immagine dal sito di KRAN, un collettivo queerfemminista danese
Mar 2012 “Cosa dice a noi uomini la data dell’8 marzo?“
di Stefano Ciccone e Claudio Vedovati
già pubblicato sul Manifesto l’8 Marzo 21012
Le date nella vita delle persone sono importanti, ma è importante anche come le usiamo. L’8 marzo di per sé è una data a rischio, perché quello a cui rimanda è cosa che ci riguarda tutti i giorni dell’anno: non solo e non più l’emancipazione delle donne, ma la qualità delle relazioni tra uomini e donne, che è qualità costitutiva di ciò che chiamiamo una società.
Per questo possiamo anche correre il rischio che l’8 marzo sia ridotto a retorica, ma diciamo con chiarezza che ci preoccupa molto di più l’insofferenza diffusa nei suo confronti. Come l’insofferenza verso il politicamente corretto è divenuta alibi per dare sfogo al politicamente indecente, oggi il rifiuto del rito dell’8 marzo nasconde facilmente anche l’insofferenza verso una domanda che mette in discussione il nostro modo, di noi uomini, di stare al mondo, le nostre tranquille categorie di lettura della realtà.
L’8 marzo nella nostra memoria corrisponde alla sorpresa di non trovare la donna dove l’abbiamo collocata. Anche una festa, sì: una trasgressione dell’ordine delle cose; la scoperta di una libertà femminile e di una presenza delle donne nel mondo che ha cambiato le nostre vite e l’immagine di noi stessi, che ha messo fine allo sguardo universale e neutrale che avevamo interiorizzato come uomini, che ci ha posto un limite e fatto delle domande. Un blog di donne lanciava l’idea “a noi la festa a voi la parola” [ingenere donne e uomini per la società che cambia n.d.r.]
Parliamo, dunque. E prima di tutto della violenza di genere, per cancellare ogni equivoco. Dall’inizio dell’anno 37 uomini hanno ucciso la propria compagna, la propria vicina di casa, la donna che aveva deciso di andarsene. Ma le uccisioni sono solo l’espressione estrema di un universo di violenze, abusi, minacce, ricatti. Paradossalmente più enfatizziamo i casi più efferati e più alimentiamo la percezione che la violenza di genere sia estranea alla nostra quotidianità: la releghiamo ai margini convinti che non ci riguardi ridotta a impazzimento o frutto di culture arcaiche ed estranee. Quante volte occorre scriverlo di nuovo? E quante volte ancora dobbiamo denunciare come l’“emergenza” sia strumentalizzata per alimentare politiche xenofobe e securitarie nelle nostre città, tanto quanto lo è stata la “difesa dei diritti” delle donne di altri paesi per giustificare guerre con altri obiettivi?
Violenza di genere, cioè violenza sessuata, di uomini su donne, una violenza che non può essere ridotta neanche a patologia, ad anormalità, a mostruosità. Essa affonda le radici ed è espressione, invece, di una normalità, che ci riguarda proprio in quanto uomini. In quest’ordine il desiderio femminile è cancellato e la donna ridotta a corpo disponibile per un desiderio maschile che si dà senza relazione. E’ lo stesso ordine che espropria il corpo delle donne riducendolo a “funzione materna”, cancellandone la soggettività e le relazioni che la costituiscono.
Non c’è modo migliore e più “normale” di cancellare la dimensione sessuata della violenza se non parlando di “amore”, facendo ricorso alla categoria dell’omicidio passionale. Come notava anche Michele Serra in un articolo su La Repubblica del 6 marzo: “passione e amore non c’entrano, c’entrano il potere, il terrore di perderlo, l’odio della libertà”.
Quel che tutti noi uomini dovremmo cambiare è il nostro linguaggio “interiore”, quello che usiamo per dire di noi stessi, del mondo e della realtà. Dovremmo indagare l’idea di passione maschile e chiederci perché la nostra idea dell’amore è così spesso contigua al controllo e al dominio e ostile alla libertà dell’altra. Si tratta di una natura maschile da civilizzare che ha perso freni e controlli o forse l’esplodere della crisi di un sistema che ha regolato e strutturato il nostro immaginario, i nostri desideri, le nostre aspettative?
Il manifesto, più di altri, ha mostrato come la violenza di genere, i rapporti tra i sessi siano questione tutta politica che riguarda i poteri, le culture, i saperi. E come il “berlusconismo” sia un pensiero di sistema e non un’eccezione. Oggi il risentimento maschile, il revanscismo, la reazione frustrata di molti uomini assumono sempre più visibilità politica, diventano fatti collettivi. Contemporaneamente, i modelli virilisti colonizzano anche l’immaginario delle culture radicali. In questo senso la violenza nelle relazioni di intimità, l’ostentazione di una sessualità bulimica e predatoria è segno di una crisi maschile che riguarda tutti.
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