Mar 2008 “Uomini parliamo d’aborto senza suicidarci”
di Stefano Ciccone, Claudio Vedovati, Alberto Leiss
pubblicato su Liberazione 11/04/2008, pgg 12-13
Lo scacco del non avere un corpo di donna può essere un punto di partenza. Se conduce alla percezione della parzialità maschile. Altrimenti, se significa solo impotenza e desiderio di sopraffazione dell’altra, diventa suicida. Il nodo profondo della paternità è in scena. Incarnato da Ferrara, interrogato dagli uomini (da Adriano Sofri a Maschileplurale) che dicono: Giuliano così non va!
La campagna di Giuliano Ferrara per la “moratoria” sull’aborto un merito lo ha avuto.
Ha funzionato come cartina di tornasole per la lettura degli umori maschili profondi in questo momento della nostra storia facendo emergere un forte risentimento, misto a paura, verso la libertà femminile in tanti maschi che hanno aderito entusiasticamente all’iniziativa del direttore del Foglio.
E’ significativa, tra molte, l’adesione di Claudio Risè, uno dei punti di riferimento di quel “movimento” maschile che sceglie di misurarsi con il mutamento radicale creato dalla rivoluzione femminile del nostro tempo, cercando una risposta al conseguente spaesamento maschile nel recupero di tradizionali valori della “virilità”.
Un atteggiamento ben riassunto da una pubblicistica sempre più corposa sulla crisi del maschile, vedi per esempio il fortunato libretto del francese Eric Zemmour (L’uomo maschio, edizioni Piemme) che si scaglia contro una società a suo dire sempre più “femminilizzata”. Ma l’immagine riduttiva e banalizzante degli uomini in crisi, che vede il cambiamento dei rapporti tra i sessi come una minaccia per gli uomini, viene avanzata a volte anche da parte femminile . Quasi si preferisse, in fondo, il confronto tranquillizzante con un maschile a tutto tondo che confermi i propri stereotipi.
Ultimo esempio in ordine di tempo, la recente puntata delle Invasioni barbariche dedicata al maschile, dove una giornalista invitata, pur invocando una parola diversa da parte degli uomini, finiva con lo schiacciare sul cliché dei maschi depressi qualunque tentativo maschile di uscire dalla rivendicazione muscolare del proprio primato.
L’attenzione polemica verso le iniziative revanchiste ha rischiato così di mettere in ombra la “presa di parola” di uomini che, con un linguaggio pubblico oggi più consapevole della propria parzialità, si sono misurati con la questione dell’aborto, della legge, della riproduzione e, in misura forse meno evidente, della sessualità maschile distinguendosi dalle argomentazioni del direttore de Il Foglio .
Pensiamo alla presa di posizione di numerosi sindacalisti della Cgil di Milano ricca e interessante (il testo si trova anche sui siti www.donnealtri.it e www.maschileplurale.it), che criticando con forza la posizione di Ferrara, cerca di stare sulla contraddizione tra la necessità di prendere parola e la consapevolezza dell’uso della parola pubblica maschile come strumento di potere, come costruzione di schieramenti tra uomini sul corpo delle donne.
C’è stato anche chi – come Claudio Magris – ha preso le distanze dalla decisione di Ferrara di presentare una lista alle elezioni, riproponendo però le tesi contro l’aborto sostenute a suo tempo da Bobbio e che fanno riferimento esclusivamente alla cultura astratta dei diritti e della politica come contemperamento tra interessi che, specie su conflitti interiori e interpersonali complessi come quelli che si scatenano sull’aborto, mostra tutta la sua inadeguatezza.
L’idea che i grandi dilemmi della vita e della morte possano trovare soluzioni definitive di tipo giuridico spinse, già alla fine degli anni Ottanta, ad un’analoga presa di posizione di Giuliano Amato che, proprio facendo riferimento a quei diritti nella loro astrattezza, portava a contrapporre tra di loro il diritto del nascituro a nascere e a farlo in una famiglia “normale”, il diritto a essere padre, il diritto a decidere cosa avverrà nel/del proprio corpo da parte della donna, mettendo in discussione la legge 194. In questo conflitto si evoca il desiderio di paternità per trasformarlo in rivendicazione del diritto alla paternità nel conflitto tra i sessi. Si ricorre così alla legge per tutelare questo diritto in conflitto con altri.
Una strategia di cui le esperienze di riflessione critica maschili hanno tentato di evidenziare non solo la pulsione oppressiva ma l’assenza di futuro. Non si può essere padri per legge. Non possiamo usare la legge come un prolungamento, una sorta di protesi del nostro corpo che finisce per atrofizzarne le potenzialità.
Essere figli ed essere padri è soprattutto un riconoscimento reciproco. Per essere riconosciuti dobbiamo anche essere in grado di mettere in gioco i nostri corpi, per costruire una relazione. Il corpo che i nostri padri spesso non hanno saputo mettere in gioco.
Questo approccio ha avuto un suo sviluppo nella associazione “Maschileplurale” che ha portato al testo “Uomini, sessualità, paternità, aborto” (anch’esso reperibile nei due siti citati) in cui lo sforzo è quello di dire qualcosa su ciò che viene prima dell’aborto, cioè sulla sessualità maschile, e sul fatto che prendere la parola da parte di un uomo sul tema della riproduzione, dovrebbe partire prima di tutto da un desiderio – se esiste – di paternità. Il nodo è la paternità, appunto non come diritto ma come luogo di relazione. Anzi, la “paternità” come origine simbolica delle modalità maschili di produrre il mondo. Alcuni di noi hanno scritto molti anni fa che la “prima e l’ultima parola” spetta alle donne, ma che in mezzo c’è una relazione e che questa relazione può anche essere un conflitto tra desideri diversi. Ora ci sembra di poter aggiungere che vogliamo, come uomini, dare valore alla parzialità del nostro stare al mondo e dunque anche di ricrearlo intorno a noi.
Ma se questa critica ad un approccio basato sul criterio astratto del diritto ha un suo fondamento, e se emerge la necessità di una parola maschile che si misuri con la dimensione rimossa della sessualità e delle relazioni, allora anche una risposta basata su principi condivisibili ma astratti come la laicità dello stato o diritti di individui neutri, senza corpo, mostra i suoi limiti.
Sgombrare il campo dall’invadenza della norma su questo ambito (anche riprendendo l’idea antica del femminismo italiano sull’ipotesi di depenalizzazione dell’aborto), può aprire uno spazio in cui anche il conflitto tra donne e uomini possa esprimersi in forme non distruttive.
Ci interessa stare come uomini in questa tensione, ascoltando desideri e bisogni di altri uomini che oggi trovano risposta in reazioni revanchiste o subiscono la seduzione di prospettive identitarie, di ritorno a un ordine perduto.
Ascoltare la lezione di Antigone, e la osservazione del femminismo contemporaneo secondo la quale non tutto è regolabile in termini di diritto non potrebbe rendere più libera una discussione sincera tra uomini e donne sulla vita, sulla sessualità e sulla riproduzione?
La riflessione e le prese di posizioni maschili si presentano dunque oggi molto più articolate. Ne è un esempio non solo il pamphlet molto argomentato di Adriano Sofri (Contro Giuliano. Noi uomini, le donne e l’aborto, Sellerio) – diremmo un nuovo tipo di discorso “da uomo a uomo” – ma anche le posizioni oneste e laiche di uomini come Massimo Cacciari e Umberto Veronesi, di Gustavo Zagrebelsky e di Adriano Prosperi, per citarne solo alcuni.
E’ difficile prevedere l’esito di questa discussione pubblica – alla quale i maschi della politica italiana hanno invece partecipato poco e con espressioni poco significative – per quanto riguarda il riverbero sull’applicazione della legge 194. L’attenzione mediatica su casi come l’intervento della polizia per un sospetto aborto illegale in un ospedale napoletano (Sofri ne ha scritto magistralmente), o sul suicidio a Genova di un ginecologo che praticava aborti fuori dai termini di legge, hanno prodotto una forte indignazione in una larga opinione pubblica. Cresce anche una critica sempre più vasta alle resistenze verso la pillola del giorno dopo, le obiezioni di coscienza ipocrite, l’invasione politica di campi (per esempio l’utilizzo della Ru 486) che spettano ai protocolli medici. L’ostilità alla pillola abortiva, oltre il confronto tecnico di merito, veicola significativamente due immagini femminili (donne irresponsabili che così abortirebbero “con più leggerezza” o donne deboli abbandonate alla solitudine dell’aborto) che corrispondono a una negazione delle donne come soggetti titolati di autonomia e autorità etica.
Tornando alle posizioni di Ferrara, quello che ci ha colpito di più è quella che ci sembra la disperazione nelle sue parole. Disperazione che forse spiega le sue contraddizioni, che ci paiono – come a Sofri – così grossolane: una moratoria sull’aborto ma non “contro le donne” (perché l’aborto “è maschio” ed è un omicidio di cui sarebbero colpevoli gli uomini). Salvo poi rivendicare contro la madre il diritto alla “vita” dell’embrione; l’accostamento tra l’aborto e il femminicidio praticato dagli stati, così come quello tra l’aborto e la pena di morte; l’inseguimento del caso di cronaca e l’appello a principi e valori universali.
Forse non vale la pena di inseguire le singole argomentazioni, che possono essere lette come varianti della lunga storia con cui gli uomini hanno cercato di espropriare le donne del proprio corpo, facendone uno “spazio pubblico”, bene di interesse pubblico su cui “la società” deve legiferare nel nome di un supposto interesse superiore, neutro e trascendente. Anche lo stesso Sofri ad un certo punto si lascia sfuggire, a proposito del corpo della donna, l’espressione “sovranità territoriale”.
Ancora una volta, un’antica pulsione maschile a sottoporre a controllo il corpo e la volontà della donna interviene su questioni riguardanti la riproduzione inseguendo un protagonismo maschile che può realizzarsi esclusivamente per via normativa.
Noi proviamo a dire, da uomini, che il rapporto con il corpo di ognuno e ognuna di noi non può essere regolato dal diritto.
Diciamo che anche la paternità non può essere rivendicata per legge, ma richiede un desiderio ed una capacità maschile di relazione.
Se parliamo di “disperazione” non è per gettare discredito e svalorizzare le intenzioni di Ferrara, per ridurle a “sentimento” come se esse fossero solo frutto di un’inadeguatezza personale. Pensiamo si debba dare valore al sentire e fare del sentire il luogo di un’interrogazione politica. Di più: pensiamo che quel sentire sia oggi diffuso e con esso si debba fare i conti, perché è al fondamento sia della discriminazione di genere che di quella che da tempo ci sembra la radice maschile della crisi della politica.
Da una parte la paura maschile delle donne, e dunque la difficoltà di fare i conti con lo spiazzamento prodotto dall’emergere della soggettività femminile sulla scena pubblica, anzi il suo mettere in discussione il fondamento della polis, l’articolazione tra pubblico ed il privato, e contemporaneamente l’antica ossessione della potenza simbolica del femminile, il suo poter “mettere al mondo”, ovvero la proiezione sulle donne dell’immagine di una autarchia femminile che nella realtà non esiste, che è il rovescio della facilità con cui il maschile pensa di poter essere fatto fuori.
Dall’altra parte emerge un senso d’impotenza e di miseria maschile, che ci sembra il nodo più “politico” che Ferrara porta in scena. Quell’impotenza e miseria che giudichiamo produttrici di violenza, di astrazione, di rapporti oggettuali con le cose ed il mondo.
Queste due cose insieme alimentano a loro volta un inutile e pericoloso risentimento maschile, che chiude il cerchio e ci impedisce di trovare una strada per stare in relazione con la differenza femminile, il nascere di ciascuno di noi da corpo di donna.
Un risentimento che conduce alla concezione, più o meno consapevole, secondo cui la libertà dell’uomo cresce in proporzione a quanto la libertà della donna viene limitata, negata, ostacolata.
Il vero pericolo delle posizioni di Giuliano Ferrara, oltre a dare uno spazio politico al sottobosco del risentimento di un sesso contro l’altro, è quello di trasformare una domanda di senso maschile, che può essere un punto di partenza per guadagnare il riconoscimento della propria parzialità, in un suicidio di sé. Una impotenza che si autoalimenta tanto più invoca il diritto, la legge, Dio e i “valori”.
Proprio perché si tratta di sentimenti, il rischio è che il sentire si assolutizzi, non sia capace di trovare altre strade per sé. Alle nostre domande di uomini proprio su come stare in relazione con lo scacco del non generare, di non avere un corpo di donna, l’armamentario ideologico della “crociata” per la “moratoria” non offre vie di uscita. Solo conferme negative. Questo vicolo cieco è il vicolo cieco di tutta la politica.
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