A proposito della discussione sui centri che lavorano con uomini autori di violenza.
di Stefano Ciccone
La violenza maschile contro le donne è troppo spesso strumentalizzata per politiche xenofobe o securitarie, per produrre “emergenze” di ordine pubblico a cui rispondere con interventi che non aggrediscono il nodo politico delle relazioni di potere tra i sessi e di un immaginario ad esse connesso. La pratica e lo sguardo del movimento delle donne da cui è nata in larga parte l’esperienza dei centri anti violenza ha rappresentato un’alternativa concreta a questa lettura producendo non solo azioni di sostegno concreto alle vittime ma producendo un sapere sul fenomeno le sue radici e le sue dinamiche. Maschile Plurale ha scelto di guardare alle radici culturali della violenza maschile contro le donne per farne un punto di partenza per un percorso politico maschile di cambiamento. Abbiamo detto, insieme, che la violenza tra i sessi chiama in causa innanzitutto gli uomini, chiede una riflessione maschile su modelli di relazione, sessualità, sul confronto con la propria parzialità e i propri limiti.
Oltre la sollecitazione di un dibattito pubblico e di una presa di consapevolezza maschile si sono andate sviluppando da alcuni anni nel nostro paese iniziative che, con metodologie, approcci e impostazioni differenti, intervengono con gli uomini che abbiano agito violenza o potrebbero essere in procinto di farlo nell’ambito di dinamiche relazionali problematiche.
Di queste esperienze, e delle questioni che sollevano, si è occupato uno studio svolto da un gruppo di ricercatrici (“le Nove”) sfociato anche in un volume che raccoglie interventi di discussione con uomini e donne. Su questo tema si è svolto a Roma qualche tempo fa un incontro nazionale molto partecipato di analisi e di confronto, promosso da Le Nove, dalla rete dei centri antiviolenza DiRe e Maschile Plurale. In quella discussione e in interventi successivi – uno tra questi quello di Marisa Guarneri – sono emerse obiezioni e critiche. Amiche con cui ho un rapporto consolidato di stima, affetto e collaborazione politica hanno espresso dubbi o diffidenze di cui mi piacerebbe discutere. Provando innanzitutto a fare ordine, dal mio punto di vista, sui termini della discussione.
Va innanzitutto detto che stiamo parlando di esperienze molto diverse tra loro non solo per metodologia e approccio ma anche per ambiti di intervento: ci sono esperienze in carcere con uomini condannati, esperienze con uomini in semilibertà, esperienze basate sulla partecipazione volontaria, ma anche esperienze che propongono un rapporto con uomini che non abbiano necessariamente compiuto già atti violenti, che siano stati denunciati o condannati, ma che scelgano volontariamente di rivolgersi a un numero telefonico per avviare un percorso di ascolto, confronto e riflessione. Queste esperienze si distinguono poi per il proprio retroterra di riferimento: alcune partono da associazioni di donne, altre partono da una pratica politica maschile in dialogo con maschile plurale, altre dall’impiego di competenze professionali e saperi disciplinari.
Dico questo perché molte delle posizioni critiche non sembrano riferirsi a specifiche scelte metodologiche ma rischiano di apparire rivolte a questi interventi nel loro complesso. Prima di discutere, dunque, delle singole scelte metodologiche dovremmo porci delle domande più generali che possono forse apparire retoriche ma che richiedono un confronto sereno e franco.
Il movimento femminista, e poi i centri antiviolenza e poi esperienze come Maschile Plurale affermano in vario modo che la violenza maschile contro le donne non può essere ridotta a mera questione di ordine pubblico, non può essere attribuita a una frangia deviante o patologica ma ha solide radici in una cultura condivisa e in modelli di relazione tra i sessi basati su una disparità di potere tra donne e uomini che viene confermata da istituzioni e rappresentazioni mediatiche. Se questo è vero è possibile affrontare il tema della violenza limitandosi alla repressione dei colpevoli degli atti di violenza?
La violenza è questione che riguarda le donne e che dunque deve limitarsi a un impegno di donne a sostegno di altre donne vittime? O chiede anche un’assunzione di riflessione degli uomini in generale e anche un intervento che si rivolga agli autori della violenza? Se la violenza tra i sessi riguarda (anche) gli uomini, ha senso pensare a interventi che mettano al centro il maschile inteso come ambito culturale ma anche riferito ai singoli autori di violenza?
Chiunque si occupi di violenza sa che le forme estreme che giungono fino all’uccisione sono, in genere, precedute da dinamiche di persecuzione, di violenze fisiche, verbali e psicologiche, che vedono spesso denunce per maltrattamenti, aggressioni etc. C’è dunque una lunga fase in cui può essere utile intervenire per leggere i segnali di rischio, mettere in atto scelte che tentino di prevenire violenze più gravi e che interrompano la dinamica di violenza in atto.
È possibile limitarsi a un intervento a posteriori a sostegno delle vittime o di punizione degli autori o può servire un intervento anche di “prevenzione” che tenti di agire sui comportamenti degli “autori”? Le varie forme di prevenzione sono indicate con definizioni “tecniche” ma possiamo dire che può svolgersi a vari livelli: è prevenzione un lavoro culturale di contrasto di modelli relazionali che giustificano la violenza (con iniziative nelle scuole, campagne di sensibilizzazione etc), si può fare prevenzione migliorando la capacità dei servizi di far emergere il fenomeno e situazioni specifiche di rischio (forze dell’ordine o pronti soccorsi capaci di cogliere situazioni di violenza e di intervenire prima che degenerino..), si può poi intervenire nella specifica situazione individuale per evitare che a una prima violenza ne seguano altre più gravi.
Per svolgere questa attività di prevenzione è utile pensare a un intervento di qualche tipo indirizzato agli uomini? Servono iniziative di lavoro culturale con ragazzi e ragazze nelle scuole, campagne di comunicazione indirizzate agli uomini, ma anche lavori di coinvolgimento con uomini autori di violenze o uomini che esprimono nell’ambito di relazioni problematiche pulsioni violente? Se riteniamo che una qualche forma di attività di prevenzione che parli agli uomini e anche che ne ascolti dinamiche relazionali, modalità culturali di relazione con le donne, posture diffuse, possa essere utile il problema, allora diventa: quali sono gli approcci corretti per questo tipo di interventi?
Qui mi pare sorga un altro elemento di confusione. Come ho detto in Italia esistono differenti esperienze con differenti approcci. La rete dei CAM, Centri Ascolto Maltrattanti, mi pare abbia tentato (legittimamente) di affermare il proprio approccio come quello di riferimento. Molte delle voci (legittimamente) critiche verso questo approccio hanno rischiato paradossalmente di avallare questo ruolo schiacciando tutte le iniziative su di esso. Ma i CAM (nell’ambito dei quali esiste, a quanto so, un dibattito e un confronto) sono solo una parte di questo scenario. Le varie esperienze di intervento con uomini violenti sono, inoltre, su un piano diverso dal lavoro di Maschile Plurale che è prioritariamente un percorso politico e personale di uomini. Alcuni uomini di maschile plurale collaborano individualmente con Centri Antiviolenza, scuole, associazioni di donne, progetti di intervento con maltrattanti con una pluralità di approcci e metodi. L’esperienza torinese de “il cerchio degli uomini”, l’iniziativa della ASL di Modena, gli interventi in carcere o con il tribunale a Roma, sono solo alcuni esempi.
In questo ambito è noto che ci siano metodologie e approcci differenti. Non tutte le esperienze prevedono, ad esempio, la comunicazione alla donna interessata. Anche in questo caso sarebbe utile discutere nel merito. Chi fa questa scelta afferma di farlo per verificare le affermazioni dell’uomo e i suoi comportamenti e per tutelare la donna rendendo consapevole l’uomo del fatto che ciò che accade non resterà senza verifiche . Chi non la condivide evidenzia il rischio di esporre la donna a ulteriori rischi, o quello di un uso strumentale da parte dell’uomo dell’adesione al percorso. Contraddizioni su cui è, appunto, utile un confronto di merito.
Altro rischio presente in alcuni interventi è la “psicologizzazione” della violenza, la sua riduzione a “patologia individuale da “curare” o, peggio, la confusione tra dinamiche conflittuali e dinamiche di violenza con la ricerca di una “mediazione” di coppia in uno scenario in cui l’obiettivo dovrebbe essere interrompere una relazione violenta e non tentare di recuperarla. Qui emerge la necessità di affiancare a una competenza professionale una consapevolezza politico culturale senza la quale ogni intervento risulta monco o controproducente. Per questo come Maschile Plurale e come singoli abbiamo scelto di impegnarci in una discussione e un confronto tra esperienze diverse con la rete DiRe e le ricercatrici di Le Nove. E per questo negli interventi formativi, nelle occasioni di confronto e nelle esperienze di collaborazione con queste iniziative abbiamo sempre posto la necessità di questa riflessione.
Come è noto Maschile Plurale non è un’associazione che “gestisce” centri che lavorino con uomini violenti. Molti di noi hanno invece partecipato non solo ad attività di analisi, studio, sensibilizzazione e prevenzione svolti dai centri antiviolenza, ma anche a esperienze di lavoro con ragazzi nelle scuole, uomini condannati in carcere, uomini inviati dai tribunali, uomini che hanno scelto volontariamente di affrontare una dinamica violenta che sentivano crescere nell’ambito di relazioni problematiche o a seguito di separazioni.
La collaborazione tra reti e la collaborazione tra equipes non è un obbligo ma è, credo, un utile strumento per far crescere e condividere competenze e consapevolezza e anche per evitare semplificazioni e improvvisazioni. Ma è bene chiarire che ragionare in una logica di rete e collaborazione nei territori, avere un confronto tra centri antiviolenza e centri con “maltrattanti” non vuol dire (non deve voler dire) prefigurare una prospettiva di mediazione tra l’autore di violenza e la sua vittima.
In questa discussione c’è anche un tema che è quello delle risorse.
L’approccio emergenzialista e iniziative governative in cerca di soluzioni facili e immediate, dopo anni di disattenzione al lavoro dei centri antiviolenza oggi rischiano di creare un nuovo problema. Stanziando delle risorse dedicate a interventi di contrasto della violenza, in assenza di un serio censimento e valutazione delle esperienze esistenti, ha innescato una rincorsa alla nascita di nuove iniziative spesso poco qualificate e improvvisate che, prive di una riflessione sulla dimensione sociale e culturale della violenza si candidano ad affrontarla con competenze professionali generiche. Non basta mettere insieme una psicologa, un’avvocata e un’assistente sociale per creare un’attività efficace di contrasto alla violenza. In questo modo le poche risorse rischiano di disperdersi in mille rivoli, in mille iniziative magari vicine a politici locali.
In questo scenario si inserisce un altro elemento di diffidenza verso gli interventi di lavoro con uomini autori di violenza percepiti come iniziative che toglierebbero di fatto risorse ai centri antiviolenza. Anche in questo caso il fatto che la mia attività sia prettamente volontaria e gratuita e l’esperienza di maschile plurale non sia basata su finanziamenti mi permette di affrontare questo tema con più serenità. Credo innanzitutto che si debba porre il problema sulle giuste basi e dunque mettere in discussione innanzitutto la riduzione delle risorse pubbliche e, in seguito, la loro distribuzione senza criteri di qualità. In secondo luogo è necessario osservare che il problema riguarda anche il fiorire di centri antiviolenza poco qualificati. È poi necessario chiedere con decisione che le risorse per interventi diversi di contrasto alla violenza non vengano poste tra loro in concorrenza ma vengano considerate parte di un intervento integrato. In ogni incontro discutiamo dell’utilità della costruzione di reti territoriali tra servizi, centri antiviolenza, forze dell’ordine, associazioni, professionisti… è utile che queste reti si completino con interventi mirati agli autori di violenza? Gli interventi indirizzati agli autori possono offrire strumenti e risultati utili al contrasto della violenza?
Se sì perché porli in contrasto con i centri antiviolenza? Perché non difendere e affermare un’iniziativa comune e integrata di contrasto alla violenza? La logica della competizione ha senso?
Se la violenza la fanno gli uomini e colpisce le donne è anche interesse delle donne costruire un intervento indirizzato agli autori? Ha senso considerare i centri anti violenza a favore delle donne e i centri che lavorano con uomini violenti come iniziative “a favore degli uomini”? Porre gli uomini al centro, in questi interventi, vuol dire marginalizzare e tacitare le donne o assumere che i comportamenti maschili sono l’origine del problema da affrontare?
Queste attività non hanno solo una valenza immediata ma anche il fine di acquisire conoscenza . Crediamo di sapere già tutto sulle dinamiche della violenza? O ci interessa ascoltare e capire? Conoscere dinamiche, motivazioni, rappresentazioni degli uomini che agiscono violenza può aiutarci ad affrontare una problematica sociale, relazionale e culturale così profonda e diffusa?
Qui si pone, forse, un tema più complesso e controverso: come deve porsi chi sceglie di lavorare, a vario titolo, con gli uomini sulla violenza? Può porsi solo come “esperto”? La storia ci dice che i centri antiviolenza sono nati a partire da una storia politica del movimento delle donne e sappiamo che l’empatia e la solidarietà tra donne sono una risorsa che integra e qualifica le professionalità delle operatrici nel loro rapporto con le donne che si rivolgono ai centri. I centri “uomini” non hanno alle loro spalle una pratica politica maschile diffusa e vedono spesso l’impegno di professionisti/e con un approccio prioritariamente “tecnico” (come accade per quei centri antiviolenza promossi ultimamente in modo improvvisato). Nel dialogo con gli uomini autori di violenza come si pone il tema della costruzione di un ascolto consapevole? È possibile porsi in una posizione meramente normativa e giudicante, in un distacco tra esperto e “deviante” che ci rassicura ma rende spesso sterile la comunicazione? Ma come costruire un ascolto “vero” che non offra il richiamo al richiamo collusivo, alla manipolazione e alla complicità? Le donne dei centri conoscono la problematicità della relazione con una donna vittima e della necessità di elaborare le proprie resistenze a un rispecchiamento con quella condizione. Questa problematicità di relazione è amplificata nel confronto con un uomo autore di violenza e va elaborata.
Ma, si dice, si tratta di interventi molto limitati che coinvolgono pochi uomini. Dato il carattere sperimentale di questi interventi non mi pare un male. È bene che queste esperienze ci forniscano elementi per un intervento più consapevole.
Io non faccio l’operatore in questi centri e non sposo la loro attività, non ho fatto di questo una professione (pur ammirando chi sceglie di garantire una continuità di impegno professionale in un ambito così difficile). Ho scelto di impegnarmi in Maschile Plurale perché mi interessava fare un percorso su di me e che, a partire dalla mia storia e dai miei desideri di cambiamento e dalle mie contraddizioni, costruisse una pratica politica collettiva, pubblica di uomini e in relazione con le donne. Per questo l’impegno contro la violenza maschile contro le donne è per me parte di una pratica politica di trasformazione che chiede l’espressione di una soggettività maschile capace di esprimere, in autonomia, uno sguardo critico sul mondo e un desiderio di cambiamento. Questa soggettività non può prescindere da una relazione politica con le donne e dal riconoscimento del proprio, limite, della propria parzialità.
Ma questa relazione politica è possibile se questo desiderio è reciproco e se è incontro tra due differenze che si riconoscono parziali, non autosufficienti e sul riconoscimento che l’alterità non è una minaccia ma una condizione costitutiva di noi stessi.
Mi piacerebbe che l’impegno maschile contro la violenza venisse percepito non come un impaccio, un fastidio o un’indebita invasione ma come l’occasione per un passo avanti politico che interessi uomini e donne.
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