di Francesco Della Puppa
Sociologo delle migrazioni, membro del Laboratorio di Ricerca Sociale e del Master sull’Immigrazione dell’Università Ca’ Foscari di Venezia
Articolo ripreso da: http://www.naga.it/index.php/intervista/articles/gennaio-2016—maschile-plurale.html
Francesco Della Puppa, autore di Uomini in movimento. Il lavoro della maschilità fra Bangladesh e Italia (Rosenberg&Sellier, 2014), interviene nel dibattito acceso dal “capodanno di Colonia”
Il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ha definito le migrazioni «un’occasione privilegiata […] per rendere palese ciò che è latente nella costituzione e nel funzionamento di un ordine sociale, per smascherare ciò che è mascherato, per rivelare ciò che si ha interesse a ignorare e lasciare in uno stato di “innocenza” o ignoranza sociale, per portare alla luce o ingrandire ciò che abitualmente è nascosto nell’inconscio sociale». Da sempre, infatti, la presenza di immigrati e immigrate permette agli autoctoni di specchiarsi e riflettersi nei “nuovi arrivati”.
Le migrazioni e le retoriche che costruiamo attorno a esse, cioè, illuminano ciò che siamo. Talvolta, però, illuminano soprattutto ciò che vorremmo essere e, quindi, specchiandosi nei nuovi arrivati la società ricevente si rappresenta come “più civile”, attribuendo agli ospiti politicamente indesiderati (ma economicamente utili) le proprie mancanze, le proprie brutture.
Diseguaglianze
È esattamente ciò che è accaduto relativamente ai così detti “fatti di Colonia”: episodi disgustosi – benché distorti dalla maggior parte dei media nostrani – che la società europea ha prontamente descritto come una prerogativa degli immigrati e, in questo momento storico di aggressione militare in Medio Oriente, dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Spiegati come il frutto di una “loro” specificità “culturale e religiosa”, quando non “etnica” e “razziale”.
Ecco che, quindi, nell’Europa della persistenza di profonde diseguaglianze tra uomini e donne, nell’Europa in cui una donna su tre avrebbe subito una violenza sessuale nel corso della sua vita e una su due una molestia, in cui le donne immigrate e rifugiate sono ancor più soggette a violenze sessuali da parte di autoctoni e funzionari di polizia, in cui in ogni evento pubblico che raduna grandi masse di persone sempre si registrano e vengono registrate centinaia di molestie, nell’Europa da cui sono partite e continuano a partire le aggressioni coloniali corredate da stupri e violenze, nell’Europa che più di altri contesti alimenta il turismo sessuale nel Sud (e nell’Est) del mondo e spesso a danno di bambini e bambine… i fatti di Colonia costituirebbero il prodotto culturale delle popolazioni arabe, il frutto del tribalismo atavico delle genti musulmane e, in definitiva, una realtà a “noi” estranea.
Culturalizzazione
Una simile lettura opera una culturalizzazione ideologica della questione: dietro alla liberatoria interpretazione “islamizzante” si occulta e si mistifica la continuità di una volontà di dominio sul corpo delle donne che oggettivamente accomuna qualsiasi società a qualsiasi latitudine, compresa la “nostra”. Insomma, la spiegazione per cui la violenza contro le donne agìta dagli immigrati delineerebbe un tratto culturale, mentre quella degli autoctoni sarebbe opera di isolati squilibrati (benché molto numerosi) non convince. Mi pare più convincente, invece, vedervi un diffuso disprezzo per le donne che caratterizza universalmente il patriarcato, alla cui logica anche “noi” obbediamo – e, infatti, ancora una volta le “nostre donne” sono rappresentate come un campo di lotta e, al contempo, oggetti il cui significato è costruito al di fuori di essi.
Trasformazioni
Una simile lettura, inoltre, occulta e misconosce il formidabile impulso trasformativo che le migrazioni comportano sia per le società di partenza, sia per quelle di destinazione. Si tratta di una trasformazione radicale e irreversibile di tutti gli ambiti dell’agire sociale, comprese le relazioni affettive e sentimentali e che investe, quindi, le forme familiari, i rapporti fra i sessi e le identità di genere. Una pluralità di situazioni ed esperienze sociali che vedono protagonisti gli uomini immigrati – ma anche quelli autoctoni – stanno mandando in frantumi lo stereotipo di una maschilità monolitica, statica e unidirezionale: i matrimoni tra persone di diversa origine nazionale e religiosa, il ricongiungimento familiare portato a termine da molte immigrate nei confronti dei loro mariti, il lavoro di cura svolto da molti padri “soli” che hanno ricongiunto i figli, le loro sofferenze vissute per la distanza dalla famiglia, le recenti immagini dei padri “accudenti” lungo la rotta balcanica, la riflessività che la migrazione impone rispetto ai propri orientamenti sessuali e ai propri stili del maschile, la manifestazione di Colonia in cui hanno sfilato immigrati, rifugiati, uomini di origine araba o musulmana, in solidarietà alle donne aggredite e di cui i media non parlano.
Pericoli
Il corollario di questa chiave di lettura coloniale porta a individuare nei giovani immigrati senza famiglia un pericolo per le “nostre donne”, in quanto soggetti in balìa di istinti incontrollabili – così come venivano descritti gli emigrati italiani nell’Europa centrale del dopoguerra.
A mettere in pericolo le donne, di qualsiasi origine, sono più probabilmente, nel quadro della crisi, le politiche migratorie e di asilo, gli ostacoli al ricongiungimento familiare, la precarizzazione e segmentazione del mercato del lavoro, i tagli ai servizi, ai fondi antiviolenza, ai programmi di protezione, alla formazione degli operatori sociali…
Ce la vogliamo cavare con gli acclamati corsi obbligatori di “formazione al genere e sulla parità tra i sessi” per i rifugiati? Tra l’altro, gli stessi a cui ci si oppone nelle scuole italiane… Ma a noi, i corsi chi li tiene?