di Gian Andrea Franchi
“Essere all’altezza di un universo senza risposte”
Carla Lonzi
Desidero proporre qui un tentativo di riflessione svolto dall’interno di un faticoso difficile impegno nelle retrovie di ciò che è stato chiamato da una notissima figura pubblica ‘una guerra mondiale a pezzi’, che è altresì una guerra civile e una guerra contro la gente.
La citazione in esergo a questo breve scritto, tratto da Carla Lonzi, indica nel modo migliore ciò con cui abbiamo a che fare: un universo senza risposte. “Universo senza risposte” vuol dire una complessità inoggettivabile nel concetto, sfuggente anche alla metafora, qualcosa che avvolge e trascina.
Ciò appare come l’opposto di una concezione dell’azione politica come progettualità definita che agisce per realizzare il progetto. L’opposto dunque della concezione classica, leniniana, della politica che presuppone un mondo dominabile, tras-formabile, cui dare cioè una nuova forma.
Questo universo – il nostro mondo – appare oggi più che mai devastato dall’imporsi di un complesso dispositivo di potere e di un immaginario, nati in Europa, che pongono come orizzonte della vita la competizione, mediata dalla violenza impersonale del denaro: la più potente variazione della antropologia androcentrica, che va ben oltre l’ambigua e incerta definizione di patriarcato.
Nella mia precedente esperienza, il gesto politico era frutto di una scelta. O così credevo. Nella mia esperienza di oggi, che desidero e voglio politica, non c’è stata scelta. Direi che sono stato scelto o più precisamente convocato in una situazione che mi sovrasta e mi avvolge come una nebbia, che non riesco a elaborare, che vivo contraddittoriamente.
Negli ultimi anni, la mia esperienza politica si era rivolta a due situazioni chiave del nostro tempo. Situazioni chiave: perché aprono porte dei sotterranei della nostra storia recente e meno recente, in cui si trovano i laboratori osceni della storia (nel senso letterale di fuori scena).
La prima è stata la terribile guerra interetnica dei Balcani, conseguenza della dissoluzione della repubblica Federativa Jugoslava, promossa da USA e potenze europee sulla base di una antica storia locale non sopita. Con questa guerra si è chiuso il Novecento, che con altre guerre balcaniche, prodromi della prima mondiale, si era aperto.
In Serbia e in Bosnia ho fatto diversi viaggi negli ultimi anni.
In Serbia, con una Onlus, che interviene nella città di Kragujevac, desolata dai bombardamenti ‘occidentali’, dove permane e anzi si aggrava una pesante situazione occupazionale e sanitaria.
Individualmente in Bosnia, a cogliere le tracce fisiche e culturali, ancora evidentissime, di una situazione negativamente esemplare, in cui l’intreccio profondo di personale e politico si mostra in tutta la sua terribile valenza.
La seconda esperienza è stata un viaggio in Cisgiordania. In un documentario su Hebron, città della Cisgiordania occupata da Israele, la cui condizione drammaticamente assurda ho potuto toccare con mano, una colona ebrea diceva in un’intervista: noi ebrei, qui, a Hebron, la città di Abramo, non abbiamo domande, troviamo risposte. Queste risposte mitiche hanno provocato una guerra contro un popolo che, a partire dalla pulizia etnica del 1948, insanguina e distrugge quelle terre. L’esperienza israeliano-palestinese dimostra con tragica evidenza che, se il radicamento è essenziale all’essere umano, come ritiene Simone Weil, oggi bisogna cercarlo, praticarlo e pensarlo diversamente. Non può avvenire proiettandosi in un passato più o meno mitologico.
“L’invenzione della tradizione”, come si è visto anche nei Balcani, produce soltanto uno sradicamento ancora più grave, nel trionfo identitario dell’odio per l’altro. Tutte le tradizioni sono state sradicate. Oggi si ripresentano come maschere d’odio. Ogni tradizione implica una narrazione storica che connette l’individuale al sociale. E’ quindi in questione qualcosa di fondamentale: la connessione fra la vita quotidiana di ogni individuo e l’ambiente storico-sociale in cui essa viene riconosciuta e acquisisce senso. Peraltro ogni tradizione è sempre stata un’invenzione culturale al servizio del presente. E il presente oggi è lo sradicamento. Dobbiamo dunque partire dallo sradicamento in cui tutti viviamo – che appare oggi come uno tsunami storico – per trovare un nuovo radicamento, più radicale: la radice delle radici è l’altro essere umano. La soggettività non esiste al di fuori della relazione con l’altro, in differenza ed eguaglianza, nell’eguaglianza delle differenze: ogni singolo è differente da tutti gli altri, ma eguale in dignità. La differenza senza eguaglianza porta all’individualismo violento. L’eguaglianza senza differenza porta o all’oppressione o a un’eguaglianza formale che nasconde ancora l’individualismo. Maschere tutte, alla fine, dell’individualismo possessivo, la cui matrice androcentrica è ben chiara.
Il problema dell’oggi, per l’Europa, è l’approdo di masse di sradicati in fuga. Approdo estremamente rischioso e precario e destinato a diventarlo sempre di più.
“Dans un silence médiatique et politique assourdissant, les premiers bateaux transportant plusieurs centaines de réfugiés ont commencé la mise en pratique de la plus importante déportation de masse en Europe occidentale depuis la seconde guerre mondiale. Il s’agit ni plus ni moins que d’un nouveau crime historique de l’Union Européenne.Que celui-ci soit légal (en vertu de l’accord signé avec la Turquie) ne change bien entendu rien à son caractère violent et attentatoire aux droits humains. Nous avons affaire ici à un nouveau palier de « l’ensauvagement » de l’Europe riche pour paraphraser Aimé Césaire. Aux portes de cette Europe se multiplient et se multiplieront les camps financés par l’Union Européenne et gérés par le grand démocrate Erdogan” (Said Bouamama, 7 avril 2016, sito Investig’action).
E’ il ‘ reale’ dell’Occidente che precipita su di esso. Giocando un poco con la metafora, si potrebbe dire che il petrolio, su cui si basano in nostri consumi, gran parte della nostra vita sociale (basta pensare alla plastica), mostra oggi la sua ragione sociale e politica: le devastazioni umane prodotte dalla sua estrazione.
Ciò produce un cambiamento epocale nella costituzione politica dei paesi ‘occidentali’, caratterizzato dallo “Stato d’emergenza anti-sociale in nome della disoccupazione e della perdita di competitività da un lato” e di uno “stato d’emergenza securitario permanente dall’altro”, che sono “le due vie d’uscita dalla democrazia e dallo stato di diritto” che “si completano e si appoggiano reciprocamente” (Christian Laval).
I migranti apparvero vent’anni e più or sono ai ‘militanti’ e ricercatori politici in crisi di astinenza da classe operaia come possibile nuova classe operaia o nuovo proletariato. Oggi più che i migranti il punto della crisi sociale sono i richiedenti asilo o, come anche si dice, rifugiati: parola significativa che indica gente in fuga da morte, miseria, servitù e in cerca di un rifugio dove poter vivere. Gente in fuga: gente sradicata, cui sono state tagliate le radici – per sempre.
La civiltà del denaro è infatti una civiltà che taglia ogni radice, che considera la terra unicamente come luogo d’estrazione di materie prime e magazzino di merci. I rifugiati sono il popolo di questo sradicamento nelle sue forme più atroci: la guerra civile. Una guerra civile che ha invaso non solo il Medio Oriente – territorio ‘inventato’ dopo la prima guerra mondiale dall’Occidente, cioè dai paesi coloniali e ricchi –, ma tutti i territori ex colonie e comunque di fatto subalterni: “Un pugno di stati inventati in funzione del petrolio” (F. Amodeo, M. Cereghino, Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente, Feltrinelli 2016).
E’ un profondo paradosso storico che gli sradicati vengano a cercar rifugio in Europa, nelle terre da cui è partito lo sradicamento del mondo. In verità, è sempre stato così. Ora appare in forme più preoccupanti solo perché coinvolge l’Europa.
Se i migranti potevano essere simil-operai, anche perché spesso diventavano operai – portatori quindi di possibili risposte politiche – per i rifugiati questa analogia politica è difficile: sono vulgo disperso che patria (anche politica) non ha.
Gli operai avevano nella condizione di sfruttamento della fabbrica, in cui erano i produttori della fonte del valore di scambio, la base concreta delle loro lotte e in un possibile mondo di solidarietà la loro nuova patria politica alternativa.
I rifugiati, che sono anche migranti – la divisione in due categorie è discriminante e pretestuosa: anche i migranti di venti anni fa fuggivano condizioni di vita spesso insopportabili – si trovano al limite della sopravvivenza e hanno, prima di tutto, bisogni elementari: cibo, vestiario, un tetto o qualcosa di simile sulla testa. Si può dire che vivono – sopravvivono – in una condizione negativa totale. Un’unica speranza: trovare in qualche modo un qualche posto nei paesi più ricchi o meno poveri.
Ho detto prima che vivo questa situazione contraddittoriamente. Infatti, il modo di procedere in questa esperienza, fra corpi, che portano spesso tracce di ferite, torture, malattie, assomiglia troppo a una pratica assistenziale più che politica (anche per la sproporzione fra richieste e risposte), funzionale quindi, al di là di desideri e impegni, al mantenimento di una discriminazione fra chi dà e chi riceve. Siamo di fronte a bisogni quotidiani imprescindibili, primari – cibo, salute, vestiario, tetto – la cui soddisfazione relativa richiede un impegno anche spossante.
Ma non possiamo restare indifferenti, chiusi nella precaria corazza del nostro (relativo) benessere. E’ necessario gettarsi in un’esperienza assorbente senza passarla prima al filtro astratto di un’ideologia. Una caratteristica dell’oggi è proprio la mancanza di una definizione chiara di che cosa sia politica. Ci troviamo in una War against the people – per citare il titolo di un libro dell’israeliano antisionista Jeff Halper – in cui occorre agire senza avere una predefinizione dell’agire, sulla base di un sentimento di solidarietà, elementare, ma proprio per questo significativo.
Tuttavia, malgrado ogni impegno e la forza di questa esperienza, fra “noi” e “loro” rimane un’asimmetria insuperabile ben espressa nell’importante questione proposta da Judith Butler: “quali vite sono degne di lutto e quali non lo sono?” E’ evidente che i rifugiati non sono degni di lutto, mentre noi lo siamo. Un giovane che ha tentato il suicidio è stato salvato in extremis e per caso, un altro invece è morto (parlo solo di casi avvenuti dove vivo io o in luoghi vicini). Questo è direttamente proporzionale all’agio di cui noi godiamo: dormiamo in un letto in una casa la sera… abbiamo un vita ‘normale’…possiamo in ogni momento ridurre o smettere il nostro impegno…la nostra vita non è toccata sino in fondo…
La novità dell’oggi consiste per me nell’imparare a ‘fare politica’ in questa condizione elementare di ‘nuda vita’ – che presenta alcune caratteristiche paradossalmente vantaggiose rispetto al passato. ‘Vantaggioso’ non vuol dire facile. E’ molto, molto più difficile. Offre, però, aspetti nuovi che possono diventare dei vantaggi. Il pensiero e l’esperienza dei movimenti femministi ci aiutano a tentar di pensarli e praticarli.
In simili situazioni s’impone un’attività volta soprattutto ai bisogni primari. Tradizionalmente si chiama ‘cura’. I cosiddetti ‘bisogni primari’, tuttavia, non sono puramente biologici. Anzi. Come ci mostra l’infanzia, essi hanno intrinsecamente a che fare con la costituzione della soggettività. Questo avviene anche con adulti, quando si trovano in condizioni d’inerme sopravvivenza. Nostro compito difficilissimo è tentare di costruire relazioni e socialità in condizioni di sopravvivenza, che non sono più condizioni eccezionali o remote. Altrimenti avremmo a che fare con una mera manutenzione biologica, come nei campi di rifugiati, appunto, la cui triste vicenda popola i deserti e le pianure del cosiddetto Medio Oriente, dell’Africa e più o meno in tutto il mondo e anche e sempre di più in Europa.
Ma non è questo il nostro compito e il nostro desiderio.
L’attività che svolgiamo non può non misurarsi con relazioni personali, con storie di vita, con tentativi d’uscita dalla serialità miserabile di chi fugge e chiede. E’ necessario trovare il modo per confrontarsi con la singolarità di ciascuno. E’ molto difficile, in un fenomeno di massa, tenere insieme una molteplicità di individui, che implica quindi la serialità, e la singolarità di ciascuno. Eppure è uno sforzo che bisogna fare, una tensione in cui consistere. Facile a dirsi…
In tale situazione, deve avvenire uno scambio fra culture diverse – anche i rifugiati hanno da dare, sono portatori di esperienza: possono comunicarci qualcosa di significativo -, che lo stato di necessità rende più stringente (anche per quel che riguarda la questione difficile, per la cultura islamica, del rapporto fra i sessi), proprio per ridurre la dimensione assistenziale.
In un contesto che costeggia la disperazione, lo scambio culturale è tuttavia difficile, dato che prevalgono i bisogni elementari. Ma proprio per questo può essere più radicale nei termini di una profonda solidarietà che, in qualche modo, va oltre le differenze culturali, ne cerca la radice, l’elemento comune, basilare. Ciò potrebbe consentirci di andare oltre il radicamento non solo nel senso più tradizionale della patria storica, ma anche di altre tradizioni politico-culturali e indirizzarci verso un radicamento più profondo, l’altro essere umano, appunto. Il radicamento, dice sempre Simone Weil, è uno dei bisogni “più difficili da definire”. Questo può mettere anche alla prova chi s’impegna in questa attività: può costringerlo a guardare in se stesso (e non in una dimensione intimistica). Siamo solo agli inizi… Se è necessario avere elementi concreti e validi di conoscenza della cultura delle persone con cui abbiamo a che fare, bisogna però cominciare dal basso dai rapporti diretti che si sviluppano nella quotidianità, mangiando insieme, giocando insieme. Per questo bisogna anche trovare il tempo…
La nostra esperienza, per ora, riguarda solo uomini, provenienti da Pakistan e Afganistan (in genere in fuga dai gruppi di Taleban). Questo è certamente un limite. Tuttavia, il fatto che nel nostro gruppo di ‘operatori di strada’ le donne – donne libere, che si presentano ‘autorevolmente’ – siano prevalenti potrebbe avviare percorsi nuovi, anche nel senso prima accennato.
La nostra esperienza di allestimento di un campo per rifugiati per opera di una rete spontanea di solidarietà in un parco cittadino, al di fuori della legge, ma tollerato per qualche mese perché le istituzioni locali erano inadempienti rispetto alla stessa legge europea e italiana, è anche l’esperienza di un tentativo di produzione di socialità: dal cibo, al sonno, alla convivialità, alla festa. Sono tutte forme elementari e necessarie di socialità su cui tentar di innestare, senza farsi divorare dalla cupezza dell’immediato futuro, embrioni di socialità solidale che insieme tenga conto delle differenze singolari (mi ritorna anche alla mente l’insegnamento sulla convivialità di Ivan Illich, che partiva dall’esperienza del Sudamerica).
Più in generale, mi chiedo se questa esperienza, così drammatica, che stiamo vivendo, insieme ad alcuni delle centinaia di migliaia di persone in fuga da luoghi di morte, fame e servitù, non possa cominciare a insegnarci un nuovo modo di far politica, diverso da quello tradizionale della ‘sinistra sociale’ (tanto per dirla in sintesi), maschilmente impregnato dell’ideologia del conflitto come dimensione primaria – “l’ossessione del Politico come misura della trasformazione” (Dominijanni); ma che tenti la creazione di piccoli nuclei di socialità a partire da basi elementari ma reali, senza farso ossessionare dal problema ‘politicistico’ di un futuro allargamento e coinvolgimento di ‘grandi masse’.
L’ondata inarrestabile d’intere popolazioni in fuga da luoghi di morte, di cui peraltro il cosiddetto ‘occidente’ porta la piena responsabilità storica, può forse contribuire a scardinare il carcere di quest’Unione Europea, rinserrata in dispositivi fatti per dare a chi ha e togliere a chi ha poco o non ha niente.
Un’azione politica che parte dalla necessità dei bisogni elementari può insegnarci, con forza, anche un altro tipo di necessità, che nasce dalla prima: “la necessità di non separare vita quotidiana e pratica politica”, di cercare e mantenere il nesso fra la vita di tutti i giorni, nella sua concretezza elementare, e la politica.
Una questione fondamentale è sottrarre i rifugiati alla loro condizione di vittime. L’esperienza che stanno vivendo può avere conseguenze devastanti: la follia, il suicidio, come abbiamo dovuto constatare de visu. Non sono soltanto persone di altra cultura, ma vivono anche una condizione traumatica, cui noi difficilmente potremmo sopravvivere.
Bisogna allora che il rapporto che dobbiamo costruire con loro sia pienamente consapevole di essere prima di tutto rivolto – anche se ciò può non essere sempre evidente – a renderli consapevoli dei loro ‘diritti’.
Questi ‘diritti’ hanno la loro radice al di fuori della garanzia statuale, peraltro dovuta loro nei termini delle leggi vigenti. Ogni essere umano per il fatto di nascere ha dei bisogni fondativi, in cui la dimensione culturale e quella ‘biologica’ sono fuse, o piuttosto la seconda è completamente sussunta nella prima, perché è a partire dal buon soddisfacimento di quest’ultima che si possono formare ed espandere i desideri. Scriveva ancora Simone Weil: “C’è obbligo (obligation) verso ogni essere umano per il solo fatto che è un essere umano, senz’altre condizioni” e aggiungeva: “ ’Tu non m’interessi’ è una parola che un uomo non può indirizzare a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia”(L’enracinement, Gallimard 1949 p. 11, trad. mia). L’interesse nasce da un inter-esse: chi dice ‘tu non m’interessi’ rinnega la condizione umana e quindi anche se stesso.
I diritti non sono altro che la parziale, faticosa, contraddittoria, precaria ratificazione legale del bisogno umano più grande, come diceva anche Marx: il bisogno costitutivo, il bisogno dell’altro. Questo bisogno genera l’obligation verso l’altro, che non ha nulla di eticamente doveroso, alla Kant (per intenderci), ma è, piuttosto, un bisogno ontologico, nel senso che tiene insieme il carattere elementare del bisogno, “analogo alla fame” (Simone Weil), con una dimensione fondativa della condizione umana.
Nel nostro caso, ci troviamo di fronte a bisogni elementari predominanti: mangiare, dormire, coprirsi, avere un riparo sulla testa; soddisfatti da noi sia pur molto parzialmente, com’è ovvio, per libera scelta di solidarietà; scelta, cioè, di entrare con queste persone, sepolte nei bisogni elementari, in una relazione tendenzialmente politica. Il che significa: rivolta a un cambiamento consapevole e collettivo della loro condizione e tendenzialmente di tutti quelli in condizione analoga.
Ove la garanzia statale dei diritti non sia data o sia inadeguata – come abbiamo sperimentato e come avviene sempre -, deve in ogni modo essere pretesa, pur in una condizione oggettiva di grande debolezza. Ad esempio, le migliaia di Idomeni che continuamente sostano e tentano di valicare la frontiera, ne sono la sacrosanta pretesa, consapevoli o meno – e anche in molti altri luoghi e situazioni, in cui ci sono fughe, proteste, ribellioni.
Credo che oggi si debba ricominciare dall’elementare della condizione umana, dalle basi del vivere, come in guerra o in situazioni estreme, senza temere di esserne travolti – cosa peraltro possibile nella risonanza dissonante fra personale e politico…
Di fronte, appunto, a un universo di domande senza risposte. Le risposte dobbiamo darle noi, di volta in volta, sapendo che ogni risposta sarà precaria.