Mar 2012 “La tv e l’uomo che non c’è“,
di Marco Deriu,
già pubblicato dal Manifesto il 7 marzo 2012
Di fronte al riproporsi di casi di violenza maschile contro le donne e di femminicidi, varrebbe la pena domandarsi: come funziona in Italia la comunicazione su questi temi?
Anche nei tentativi di informazione e comunicazione sociale ritroviamo parecchi limiti che pregiudicano la possibilità di una reale sensibilizzazione.
Il primo esempio, macroscopico, è che nella comunicazione “standard”, quella dei media, dei politici, ma anche della comunicazione sociale, si continua a parlare di “violenza sulle donne”, mettendo l’accento sulla vittima, e non di “violenza maschile” o di “violenza maschile sulle donne”, che sottolineerebbe invece l’autore e la responsabilità maschile. Si tratta di un fatto di non poco conto che contribuisce a influenzare la percezione e l’inquadramento di un problema.
Le stesse campagne di comunicazione sociale sulla violenza, nella quasi totalità dei casi – e con l’eccezione meritoria di alcune iniziative del Fiocco Bianco – si sono rivolte alle vittime della violenza piuttosto che agli autori. Paradossalmente l’insistenza sulla vittima fa gioco non solo alla rimozione e all’irrensponsabilizzazione degli uomini ma più in generale ad un modo semplificato e in fondo consolatorio di affrontare il problema della violenza.
La rappresentazione delle donne schiacciate nel ruolo di vittime, di soggetti deboli da porre sotto tutela si accompagna così alla messa in ombra dell’autore e della responsabilità maschile. Insistere sulla vittima, lasciando sullo sfondo l’autore, permette infatti di “demonizzare” o “disumanizzare” l’uomo violento. “Chi picchia una donna non è un uomo”, taglia corto una pubblicità sociale. Sospetto che per molti sia meno problematico mantenere un’immagine disumana o bestiale di questi individui piuttosto che prendere atto della profonda ambivalenza presente in molti uomini, compagni o padri nei quali possono convivere e alternarsi affetto e risentimento, protezione e minaccia, fragilità e violenza, bisogno e negazione dell’alterità.
Nei pochi casi in cui nella comunicazione sociale sul problema della violenza ci si rivolge apparentemente (anche) agli uomini, spesso lo si fa riattivando stereotipi e contribuendo a rendere più difficili le cose. “Gli uomini picchiano le donne” sentenziava senza tanti distinguo un manifesto politico qualche tempo fa. Un’altra pubblicità mostrava “Mario e Anna” un bambino e una bambina di pochi anni, nudi, con ai piedi la didascalia “Carnefice” e “Vittima”, come se fossero già predestinati a diventare persecutori e prede. Si tratta di generalizzazioni che rischiano paradossalmente di “naturalizzare” la violenza maschile e di impedire invece di domandarsi in profondità perché alcuni (molti) uomini sono violenti e (molti) altri no. D’altra parte affermare, come fanno molte campagne, “I veri uomini non stuprano”, “I veri uomini non picchiano” ecc… non rischia di riconfermare l’idea di virilità unica e assiomatica anziché aiutare gli uomini a rivendicare la loro soggettività e la loro responsabilità aprendo un confronto tra forme di maschilità differenti?
E ancora, molte campagne insistono sulla violenza compiuta, sugli effetti fisici e psicologici più evidenti, mettendo in primo piano lividi, tumefazioni, ossa rotte, umiliazioni. Che effetto dovrebbero avere simili campagne sugli uomini? Siamo sicuri di riuscire a stabilire una comunicazione in questo modo? O non creiamo l’effetto inverso di presa di distanza e di allontanamento?
Occorre immaginare una forma di comunicazione che abbia il coraggio di assumere gli uomini come interlocutori reali, nel bene e nel male. Perché senza un loro impegno non è possibile affrontare il problema della violenza maschile sulle donne.
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