Io vengo dopo
Cronistoria di un uomo come tanti
di Alessandro Marcellini
Io vengo dopo gli anni 60, dopo l’abolizione del delitto d’onore, dopo l’apertura alle donne della carriera di magistrato.
Sono un bambino che gioca con i lego quando vengono vinte le battaglie civili per il divorzio e per la legalizzazione dell’aborto e mentre nelle piazze italiane si scandisce “il corpo è mio e lo gestisco io”, io guardo carosello alla TV, ancora in bianco e nero.
Nasco nel 72, nel post boom economico nell’età del consumismo felice, dove l’abbondanza del presente si sposa, ancora, con la fiducia nel futuro, nel “sol dell’avvenire”.
Io vengo dopo, o almeno così credo, quando tutte le battaglie sembrano essere già state combattute, quando tutti i diritti sembrano ormai acquisiti, quando in piazza si scende, ormai, solo per fare shopping.
Io vengo dopo e quindi posso vivere sereno e spensierato.
Io vengo dopo… Eppure… Eppure ci sono fatti, situazioni, comportamenti che non passano e che, anzi, con il passare del tempo e con l’allontanarsi di quell’età di liberazione sembrano acquisire sempre maggior vigore.
Io vengo dopo, è vero, ma rimango uno dei bambini descritti da Elena Gianini Belotti: cresciuto per essere forte, un piccolo guerriero che non piange, che se afferma il proprio essere a discapito degli altri viene rimproverato con le parole ma non con lo sguardo. «È un bambino vivace…».
Sono un adolescente quando la libertà sessuale è ormai un fatto acquisito. Questo vento di libertà, tuttavia, oltre ad allontanare la fredda mano della legge dal corpo della donna, finisce anche per gonfiare le vele del commercio: il corpo della donna diventa così sempre di più uno strumento del marketing, l’esaltatore di sapidità nella ricetta del consumo. Man mano che la vecchia morale cede il passo ciò che avanza non è solo una nuova morale, più giusta e meno discriminatoria e violenta della precedente, ma anche l’uso amorale del corpo della donna e di tutto il carico di significati profondi che agli occhi di uomini e donne esso inevitabilmente racchiude.
Io sono in mezzo a questo mutamento di paradigma: lo vivo sulla mia carne, con il divorzio dei miei genitori e nella mia sessualità, conoscendo il sesso sulla la carta patinata di un rivista prima che nello sguardo e nel corpo di una donna. Vi sono in mezzo, è vero, ma senza alcuna consapevolezza di quanti sforzi sia costata questa liberazione e, soprattutto, di cosa fosse il mondo contro cui quelle donne si ribellavano e si ribellano.
Vivo all’interno della gabbia comportamentale in cui sono cresciuto: uno spazio angusto, ma vi sono così assuefatto da confonderne le sbarre con lo sfondo, con il paesaggio.
Come uno qualsiasi di quei bimbi di cui parla la Belotti, non sono consapevole di muovermi all’interno di una rete di binari stabiliti, mi sento libero. Così, insieme alle mie compagne di strada, finisco per trasmettere, più o meno consapevolmente, a chi mi sta vicino gli stereotipi in cui sono e siamo immersi, contribuendo a rafforzarli e a rafforzare l’idea che quei modi di essere siano “naturali”. È naturale che un uomo “guidi”, è naturale che una donna sia “emotiva”, ecc.
Vivo una strana, affollata solitudine: degli argomenti legati al sesso parlo con gli amici attraverso frasi fatte, quasi come in un rituale. So che, per chi non lo rispetta, la pena è una soltanto: «Frocio!».
Io vengo dopo la costituzione repubblicana, vivo in paese libero, eppure ho la sensazione di non poter chiedere consiglio agli amici: della serie «Non aiutatelo: deve farcela da solo!». Come se, tra noi uomini, ci fosse sempre, sullo sfondo, un agonismo strisciante, una specie di gara sempre in corso.
Così vivo, “io che vengo dopo”, uomo libero, civile e occidentale, come un inconsapevole attore della Commedia dell’Arte: seguendo un canovaccio dove è indicato chi siano e come debbano comportarsi gli uomini e le donne in questa messa in scena che ha il mondo come palcoscenico.
Ma per quanto io venga dopo la liberazione sessuale, per quanto capisca, finalmente, almeno per sommi capi, come dovrei essere, il mio essere è ormai formato in quello stampo. Esplorare queste possibilità di liberazione, questa terra contesa che sta tra il proprio io e la somma dei suoi condizionamenti passati, non so se potrà rendermi più libero o più infelice. Sicuramente mi renderà più cosciente di quello che sono.
A ben guardare quelle immagini d’archivio, poi, noto che a scandire in strada “il corpo è mio e lo gestisco io” erano soprattutto donne. E gli uomini?
Mi accorgo di non avere alle spalle un percorso di autodeterminazione. Forse anche perché, effettivamente, l’uomo non aveva, non ha e non ammetterà di avere, l’aspetto di una “vittima” di discriminazione, sembra anzi piuttosto libero…
Le sue catene, se di catene si può parlare in questo caso, sono di natura in parte diversa rispetto a quelle che legavano la donna alla casa, all’ignoranza e alle attività di cura. Hanno più a che fare con i “criteri” in base ai quali un individuo ottiene di far parte di un gruppo. Il rispetto di quei “criteri”, che si concretizza in comportamenti, pensieri e linguaggio, comporta l’inclusione nel gruppo dei propri simili, la loro violazione l’esclusione.
Io non sono un sociologo, né ho studiato a sufficienza questa delicata materia per essere in grado di esprimere giudizi o delineare leggi generali, osservo tuttavia che uno dei verbi che descrive l’atto sessuale se il soggetto della frase è un uomo è “possedere”. Ora: e se io non volessi “possedere” una donna? Rischierei forse di non essere più uomo?
Agli occhi dei miei simili diventerei… “frocio”?
grazie alessandro, io nasco prima, vivo in una casa e in una società violenta, manesca, oppressiva e ossessiva ben visibile anche agli occhi di una bambina. durante l’adolescenza le femministe rivoluzionarie le ho amate subito, gli ambienti di sinistra li ho frequentati, all’università ci sono andata, ma cosa vedevo? mi sono illusa che ci fosse stato un vero cambiamento di mentalità e che ambienti “liberati” esistessero davvero, ma nella quotidianità, nel corso della mia vita, solo una cosa ho con costanza sempre avvertito e vissuto, potrei dire ovunque: la violenza sulle donne è radicata all’interno, nel profondo, dell’animo di uomini soprattutto ma anche di donne. le difficoltà emotive, le paure interiori, i falsi miti sono ancora i PADRONI del nostro modo di essere. il femminismo ha puntato l’accento sulla sessualità agita dagli uomini come possesso del corpo, ma il possesso è agito poi in tutte le altre modalità delle relazioni.
a oggi posso solo recuperare razionalmente che qualcosa avviene dentro ciascuno di noi molto prima di diventare adulti, il profondo di ciascuno si forma da piccoli, e da adulti ci idealizziamo come “liberati”. in tante e troppe occasioni ho continuato negli anni a vedere, vivere la disumanizzazione delle relazioni. credo che un cambiamento, un recupero sano e rispettoso della vita di tutti, possa avvenire solo pagando il prezzo di quanto come collettività agiamo il meccanismo della continuità/ripetizione della paura di essere diversi, del controllo sull’altro, del disconoscimento dell’altro. un regalo all’umanità sarebbe fermarsi e parlarsi del nostro “dentro”?!