Nov 2008 “Perché gli omicidi in famiglia sono sempre “inspiegabili” ?
di Lea Melandri
Pubblicato su Liberazione, 25 novembre 2008, p.1 e 19
Il rapporto tra gli uomini e le donne, il perverso tragico annodamento di dominio e amore, deve essere davvero la “roccia basilare” contro cui si arrestano ragione, cultura, responsabilità civile e morale, se, riguardo alla strage avvenuta in una famiglia di Verona alcuni giorni fa, né la televisione né i giornali sono andati oltre la nuda cronaca dei fatti, se a nessuno è venuto in mente di chiedersi la cosa più banale e più sensata: perché la decisione di una donna di separarsi riesce a scatenare la furia omicida-suicida dell’uomo che con lei ha vissuto e visto crescere figli?
Non è la prima volta che accade, la maggior parte dei casi di violenza maschile all’interno della coppia, negli ultimi anni, è motivata dalla scelta della donna di interrompere una convivenza divenuta evidentemente insopportabile, da una affermazione di libertà dovuta al rispetto di se stessa, o al semplice desiderio di dare una svolta alla propria vita. L’aggettivo “inspiegabile”, che la cronaca usa ormai ritualmente per questi delitti, è la maschera di una ipocrisia, o comunque di una incuria, generalizzate, che non accennano a incrinarsi: “inspiegabile” vuol dire, in questo caso, qualcosa su cui non si vuole riflettere e fare chiarezza, una evidenza -il volto violento dell’amore- che deve restare invisibile.
Non ci vogliono conoscenze particolari della vita di relazione e della vita psichica di un individuo, per sapere che la “normalità” di una coppia, di una famiglia, così come viene ripetuta fino alla nausea nelle testimonianze del vicinato, significa essenzialmente che nessuno sa più cosa succede oltre le pareti della propria casa, del suo cortile, e se lo sa, tace per quieto vivere o perché all’invadenza della comunità chiusa paesana non abbiamo saputo finora sostituire nessuna altra forma, libera e solidale, di socialità. Non serve neppure una preparazione psicanalitica, per capire quanto sia legata l’idea proprietaria su cui si è retta storicamente la famiglia – la dipendenza psicologica, giuridica, morale, affettiva, che essa struttura, tra marito e moglie, madre e figli-, con le pulsioni aggressive che vi crescono dentro inevitabilmente, e che in taluni casi provocano gli effetti nefasti che conosciamo. C’è una responsabilità, si potrebbe dire una colpevolezza, più odiosa di quella dell’uomo che uccide uccidendosi a sua volta o passando il resto della sua vita in carcere: è quella di una società -di maschi prima di tutto, ma anche di donne- che non pronuncia una parola, non muove un passo, non fa il minimo gesto perché questa infamia che si protrae da secoli sia almeno portata allo scoperto, analizzata per la centralità che ha nella vita di tutti, per il peso che ancora sostiene nel dare alla sfera pubblica la sua apparente autonomia, il suo arrogante disinteresse per quel retroterra dove, in nome dell’amore, si consumano una quantità enorme di lavoro e di energie femminili.
Il 25 novembre, come tutti gli anni, ci saranno le rituali celebrazioni della giornata internazionale di condanna della violenza contro le donne. Le massime autorità dello Stato, i partiti, le amministrazioni locali, le associazioni più varie si affacceranno agli schermi televisivi, nazionali e regionali, per recitare il ritornello stantio della compassione e della solidarietà di giornata, cioè dell’indifferenza di sempre. Allo slogan, che è comparso su alcuni manifesti – della serie “non lasciamole sole”-, verrebbe da rispondere “meglio sole che mal accompagnate”, soprattutto se la compagnia è quella che discute accanitamente per un mese su chi debba essere il presidente della commissione di Vigilanza sulla Rai, e non si cura minimamente dell’influenza che ha la televisione nel confermare o contrastare modelli di inciviltà, pregiudizi, figure della violenza in ogni suo aspetto. Il 22 novembre, a Roma c’è stata una manifestazione di gruppi, associazioni, collettivi femministi e lesbici, preparata da incontri, assemblee nazionali da un anno a questa parte. Pur con la presenza di donne di età e storia diverse, è stata, come già lo scorso anno negli stessi giorni, l’uscita pubblica di una nuova generazione, consapevole che il privilegio maschile nella società comincia nelle case, che il potere dell’uomo sulla donna passa, prima di tutto, da quell’appropriazione del corpo delle donne -sessualità, capacità generativa e lavorativa- che ancora oggi ha nella famiglia il suo fondamento “naturale”, nella “norma eterosessuale” la sua copertura ideologica.
Nonostante che gli omicidi quotidiani -di donne, prevalentemente, ma non solo- abbiano tolto da tempo alla famiglia la sua immagine tradizionale di ‘luogo sacro’, focolare dell’amore, culla di teneri affetti, riposo del guerriero, nonostante che la diffusa pedofilia si annidi proprio nelle stanze che si vorrebbero destinate ad altra intimità, la famiglia resta il grande rimosso dell’insicurezza sociale, delle paure reali o ingigantite ad arte, la zona di passioni “inspiegabili” per una cultura di massa che, per un altro verso, pretende di portare tutto allo scoperto, e che oggi penetra più o meno cinicamente, per ragioni scientifiche commerciali, politiche, moraliste o religiose, fin nelle pieghe più insondabili della nascita, della morte, della maternità, della malattia. E’ facile fare una battaglia perché si limiti il porto d’armi, perché cessi la campagna sicuritaria da parte di politici interessati a raccogliere consensi giocando sull’emotività della gente più indifesa. Più difficile è guardare senza orrore e senza arretramenti quel coltello che compare sulle cucine, sulle tavole, e che somministra cibo e morte, arma a doppio taglio proprio come il legame che stringe amore e odio intorno alla coppia, alle parentele, alle convivenze.
All’interno delle case, in nuclei famigliari sempre più ristretti, si gioca ancora la partita del potere, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza più resistente a ogni cambiamento, per la radice antica e per la complessità, contraddittorietà, delle esperienze che vi sono implicate. Ma c’è, e non da ora, una storia e una cultura politica di donne che ha osato portare lo sguardo oltre i confini della polis, scoperchiare mascheramenti ideologici secolari, riformulare da quell’ ‘altrove’, cellula prima di ogni forma di dominio, l’idea stessa di politica. Se, nonostante il pervicace silenzio di cui è fatta oggetto, torna da più di un secolo a riempire piazze e strade, si può ancora far finta di non vederla ma non sapere che esiste.
Commenti recenti