aperta come un corpo sul lettino del chirurgo; che è sempre ricca di possibilità inesplorate.
Misteriose, sfuggenti, inafferrabili, rimangono anche le emozioni fondamentali di ciascuno di noi, che all’infanzia sono profondamente legate.
Le emozioni fondamentali sfuggono perché sono uno degli aspetti della vita naturale e culturale troppo complessi per essere oggettivati in una conoscenza ben definita. Ogni conoscenza è per sua natura parziale, soprattutto quelle che riguardano il vivente e l’umano. Non va mai assolutizzata. Col tempo cambierà. Ogni conoscenza deve essere aperta e capace di sopportare possibili smentite.
A proposito della complessità, mi vien da dire che l’infanzia ha da insegnarci lo stupore di fronte alla vita, che è il contrario dell’abitudine, l’importanza del domandare, la curiosità inesauribile. Diceva una pensatrice che ammiro molto, Carla Lonzi: “dobbiamo essere all’altezza di un universo senza risposte”, cioè senza certezze. Non dobbiamo mai stancarci di domandare. Il bambino domanda spesso e chiede delle risposte. Di frequente, però, pone domande che non possono avere risposta. Non perché è soltanto un bambino, ma perché non è ancora entrato negli schemi dell’abitudine, che hanno sempre a che fare con il potere, con i dispositivi sociali dominanti.
Credo che dobbiamo conservare la capacità di porre domande senza risposta e, comunque, di non farci mai bastare le risposte, di guardare e pensare sempre oltre.
Un’importante filosofa del Novecento, Hannah Arendt, fa della natalità una categoria centrale del suo pensiero. Ogni essere umano che viene al mondo può e dovrebbe essere un inizio, dovrebbe avere la capacità di “iniziare una nuova serie nel tempo”, di non seguire il corso già dato della cose, di creare.
Infatti, prima di tutto, ogni essere umano è unico, esiste una volta sola ed è questa unicità che reca agli altri e che produce o piuttosto dovrebbe produrre qualcosa di nuovo nel mondo: un inizio, una novità assoluta. Questa novità, cui ogni essere umano ha diritto, si scontra però con la società che invece tende a vivere – non può non vivere – secondo schemi ripetitivi, secondo meccanismi sociali di rassicurazione e sicurezza (basti pensare allo Stato…) ciò che ovviamente si riflette nelle famiglie, nel comportamento dei genitori, nella scuola…. Ogni nuovo essere umano che viene al mondo viene sottoposto a questi schemi nel tentativo di rimodellarlo secondo la loro misura. Ciò dà luogo nella vita di ciascuno di noi a un continuo contrasto fra uniformità e novità. Alla maggior parte degli esseri umani, anzi, questa fondamentale qualità viene del tutto negata. Lo sappiamo tutti.
Una delle più importanti studiose dell’infanzia, la grande psicoanalista Melanie Klein, scrive: “L’esperienza mi ha insegnato che possiamo capire la personalità adulta in tutta la sua complessità solo se riusciamo a esplorare la psiche del bambino” (Klein, Invidia e Gratitudine, 13).
L’intelligenza del bambino, il suo modo di essere, rimangono la base da cui parte ogni ulteriore sviluppo nella vita adulta.
Un altro grande psicanalista dell’infanzia, Donald Winnicott, nella sua lunga esperienza di terapeuta dei traumi infantili, ha visto nel rapporto madre/bambino la fonte della creatività umana. Ha chiamato ‘spazio transizionale’ la circolazione affettiva tra madre e infante in cui il secondo, rassicurato dalla presenza materna, può cominciare a esplorare il mondo intorno a lui servendosi di qualche oggetto comune che gli sta intorno, come di un ponte fra sé – un sé ancora molto incerto e precario – e l’altro. Un esempio famoso, a livello di divulgazione di massa, è la coperta di Linus. Nel caso in cui la presenza materna non sia sufficientemente rassicurante, sorgono inevitabilmente dei traumi che condizioneranno tutta l’esistenza della persona.
All’infanzia è legata, in particolare, quella forma essenziale di relazione emotiva genericamente chiamata amore. Questo nome unifica certamente emozioni e comportamenti diversi, anche perché una caratteristica della dimensione emotiva è la fluidità, la mancanza di confini netti, il trapassare l’una nell’altra, l’inafferrabilità.
Così, noi chiamiamo amore il legame essenziale di un bimbo con la madre e della madre col bimbo; l’affetto che fonda e tiene insieme il legame di coppia; quella peculiare forma di incontro che è il cosiddetto innamoramento; ma possiamo chiamare amore anche una forte amicizia e l’amore per gli altri, per il prossimo….
Tuttavia l’emozione o piuttosto il plesso di emozioni che chiamiamo amore trapassa con grande facilità in quella che consideriamo opposta, l’odio e anche in altre emozioni negative.
Sembra che nell’infanzia dominino due passioni fondamentali: attrazione e rifiuto. Attrazione verso ciò che l’infante sente come positivo, che gli dà piacere, e rifiuto per ciò che sente come negativo, che gli dà dispiacere. Attrazione e rifiuto soprattutto verso chi si prende cura di lui, soprattutto la madre ovviamente, dal cui corpo protettivo (o che tale dovrebbe essere) il bambino è uscito per costruire faticosamente il suo proprio corpo, anzi per diventare il suo proprio corpo.
Attrazione e rifiuto sono poi la base di tutta la gamma delle passioni dell’adulto, scaglionata fra l’amore e l’odio. Essa si può ridurre alla percezione dell’aumento della propria esistenza – da cui gioia, senso di pienezza – o della sua diminuzione – da cui dolore, senso di deprivazione, di mancanza.
Aumento o diminuzione, quindi attrazione e rifiuto, sono prima di tutto nei confronti dell’altro, il quale può riconoscere o disconoscere chi dipende da lui, come l’infante nei confronti della madre e dell’adulto che si cura di lui. Qui sta il carattere relazionale dell’essere umano, il dato fondamentale, cioè, per cui l’essere umano si forma attraverso gli altri, senza di cui non esisterebbe. A cominciare dalla nascita, ma poi lungo tutta la vita .Nasciamo da un altro dentro cui conviviamo per nove mesi. All’inizio siamo tutt’uno con lui, poi iniziamo a differenziarci in un processo più lungo che per qualsiasi altro essere vivente. Ma quest’origine rimane in noi come una traccia e una sorta di richiamo profondo.
Oggi, coloro che si occupano professionalmente della fase prenatale tendono a sottolinearne l’importanza per il futuro di colui che è nel grembo materno. Mettono in rilievo il primo inizio del complesso rapporto fra l’io e l’altro, anche a livello biologico. Vi sono delle forme di rigetto del feto da parte dell’organismo della madre che anticipano la complessa dinamica conflittuale che c’è sempre nel rapporto fra l’io e l’altro.
“Le relazioni tra la madre e il suo feto proseguono in quelle con il neonato in una continuità psichica e sensoriale” (M.-J. Soubieux, M. Soulé, La psichiatria fetale, 31).
Insomma, la formazione delle basi della vita adulta comincia molto presto. Questa è una delle ragioni principali non solo della diffusione delle difficoltà individuali nei confronti delle problematiche della vita, delle crisi individuali, ma anche di quelle collettive, sociali: l’individuale il collettivo e il sociale, sono evidentemente in relazione molto stretta e i casi dell’individuo rimbalzano su quelli della società e viceversa. Basta guardare la situazione attuale del mondo.
Ho parlato dell’amore. Ma anche l’odio, l’angoscia, la paura, l’invidia sono emozioni fondamentali che risalgono all’infanzia. Una illustre psicoanalista dell’infanzia, già citata, Melanie Klein, sulla base della sua esperienza afferma di essere giunta “alla conclusione che l’invidia sia uno dei fattori che maggiormente mina l’amore e la gratitudine alle loro radici, perché essa colpisce il rapporto più precoce, quello con la madre” (M. K., Invidia e gratitudine, 9). L’invida, la gelosia, l’avidità, secondo la Klein, sono tutte emozioni che si installano nella prima infanzia e già prima della nascita legate al rapporto con la figura materna che è quella che dà all’infante il riconoscimento primario: tu sei, tu esisti, riconoscimento basato su “le ripetute esperienze felici di essere nutrito e amato”; la base su cui poggiare per vivere, per crescere. E’ evidente che se un infante cresce con profondo senso di insicurezza esistenziale avrà una vita difficile e spesso anche violenta. La violenza infatti nasce dalla debolezza, dall’insicurezza, dal bisogno di affermazione. La persona violenta è essenzialmente una persona che ha paura e che pensa che la miglior difesa sia l’attacco.
Questo concetto mi sembra di fondamentale importanza per capire le origini della violenza individuale e sociale. Con grande chiarezza un’altra psichiatra e psicoanalista, Tania de Zulueta (Dal dolore alla violenza, Raffaello Cortina, 2009), mostra “l’importanza delle relazioni interpersonali, in particolare di quelle precoci, nel determinare il modo in cui percepiamo noi stessi e ci comportiamo gli uni con gli altri. Si ritiene dunque che alla radice di alcuni dei nostri comportamenti più violenti vi sia la compromissione del senso di sé o della propria identità sessuale” (8) “Gli effetti della perdita e della deprivazione sono molto importanti nell’insorgenza del comportamento violento: la violenza può quindi essere considerata come il risultato di un fallimento nel fornire adeguato accudimento” (9) “Se si comprende che il bisogno più pressante e prevalente dei bambini di ogni età è di essere amati, si capisce automaticamente tutto il resto: il bambino fa qualunque cosa per ottenere l’approvazione e l’affetto dei genitori, anche se ciò significa sacrificare il proprio senso di chi si è e di che cosa si sente in favore di un Sé falso ama approvato” (177).
Qui c’è la questione della falsa personalità, del falso Sé, come dicono gli psicoanalisti. Falsa rispetto ai desideri profondi della persona ma socialmente approvata, la questione della rimozione dei propri desideri per ottenere l’approvazione sociale o della cerchia in cui si vive. Questo comportamento può avere delle conseguenze enormi nelle società. Può aiutare a comprendere molti comportamenti collettivi, quali il conformismo, il contagio emotivo e ideologico collettivo, la violenza collettiva. “Deprivazione, perdita, abuso possono impoverire il Sé a tale punto che difenderlo diventa di capitale importanza, non importa a quale costo per l’altro” (9).
Insomma, la violenza individuale e collettiva – è evidente che le due sono collegate – ha una matrice infantile. Ciò rimanda all’importanza della famiglia, in cui non c’è solo la madre, c’è anche il padre e ci sono anche altre figure, che possono avere un’importanza fondamentale sul bambino e sulla madre. Ma la famiglia non è isolata, per quanto una famiglia possa rinchiudersi non può minimamente sfuggire alla società e al potere che c’è nella società. E’ evidente inoltre che sono importantissime le prime forme di socializzazione del bambino: l’asilo, la scuola elementare, media.
L’infanzia, dunque, non è qualcosa che passa, che si supera. Al contrario è qualcosa che tutti noi ci portiamo sempre dietro, che soprattutto vive in ogni forte emozione, nei momenti di crisi, di angoscia e nei momenti di gioia inconsueta, di stupore, che sprofonda sotto il livello cosciente ad opera delle dinamiche spesso avvilenti e frustranti della vita di tutti i giorni, divenuta sequenze di abitudini.
Dobbiamo, noi adulti, recuperare il rapporto personale con l’infanzia che è in noi, accogliere queste emozioni profonde. Questo è anche l’unico modo per non farsene prendere negativamente, nei momenti di crisi acuta, individuale: ”tramite il trauma amore e odio tornano nuovamente a essere parenti stretti”, de Z., 402)
(il femminicidio… si nega l’offesa distruggendo chi si ritiene abbia offeso)
e di crisi collettiva (momenti della massa…). Sono i momenti in cui, per varie ragioni: una crisi di coppia o una crisi sociale, una guerra, emozioni potenti irriconoscibili irrompono dentro gli individui e travolgono i modelli di comportamento sociale e portano a forme anche estreme di violenza. Caso della crisi dell’Jugoslavia.
Un elemento che caratterizza in modo assoluto l’infanzia è la sua vulnerabilità: l’infante, il neonato è l’inerme per eccellenza e quindi massimamente vulnerabile. Questo dato viene, poi, rinnegato, nella vita adulta, soprattutto da parte dell’uomo, del maschio, la cui costruzione è tutta basata sulla forza, anche sulla violenza, sul potere, alla forza e alla violenza necessariamente legato. E qui c’è la grande questione della differenza fra l’uomo e la donna e del predominio che l’uomo ha esercitato e continua a esercitare, sostanzialmente, ancora oggi su di lei. Il cosiddetto Occidente (USA ed Europa) è certo meno di un tempo una società ancora patriarcale, ma è ancora una società dominata dall’uomo, dal maschio, anche quando le donne, sempre poche, possono affermarsi, acquisendo però in genere comportamenti maschili.
Bisognerebbe invece considerare un altro aspetto della inermità – essere inerme vuol dire essere senz’armi -, della vulnerabilità – vulnerabile vuol dire che può essere ferito. L’essere vulnerabile, l’essere inerme è legato al fatto che siamo sempre dipendenti dagli altri. Nessuno è veramente autonomo – autonomo vuol dire che è legge a se stesso – a cominciare dal fatto che è profondamente condizionato dal nascere appunto da un altro essere umano.
Ma essere dipendenti vuol dire che siamo fondamentalmente esseri-di-relazione, che non siamo individui separati, che esistiamo solo come un dialogo costante con gli altri (ma anche con la natura: basta pensare al nostro corpo che respira l’aria, beve l’acqua, si nutre, che è abitato da miliardi di microrganismi senza di cui non potrebbe continuare a vivere).
Tutto quello che ho detto del rapporto dell’infante con la madre e con le persone accudenti dimostra che ogni essere umano è un centro di relazione: non è l’individuo che entra in relazione, ma è la relazione che forma l’individuo. Ascoltando, osservando, studiando l’infanzia questo viene fuori con assoluta evidenza. Noi siamo un dialogo ininterrotto con gli altri e con la natura.
Scrive una grande filosofa americana, Judith Butler“:… non vi è un Sé senza le sue relazioni. Se il sé cerca di difendersi da questa stessa intuizione, allora nega la modalità in cui esso è, per definizione, legato agli altri. E tramite questa negazione, quel sé viene messo a repentaglio, poiché vive in un mondo in cui le sole opzioni sono distruggere o essere distrutti” (J. B., Strade che divergono, 130).
Il mondo in cui viviamo sembra proprio un mondo in cui le opzioni sono distruggere o essere distrutti. Pensiamo a una situazione vicina a noi, già citata, alla distruzione della Jugoslavia con la formazione di diversi Stati che sono nati da una feroce e reciproca epurazione etnica all’insegna del principio d’identità. O all’identitarismo pseudo religioso di formazioni come l’ISIS, che al di là dell’ambigua complessità delle sue origini, legate a interessi occidentali, fanno leva sul bisogno d’identità di popolazioni esasperate. Ma anche a fenomeni europei e ai più modesti fenomeni nostrani.
Ricordiamo l’importanza della lingua nei conflitti identitari, anche questo rimanda all’infanzia – infante vuol dire che non parla ancora -, quando si forma la capacità linguistica: “La lingua madre e del gruppo di appartenenza determina non solo il modo in cui si sperimenta il mondo esterno, ma anche il modo in cui sperimentiamo noi stessi” (de Z., 185).
Per fare un esempio concreto e terribile, ricordo che Croati e Serbi parlano la stessa lingua, il serbo-croato, con modeste varianti (a parte l’alfabeto), ma la contrapposizione con i serbi portò i croati a cercare di differenziare maggiormente la lingua in uso in Croazia. Lo straniero, il nemico quando non c’è lo si inventa. E’ sempre stato così. Gli eretici, le streghe, gli ebrei, i comunisti, gli zingari, gli extracomunitari….
“Negare l’impatto del trauma sulla vita umana significa negare ancora una volta che siamo importanti l’uno per l’altro: è un modo di dissociare noi stessi dal dolore e dalle sue manifestazioni violente” (id., 219). I traumi fondamentali, quei traumi che generano l’odio e la violenza, sono traumi che risalgono all’infanzia. E dipendono dalla mancanza d’amore. Questo è un nodo fondamentale che potrebbe essere sciolto solo collettivamente….. . Non sarà facile…
Le grandi catastrofi storiche, le guerre, i genocidi, sono intimamente legate a quanto di più ‘intimo’ vi sia: la cura materna, ma non solo, più ampiamente la cura dell’infanzia, degli adolescenti, che non può che essere una cura collettiva, sociale.
Dicevo in apertura che la cura della propria infanzia deve durare tutta la vita. Questa cura non può riguardare solo se stessi. Al contrario, se veramente agisce, è anche la base per la cura degli altri.