Mar 2012 “Maschi violenti: la terapia orfana della politica“,
di Alessio Miceli
già pubblicato su Il Manifesto il 7 marzo 2012
Cosa dire in Italia oggi, al giovane uomo che getta il figlio neonato nel Tevere, ultimo sfregio alla sua compagna, gridando “io sono dio”? E che dire al fidanzato di Stefania Noce, che “l’amava tanto” da finirla a coltellate, nel periodo in cui lei manifestava a Catania per la libertà delle donne? Da quale (in)cultura proviene questo senso di onnipotenza e questa risposta alla libertà dell’altra, negli oltre 30 casi di donne uccise quest’anno, già all’inizio di marzo?
I ragazzi di scuola dicono di questi uomini che “sono pazzi o malati” e quasi a specchio gli adulti parlano sempre più di curarli: gli uomini maltrattanti, gli stalkers, gli abusanti, i sex offenders, gli uxoricidi… in breve l’idea è di “curare gli uomini violenti”. Così negli ultimi anni si moltiplicano i corsi di formazione e i bandi di concorso, i progetti e le nuove strutture. Si sviluppa un mercato e si estende anche l’ombrello dei servizi pubblici alla “presa in carico degli uomini violenti”.
Per esempio a Milano c’è il lavoro al carcere di Bollate con gli autori di reati sessuali, “per la riflessione costruttiva e la prevenzione della recidiva”. A Torino si tiene uno sportello telefonico per “l’ascolto del disagio maschile”, spesso casi di violenza da gestire in gruppi di condivisione facilitati o da inoltrare ai servizi sociali, mentre a Firenze lo sportello telefonico è intitolato come “Centro ascolto maltrattanti” e i gruppi sono più ad orientamento terapeutico. A Modena si apre adesso il primo centro pubblico in Emilia, che raccoglie una serie di esperienze terapeutiche ma anche di riflessione più ampia sulla maschilità, mentre a Roma sta per iniziare un progetto di laboratori socio-educativi per uomini a bassa o media intensità di violenza, inviati dal tribunale.
In questi e altri casi, ci sono un approccio terapeutico e uno di apprendimento rivolti agli uomini violenti, con diversi soggetti professionali e associativi, in un contesto più o meno istituzionale.
Ma una grande domanda rimane in sospeso: quali sono i nessi tra questi approcci di “cura” e la mattanza di donne che avviene ogni anno in Italia, come questione politica?
Direi che la terapia, ancor più della formazione, se da un lato lavora alla ricostruzione della personalità, dall’altro rimanda al concetto della violenza come devianza individuale da rimodulare, rispetto a un corpo sociale tendenzialmente sano (e neutro, non sessuato).
Poi le cornici istituzionali di questi interventi, sia quella sanitaria che giudiziaria, lavorano nella logica dei servizi, cioè di strutture che “servono” appunto alla realtà esistente, che lavorano nell’ordine delle cose che è dato. A parte la difficoltà a validare questi percorsi in base alla recidiva, cioè che il comportamento violento non si verifichi più, fatto molto controverso in letteratura, ma ciò che mi sembra cruciale di queste esperienze di “cura”, a volte importanti, è il loro essere orfane di politica.
C’è un enorme bisogno di politica, quella capace di riconoscere il problema (la questione maschile irrisolta, di questa violenza strutturale sulle donne) e di darsi una prospettiva condivisa (e poi una legge organica, dei fondi strutturali ai centri antiviolenza, eccetera). Senza questa politica, non sarà il mondo della cura e dei servizi a cambiare il quadro, non è “il suo mestiere”.
E questo cambiamento, questa grande discussione a tutti i livelli della società, non può venire che da quelle donne (tante) e quegli uomini (pochi) che hanno appunto il desiderio politico di un nuovo rapporto tra i sessi. Come in quel campo di profughi afghani, in cui una grande donna, responsabile dei servizi del campo, innescò una discussione politica con i capi famiglia, per cui nessuna donna morì più in quel campo a causa di violenze e delitti d’onore.
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