IL NOME DELLA ROSA
di Mario Simoncini
Firenze, luglio 19…
(prima della caduta del Muro di Berlino)
Stavo passeggiando, dopo aver ritirato un certificato all’università, per le vie di Firenze, piene di storia antica e di vetrine scintillanti, quando incontrai una ragazza carina, con i capelli biondi, molto alta, di aspetto piacevole, ma vestita modestamente con una semplice gonna, una camicetta priva di orpelli e scarpette senza tacchi.
Le sorrisi, e mi accorsi con grande compiacimento che anche lei mi sorrideva.
“Il mio occhio e il mio cuore sono in guerra mortale su come spartirsi le spoglie della tua visione”
cominciai a declamare, ricordandomi di un sonetto di Shakespeare: com’è utile a volte studiare le lingue straniere!
Ma ben presto la poesia cedette il passo alla prosa, e quindi:
“Bene, bellezza, bella come una rosa, ti posso accompagnare da qualche parte? E’ quasi mezzogiorno, potremmo andare a bere qualcosa…o fare due passi, anche se fa caldo”
“Ok, ma prima debbo fare delle compere” mi rispose, parlando inglese con uno strano accento che mi fece capire che veniva dall’Europa dell’Est.
“Sono ungherese”, precisò.
Firenze, come ho detto prima, era piena di vetrine scintillanti. Piena di turisti che compravano ogni ben di Dio, roba di lusso, scarpe, abiti, cappotti, pellicce, borse…ma la mia giovane amica veniva dall’Ungheria, da un Paese povero e schiacciato da un regime totalitario, e quindi non era in grado di comprare né scarpe né abiti né cappotti….dovette limitarsi a comprare cose più modeste prima di ripartire quella sera stessa, detersivi e spazzole per pulire casa sua in Ungheria, né più né meno!
Ero commosso, turbato dalla sua povertà, ma era così bella e io così eccitato…in breve, visto che non eravamo lontani dall’appartamento che mi ospitava quando ero a Firenze, le proposi di salire su….”giusto per riposarci un po’”.
Il suo modo di fare sembrava passivo, si affidava completamente alle mie proposte e alle mie decisioni, per cui pregustavo, anche se con un po’ di imbarazzo, il piacere di una facile conquista, e cominciai ad accarezzarla e a baciarla, in una parola a fare un petting sempre più spinto, quando improvvisamente si mise a piangere.
E’ passato tanto tempo da allora, ho amato tante donne, ma ho ancora in mente quella ragazza ungherese: ero giovane e focoso ma sapevo già che se una donna dice no bisogna rispettare la sua decisione, e così, avendo capito che non fingeva ma che non voleva proprio fare l’amore con me, cercai di rassicurarla e le permisi di andarsene.
Non so cosa accadde in realtà: un trauma infantile che le rendeva difficile fare l’amore? Il mio approccio troppo sbrigativo l’aveva fatta sentire come una puttana? Si era spaventata, pensando che volessi violentarla? O dopotutto, più semplicemente, non le piacevo abbastanza? Mi aveva visto come una sorta di predone capitalista? O il nostro incontro era stato una metafora della lotta di classe?
Non ci capii nulla, e ora posso dire soltanto, come Adso nel romanzo di Umberto Eco, Il nome della rosa: non seppi mai il suo nome.