Il numero di Robinson (inserto del quotidiano Repubblica) del 12 agosto ci parlava del piacere e del desiderio: un piacere spiegato bene dalle donne e capito male dagli uomini.
di Stefano Ciccone
Le ultime giornate ci hanno rimesso di fronte alla violenza maschile contro le donne. Lo stupro di gruppo a Palermo, e Caivano, e le terribili uccisioni di donne da parte di uomini che non accettavano la separazione. La violenza nelle relazioni tra i sessi è uno stillicidio quotidiano: ogni tre giorni una donna viene uccisa da un uomo, ma minacce, aggressioni, molestie, ricatti sul lavoro, umiliazioni che non vanno necessariamente sui giornali segnano la nostra realtà, solo a volerla vedere. Una realtà che non può far a meno di interrogare ogni uomo. Cosa c’è di quella violenza che mi chiama in causa? E che nesso c’è tra questo rapporto asimmetrico col desiderio e la violenza tra i sessi?
È facile la tentazione di liquidare come mostri, criminali, matti, gli autori di gesti terribili. Ma l’indignazione dura il breve spazio dell’attenzione mediatica e, soprattutto, allontana da noi il problema, riducendolo a una patologia estranea alla nostra realtà da delegare alle forze dell’ordine la sua repressione e, soddisfatti, tornare alla propria normalità.
Invece di rassicurarci, dicendo a noi stessi che non ci riguarda, dovremmo guardare negli occhi quell’orrore e chiederci cosa dica di noi. Domandarci cosa debba cambiare in quella nostra normalità per sradicare quella violenza. Pubblicare le foto degli autori può rispondere al desiderio di gogna ma anche essere l’occasione per guardarli in faccia, scoprirli simili a mille altri nostri figli, fratelli…
Anche correndo il rischio del voyeurismo che indugia sull’orrore, che consuma sui social i particolari della violenza. La lettura delle chat tra gli autori dello stupro di Palermo, rivela una realtà che ci sembra assurda ma che sappiamo resistere sommersa nel nostro immaginario condiviso. Anche se può sembrare blasfemo mettere a confronto un “classico” della nostra cultura, l’Ars amandi di Ovidio e la chat del gruppo dello stupro di Palermo può essere rivelatore di questa sotterranea contiguità:
“[Ella] non vuol altro che resistendo, essere vinta insieme. […] Tu la chiami violenza? Ma se è questo che vuol la donna! Ciò che piace a loro è dar per forza ciò che vogliono dare. Colei che assali in impeto d’amore, chiunque ella sia, ne gode, e la violenza è per lei come un dono; [poiché] il pudore vieta alla fanciulla di agir per prima. Può darsi si rifiuti, e allora i baci prendili a forza. Se reagirà, se per la prima volta ti dirà che sei sfacciato, credi, non vuol altro che resistendo, essere vinta insieme”.
“Falla ubriacare che poi ci pensiamo noi […] lei era tutta ubriaca. L’amica sua la lasciata sola, voleva farsi tutti. Alla fine gli abbiamo fatto passare il capriccio. Non voleva, faceva ‘no basta!’ ma quello che la struppiò di più [rispondeva] ‘amunì ca ti piaci’e ‘aripigghiati che mi si sta ammosciando’. I pugni che le davano e pure gli schiaffi, ti giuro è vero quella p*ttana, ce la siamo fatta tutti, eravamo tanti, una sassolata.”
Se la fanciulla non è disciplinata e pudica merita una punizione, ma la violenza, in fondo è ciò che le donne vogliono. E la violenza svela il gioco delle parti, rivela la natura bestiale del desiderio maschile ma anche la “complicità” femminile.
Il fascicolo di Robinson proponeva un bell’intervento di Francesco Piccolo che si interrogava sullo sguardo maschile: a un semaforo una ragazza con un vestito quasi trasparente è oggetto di tre sguardi maschili che si esprimono in modo diverso ma di cui Francesco Piccolo sente la sotterranea connessione. Due uomini si cambiano uno sguardo complice, un terzo le suona il clacson…e poi Piccolo, che si scopre a guardarla e teme che quello sguardo lo leghi in una rete corriva con quel maschile. Una storica foto di Ruth Orkin, negli anni ’50 a Palermo, ritrae una giovane turista costretta ad attraversare la rete di sguardi complici, sorrisetti, battute di uomini che occupano lo spazio pubblico e le negano libertà e cittadinanza.
Piccolo conclude pensando che si dovrebbe “separare il piacere e il desiderio”. Ma quel fischiare dietro a una donna per strada, aggredirla con una battuta volgare e poi riderne con gli amici, quanto ha che fare col “desiderio” verso quella donna? Chi le fischia dietro, suona il clacson, urla la battuta volgare cerca di sollecitare forse il suo interesse o la sua disponibilità? E così il bacio sulla bocca imposto dal presidente della federazione spagnola del calcio femminile alla giocatrice durante la cerimonia per la premiazione per la vittoria ai mondiali era solo esplosione di gioia? Sessualizzava il corpo di quella giocatrice, ma era espressione di un desiderio sessuale? Chi può pensare che lo stupro di gruppo abbia a che fare con la possibilità di accedere a un piacere sollecitato da un desiderio in una società in cui l’incontro sessuale è sdoganato e accessibile?
E il riprendere quello stupro? E commentarlo in chat? La donna scompare e resta la complicità tra maschi, l’esercizio del potere, il gregarismo.
Piccolo conclude, scoraggiato, che forse la soluzione verrà solo con la nostra morte. Cioè con la scomparsa delle generazioni attuali di uomini e con la morte di un modo maschile di desiderare, di stare al mondo, di guardare le donne. Troppo pervasiva l’incorporazione di un simbolico e un immaginario di dominio e violenza per poter depurare le nostre pulsioni, i nostri sguardi. Ma questa soluzione così drastica, così disperata, rischia, a pensarci bene, di risultare deresponsabilizzante e illusoria. E i ragazzi, giovanissimi, di Palermo e Caivano ci dicono che la speranza di una “evoluzione civile e socialmente accettabile” del desiderio e del piacere maschile, non avviene senza una rottura, un conflitto trasformativo che è nelle mani di tutti e tutte noi, qui e adesso.
L’unica cosa che possiamo fare è morire? E l’unica alternativa è distogliere lo sguardo, rimuovere un desiderio connaturato a una maschilità che ci risulta odiosa ma che poi ci sorprende complici quando incrociamo lo sguardo di un altro uomo? Questo mi è rivenuto in mente rileggendo le chat tra i giovani uomini che hanno stuprano in gruppo la ragazza a Palermo, quando uno scrive… “mi ha fatto un po’ schifo, ma la carne è carne”. Insomma la “natura” del desiderio maschile, che nella riflessione di Piccolo appare come una condanna inevitabile, (possiamo solo morire per uscirne) qui diventa, senza scarti significativi, una giustificazione assolutoria.
Se la sessualità maschile, se il desiderio maschile sono per loro natura ferini, oppressivi e annichilenti cosa fare? Coprire i corpi delle donne, preservarli con un burqa dallo sguardo maschile e riservarli per l’uomo che legittimamente ha accesso a quel corpo? Affidarsi alla tradizionale capacità virile di autocontrollo, perduta con l’evaporazione della norma paterna che disciplinava corpi e desideri? “Civilizzare” le pulsioni maschili? Prospettive apparentemente lontanissime ma fondate su una comune “antropologia negativa” di un maschile scisso tra pulsione bestiale e dominio razionale del corpo.
Ma il desiderio è un dato naturale? È l’espressione di un nucleo originario e “autentico”, o è socialmente costruito, continuamente colonizzato da un immaginario dominante, conformista e, come ci ha raccontato Piccolo, mimetico? Riconoscere la dimensione opaca del desiderio, non farne un dato “originario” apre un terreno culturale, politico e personale di trasformazione che interroga tutti. Interroga anche la tentazione delle tante soggettività che non corrispondono alla norma eterosessuale di fare del proprio desiderio la garanzia della propria estraneità a un immaginario e un simbolico di dominio.
Ma questa relazione che abbiamo col desiderio non è come ha osservato Osvaldo Pieroni, il segno di un’esperienza alienata del maschile col proprio corpo, o meglio con il simbolico fallico che si sovrappone al corpo? Se il proprio sesso è arma, strumento di dominio, misura di potenza, come metterlo in gioco in una relazione se non imponendolo o limitandolo?
Imporre il sesso presuppone la rimozione del desiderio dell’altra o meglio, come osservava molti anni fa Carmine Ventimiglia, concepire la relazione con la differenza solo nella logica della complementarietà e nella naturalizzazione del dominio.
Nelle chat ritroviamo il sesso come punizione e lo stupro come violenza, umiliazione ma, al tempo stesso come cosa che la donna desidera. L’immaginario pornografico, citato nelle chat, e ripreso nell’intervento di Felicia Kingsley su Robinson, è quello di un sesso che è una violenza, ma una violenza che è anche condizione del godimento femminile, una sottomissione: “l’ho castigata ma è quello che voleva”, si è tolta il “capriccio”. Non c’è un desiderio e un piacere femminile autonomo: la donna gode della sottomissione, è nella naturale complementarietà dei sessi.
Nello stupro c’è anche una vendetta, una rivincita. Una rivincita verso la “doppiezza femminile” che, come recita (ancora!) una canzone di questa estate “dici sempre no ma vuoi dire sì”. Rivincita per quel potere femminile di sollecitare il nostro desiderio, incrinando la nostra presunzione di autosufficienza e di potere. Rivincita per la frustrazione di un desiderio che si sente relegato nella dimensione della bassezza. Rivincita verso il potere della seduzione femminile: le donne usano opportunisticamente il tuo desiderio per farti fare quello che vogliono, ti manipolano. Ti fanno perdere il controllo di te, anche quando il loro stesso corpo ha l’effetto di sollecitare il nostro desiderio senza che loro ci vedano. L’esercizio di dominio che porta con sé la rimozione sociale del desiderio femminile (o madri oblative, o sante o puttane) produce paradossalmente un’esperienza maschile di miseria: se solo io desidero, il denaro, la violenza o il potere che uso per accedere al corpo femminile diventano il segno della mia dipendenza e dell’uso che le donne fanno di essa. Come ricorda Lea Melandri il patriarcato offre alle donne un potere illusorio che le invischia nella loro soggezione: l’illusorio potere dell’indispensabilità della madre o il potere della seduzione del corpo erotizzato. Esistere per l’altro, per il suo bisogno, per il suo sguardo e il suo desiderio che mi conferma nel mio stare al mondo. Una bella canzone di De Andrè recita “Ma senza che gli altri non ne sappiano niente, dimmi senza un programma dimmi come ci si sente? continuerai ad ammirarti tanto da volerti portare al dito …continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?”
Barbie, quando esce dal suo mondo rosa, scopre che la sua bellezza è assoggettamento allo sguardo maschile, l’illusione di una centralità diventa consapevolezza di un’accessorietà: il desiderio maschile costruisce lo spazio sociale che le donne attraversano sempre esposte in una condizione di soggezione. Se le serate “tra donne” nel mondo di Barbie assomigliavano a innocenti pigiama party, le serate “tra uomini”, frutto della rivincita di Ken, vedono le donne presenti, ma a servizio del desiderio e del piacere maschili.
La ragazza che per strada sollecita il desiderio degli uomini, conosce i codici della seduzione, della bellezza e dell’immaginario di genere. Si veste, non per comunicare a me e a tutti gli uomini in strada la sua disponibilità sessuale, e nemmeno prescindendo totalmente dalle forme delle relazioni tra i sessi (“mi vesto così perché piace a me”). Forse le piace sentirsi bella secondo i canoni della nostra società, forse vuole piacere a un ragazzo o a una ragazza che sta per incontrare.
Ma ci lascia lì, per strada col nostro desiderio basso, volgare (mi viene in mente l’immagine del bel film “pane e cioccolata” in cui Nino Manfredi, immigrato in svizzera, guarda sporco e trasognato, dalla gabbia di un pollaio, giovani ragazze svizzere che eteree, ballano nude su un prato perfettamente curato). Questa condanna, questa asimmetria può trovare una rivincita solo attribuendo a lei una posizione complementare. “Ti piace provocare gli uomini”, “se ti sei vestita così e sai l’effetto che fai”. E una punizione: “vuoi esercitare un potere su di me, quindi meriti la punizione”.
Il corpo maschile deve essere sporco, basso, potente, e essere imposto a una donna ancora angelicata. Una rappresentazione che accomuna i ragazzi che “non sporcano una bella amicizia non mettendo in gioco il proprio desiderio” e i cattivi ragazzi che “svelano il gioco delle parti” imponendo quel corpo. Sembra, insomma, che la sessualità debba essere senza relazione, che il nostro desiderio non possa concepire il desiderio (differente e autonomo) dell’altra.
Sembra che sia vissuta come insopportabile l’idea che quella donna “viva per se stessa”, non sia lì per noi. E le violenze, fino alla morte, puniscono le donne che scelgono di andarsene, di non considerare più “normale” una relazione che ne nega la libertà e la soggettività. Non è il mero abbandono, per il quale soffriamo tutti e tutte, che genera la violenza, ma il fatto che quella scelta aggredisce alle fondamenta la nostra idea di maschi: svela la dipendenza che avevamo nascosto nella complementarietà dei ruoli, fa crollare la presunzione di bastare a sé stessi, di essere padroni di sé. Anche in quel caso l’unica lettura possibile della scelta della donna è attribuirla a un egoismo e un opportunismo, una presunzione per noi umiliante da punire, da lavare col sangue. “Andrò pure in galera ma io non posso perdere la faccia e tu non puoi farla franca”.
Inutile dire che la risposta repressiva è illusoria e ipocrita: “se ne occupi la polizia: li mettano in galera e buttino la chiave”, noi non abbiamo nulla da fare o da dire, nulla da domandarci sulle nostre relazioni e il nostro immaginario.
Ma rischia di essere anche un luogo comune dire che serve “un cambiamento culturale”, se resta un’accezione astratta. Anche la centralità della scuola è una verità ambigua: “se ne occupi la scuola” di quel cambiamento che non sappiamo produrre noi nel nostro linguaggio, nella nostra quotidianità. Il cambiamento culturale non è un processo linearmente evolutivo a cui affidarsi: vuol dire confliggere. Vuol dire litigare e fare fatica: litigare con il parente che azzittisce la compagna, fare la fatica di non risolvere col sorriso di maniera le battute nello spogliatoio di calcetto. La fatica di pensare se stessi senza bisogno di pensare la dipendenza e la vulnerabilità dell’altra.
E non per un richiamo politicamente corretto ma, al contrario, per il coraggio di rompere con la “trasgressione conformista” dei tanti uomini che in televisione, o nelle chiacchiere a cena, come bambini che scoprono le “parolacce”, contrabbandano come coraggiosa disubbidienza la riproposizione trita e ritrita della battuta omofoba o misogina, figlia di un immaginario sessista che già i nostri nonni sentivano desueto.
Eppure la, finta, trasgressione è un obbligo per i maschi: fare cose eccessive, vietate, estreme, dire cose volgari, sono la misura della nostra esuberanza virile sempre sotto osservazione nel gruppo dei pari. Vantarsi di aver fatto cose da matti, “eravamo 100 cani sopra una gatta, una cosa di questa l’avevo vista solo nei film porno” “eravamo un casino, una sassolata”.
Cosa fare?
C’è un’altra strada oltre il conformismo della maschia trasgressione e la nostalgia per il disciplinamento virile dei corpi e dei desideri?
Possiamo riconoscere la miseria di quello sguardo come una condanna, come il portato di un sistema che vincola la mia identità al potere e le mie relazioni al dominio, alla competizione e al conformismo?
Dobbiamo distogliere lo sguardo, contenere il desiderio, amministrare il piacere? O provare a pensare possibile un altro desiderio? Un desiderio che non cerchi la muta disponibilità, la dipendenza, l’accudimento, la fragilità. Che non insegua la presunzione di controllo, dominio e autosufficienza ma, al contrario scopra la parzialità e la vulnerabilità come opportunità e non come minacce. Incontrare un altro desiderio che ci vede, cercare una libertà nella relazione e non dalla relazione.
Non si tratta di un’astrazione. Il mondo è già cambiato: conosciamo il desiderio femminile, conosciamo la libertà e la soggettività delle donne. E abbiamo scoperto che possono essere molto più intriganti e desiderabili da incontrare della loro disponibilità muta. Abbiamo scoperto che ci sono diversi modi di amare e desiderare. Tutto questo può offrirci una diversa rappresentazione e una diversa esperienza anche del corpo maschile.
Forse potremmo pensare possibile, come uomini, un altro desiderio, un altro piacere, e dunque una diversa esperienza dello stare al mondo e dello stare in relazione.
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