Il tempo della clessidra. Riflessioni sulla vita e sulla morte
di Giancarlo Viganò
“Un altro giorno è andato e la sua musica è finita” cantava Guccini. Ogni sera – quando mi sdraio nel letto a prender sonno e considero che un’altra giornata è finita nonostante mi sembri di essermi appena alzato – mi prende una leggera angoscia, quasi sentissi che il tempo della giornata non ha portato nulla di importante e risolutivo nella mia vita, nulla che appaia come una svolta, una novità, qualcosa che mi sorprenda, che mi lasci dentro quella sensazione di scoperta, di fantasia e di avventura come sentivo da bambino per ogni avvenimento mai sperimentato prima. Poi guardo al passato e mi accorgo di avere comunque realizzato mille e mille cose, di essere cambiato negli ultimi anni e di continuare a cambiare, anche se mi viene spontaneo il rammarico di quello che avrei potuto fare e non ho fatto e mi sento fortemente incompleto. Ma non provo più quella sensazione del divenire illimitato, della scoperta continua. Affinamenti sì, cesellamenti sì. E’ come se capissi che la mia condizione – a sessantaquattro anni – è quella di uno scultore che ha già sgrossato il masso di marmo, gli ha dato una forma, forse l’unica che, inconsciamente, poteva realizzare ed ora la perfeziona, la liscia, ritocca le curve, gli dà anima. Ma quel mio masso di marmo, quella mia opera non sarà mai finita, non troverà perfezione. Ma sono contento di lavorarci, mi dà senso e giustificazione.
Guardo il cielo limpido di notte e vedo buio e stelle. Prendo un cannocchiale e mi sorprendo con altre stelle che non vedevo e penso che quel buio si sussegue all’infinito senza soluzione di continuità di tempo e spazio. C’è sempre stato e sempre ci sarà. Mi sento piccolo, infinitesimale, significativo quanto un granello di polvere. Eppure, eppure…
Non credo in un Dio ma se ci credessi, e talvolta ci credo ma nel mio senso, avrebbe il respiro di quell’immensità e infinitezza. Ecco, un Respiro infinito che si chiama Dio. Non penso che la sensazione sia diversa da quella dei credenti ma non sento il bisogno di raffigurarmelo. Se prego guardo il cielo, il mare, il silenzio, il vuoto e il suo spavento.
Mi sembra di non aver paura della morte, del mio morire, mi sento plasmato del destino di noi esseri viventi, è così, è sempre stato così, sarà sempre così. Considero un miracolo quotidiano che il mio cuore non si stanchi mai di battere… Non che io desideri morire: sto bene, ho salute, ho desideri – seppure meno intensi, di colori diversi e più vegetali, ho voglia di vedere i ragazzi crescere, attraversare quello che io ho già attraversato. Rispecchiare il mio passato nei loro desideri. Fino a che si potrà. Penso ai miei morti e di loro porto traccia in me stesso: per quello che mi hanno lasciato in ogni senso, per quello che sono stati e anche qualcosa di quelli che non conosco, di coloro che hanno realizzato case antiche, strade, quello che mi circonda. Talvolta mi sforzo di immaginarmi il contadino che ha costruito un muro a secco, il muratore che ha eretto il muro di una cattedrale, i cacciatori che sono passati mille volte da quel sentiero nel bosco che percorro. Quando vedo una lapide con i caduti di guerra mi soffermo a leggere i loro nomi affinché vengano ricordati e pronunciati, affinché in qualche maniera abbiano ancora vita.
La mia morte arriverà comunque sufficientemente in ritardo: mi ha lasciato il tempo di sperimentare quasi tutto di una vita, molto, non potrei dire che non ho vissuto. La mia opera l’ho sgrossata a sufficienza, spero di affinarla.
La mia morte porterà via con sé i pensieri, le cose, le abitudini, gli affetti tutto quello che pensavo mio ma che era ed è solo in prestito. E’ un escamotage della vita farti credere di possederla altrimenti sarebbe invivibile. La vita è nostra e nello stesso tempo non è nostra, è della vita stessa, del suo circuito, della sua incredibile significanza o insignificanza, del suo senso o del suo non senso. Ad ognuno la sua risposta, tanto la questione non cambia, rimane irrisolta.
Sorrido, e lo abbraccerei, alle parole del mio amico: “ la morte è una cosa seria…” soprattutto per l’aggettivo “seria”. Il pensiero conseguente è che è la Vita ad essere una cosa seria, il nostro respirare, il nostro esserci è un fatto tremendamente serio e vero. Tanto per noi quanto per una formica. Vita e morte sono complementari.
Dunque vivere, sempre vivere, continuare a vivere. Il tempo si stringe, si assottiglia come si riducono le possibilità di nuove esperienze ma non penso che possiamo mai considerarci al tempo dell’ultima chiamata, perché il senso dell’ultima chiamata implica un senso di un’ultima risposta, una finitezza ed una completezza che penso non ci appartenga. Né ora, né mai. E non è, a mio avviso, cosa da poco, è un accettare la nostra precarietà e imperfezione. Il mio non è un pensiero cattolico, non devo presentarmi a qualcuno pulito e puro per sedermi tra i giusti nell’aldilà, per un premio. Questo premio vorrei averlo hic et nunc, mentre respiro, se sono capace di meritarmelo, cioè se sono capace di avere una qualche coerenza con i valori morali che mi sono costruito e mi formano. Qualcuno mi fa notare che scrivo (e aggiungerei sento) con stili diversi, a secondo che domini nella scrittura e nel pensiero talvolta l’emozione, talvolta la ragione. È vero. Sono una contraddizione e non riuscirei ad essere altro. Riuscire a evidenziarlo mi lascia soddisfatto.
Mi interessa vivere ancora, bene, un bel po’. Certo la lunghezza della vita è effimera, sessanta o cento anni di fronte all’eternità hanno poco peso ed anche questa riflessione può aiutare. Questa quantità di tempo è personale e relativa e dunque mi allineo al pensiero dell’altro amico nel dire che questo tempo sarà stato sufficiente se saremo riusciti a passare il testimone della nostra esperienza al corridore che continuerà questa corsa di vita senza fine. Se, ovviamente, si crede che la vita sia molto di più di noi, come singoli individui.