Quale linguaggio possiamo usare per comunicare ad altri (uomini)?
di Federico Battistutta*
- La pratica del partire da sé
E’, secondo me, il punto di partenza. Trovo però che non sia così semplice e immediato familiarizzare altri a tale modalità comunicativa. Per cultura, educazione e altro ancora siamo portati a generalizzare, assolutizzare, rendendo anonimo e impersonale il nostro discorso (“si dice”, “si fa”, “tutti dicono”, “tutti fanno” ecc.).
La scommessa risiede forse nell’iniziare a trasmettere il potenziale ‘catartico’ custodito in tale pratica, per quanto inizialmente si possa incontrare difficoltà. E’ davvero una grande liberazione scoprire che non ho niente da dimostare, da affermare, ma semplicemente racconto la mia esperienza e chiedo di essere ascoltato. Nulla di più (ma è tantissimo).
- Partire da sé
Provo a chiarirmi le idee: io parto da me perché è ciò di cui faccio esperienza diretta. Io parto da me perché è ciò che conosco meglio (o così almeno credo…).
Io sono un essere umano ricco di bisogni e fra questi c’è proprio il bisogno di essere ascoltato, di condividere con qualcuno la mia esperienza. Chiedo di essere ascoltato.
Io parto da me ma non mi fermo a me. Sono consapevole che la mia singolarità è immersa in una vasta molteplicità di cui stento a conoscere i confini.
Io esisto dentro una rete di relazioni da cui sono attraversato. Di più: io sono, in buona parte, il prodotto e l’elaborazione di questa molteplice rete di relazioni.
Ho detto poco sopra che io sono ciò che credo di conoscere meglio. Ma non basta: io sento la necessità di dar voce anche a ciò che non conosco di me, cioè al mio inconscio, per dare così voce a qualcosa che conosco poco o pochissimo (o che temo di conoscere ecc.): desidero far parlare il mio desiderio, ma anche le mie ombre, le parti oscure (dire qui la difficoltà è dire solo la verità!).
Un’altra questione in cui m’imbatto: sento il bisogno di non mentalizzare troppo, ma di esprimere ciò che il mio corpo sente, le emozioni che lo agitano, le paure e/o le gioie che via via si somatizzano, tuttavia non voglio divenire preda delle sensazioni e delle emozioni. Il mio pensiero sa tacere, ascolta, lascia affiorare quel groviglio che preme e lo traduce in pensieri e parole, il più possibile rispettosi dell’altro. (E’ così, ma non è sempre così facile).
- Partire da sé ma non fermarsi a sé
L’ho già detto: ho bisogno di comunicare con altri. Ma ho anche il bisogno di ascoltarli, sentire quello che hanno da dire su di me e sulla loro esperienza.
L’ascolto non avviene solo con le orecchie, ma attraverso la capacità (ma ne sono poi davvero capace?) di porre tra parentesi i miei punti di riferimento per mettermi in ascolto dell’esperienza altrui (ma sono davvero capace di questa empatia?).
Qui sento che è in gioco, con forza, la componente dialogica della comunicazione. La cultura e l’educazione in cui ho vissuto mi hanno abituato alla competizione e all’agonismo[1]; così è anche nella comunicazione che spesso diviene un corpo a corpo dialettico in cui uno dei due interlocutori deve prevalere sull’altro, per metterlo in difficoltà, in contraddizione, lasciandolo senza parole. No, è possibile educarci a un altro modo di comunicare? Io ho le mie ragioni, ma anche l’altro ha le sue: quando parliamo di vissuti non possiamo accampare una qualche oggettività del discorso. So che dire così, con le parole, è semplice: ma cosa faccio quando la mia esperienza entra in conflitto, in serio conflitto, con quella di un altro al punto di sentirmi ferito?
Non solo: mi sembra di comprendere che, in realtà, il dialogo è interminabile, non finisce mai, nessuno può scrivere la parola fine. Possiamo, previo accordo, sospenderlo o concluderlo, per riprenderlo magari successivamente, arricchiti da nuove esperienze o da nuovi apporti.
- Quale linguaggio usare allora per comunicare ad altri (uomini)?
Dunque: invito al racconto dell’esperienza diretta, all’ascolto dell’altro e di sé, all’empatia, al dialogo; questi mi sembrano ingredienti importanti del linguaggio a cui possiamo ricorrere per comunicare ad altri (uomini) la nostra pratica di liberazione. Chiamando le cose con il loro nome, ricorrendo al linguaggio corrente, quotidiano, non certo a un idioma speciale o specialistico, ancor meno al ‘politicamente corretto’, ricordandoci che accanto alla comunicazione verbale c’è tutto il linguaggio non verbale.
Consapevoli, infine, che non si tratta di ricette ma attrezzi da imparare ad usare, un po’ alla volta, aiutati e aiutando (o “camminare domandando”, come dicono gli zapatisti).
[1] Pensavo recentemente alla competitività e all’agonismo racchiusi nel gioco (infantile e adolescenziale) e come, a suo tempo, questi fattori mi abbiamo personalmente allontanato dalla pratica di uno sport, nonostante provassi interesse e passione. Se pensiamo al valore formativo che riveste il gioco, per noi umani (come per tutti i mammiferi) come preparazione alla vita adulta, il cerchio tristemente si chiude…
* Questo testo è stato scritto in vista dell’incontro del 5 maggio, a Triuggio (MB), tra alcuni gruppi di condivisione maschili, come contributo a una discussione in cui si era scelto di focalizzarsi sul tema del linguaggio