UN NUOVO AMICO
di Mario Simoncini
Una volta i preti me li mangiavo. Ne ricordo alcuni in particolare, belli grassi, teneri, succosi, ottimi da cuocere nel forno con le patate, oppure stufati.
Poi ho smesso.
Anni fa ho conosciuto don Enzo Mazzi, che purtroppo non c’è più, parroco della comunità di base dell’Isolotto, un quartiere di Firenze: era un prete operaio in rotta col suo vescovo per le sue posizioni e il suo stile anticonformista, amatissimo dai suoi parrocchiani. Gli feci un’intervista e mi accorsi che era né più né meno che un comunista di quelli tostissimi, e dunque coriaceo, difficile da masticare e tanto meno da digerire. E poi erano loro, i comunisti, quelli che mangiavano i bambini, altro che essere mangiati!
Altri preti li ho conosciuti in Costa d’Avorio, dove ho soggiornato per un po’, preti che si sbattevano alla ricerca di un equilibrio possibile tra le ragioni del cattolicesimo e la realtà di culture diverse che accoglievano al loro interno animismo, superstizioni, poligamia, preti che non perdevano mai di vista il richiamo della carità. Preti italiani che erano stati costretti, giocoforza, ad abbandonare le rigidità della dottrina e a operare con uno spirito di comprensione che magari nel nostro Paese avevano faticato a manifestare. I preti africani erano invece – paradossalmente – più rigidi di loro e molto meno propensi a mediare e a tollerare. Là ho conosciuto anche una suora, e con lei ho visitato un carcere, un minuscolo appezzamento di terra con pochi alberelli spogli e uno stanzone buio che ospitava più di un centinaio di disgraziati, luogo di orrori che rinnegavano l’umanità…o forse ne esasperavano gli aspetti peggiori.
Ma veniamo all’oggi. Da qualche tempo ho incontrato per caso un giovane prete modenese, che chiamerò col nome di don Lorenzo (anche se non è il suo vero nome), con cui stiamo diventando amici. E’ alla guida di una parrocchia del centro storico e ogni giorno ospita a casa sua, alla sua tavola, non meno di dieci-dodici persone, a volte anche diciotto-venti. Sono donne e uomini, quasi tutti stranieri, che per la gran parte non hanno né casa né lavoro, vivono non si sa bene come, dormono nei parchi cittadini d’estate o appoggiati ai soffioni d’aria calda dei centri commerciali o delle multisale quando comincia a fare freddo. Alcuni riescono a infilarsi in un appartamento della parrocchia, nello stesso palazzo della canonica, pochi però, perché non c’è molto spazio.
Insomma, sono i dannati della terra, gli ultimi.
La prima volta che ero stato a pranzo da lui, insieme agli altri, don Lorenzo mi ha chiesto se fossi stato bene, se per caso avessi provato disagio per la presenza di questi ospiti così lontani da me. A volte sono i penultimi a farmi schifo, gli ho risposto, mai gli ultimi.
Quello che mi piace di don Lorenzo è la sua umiltà: lui non recita da prete, non fa prediche, non giudica, non ha atteggiamenti di riprovazione. Anzi no, ce li ha questi atteggiamenti, verso quel reazionario di Caffarra per esempio, l’ex arcivescovo di Bologna, o verso Bertone e il suo attico di 700 mq. Quanto a me, mi accetta come sono, con tutti i miei “peccati”, e anzi sembra quasi invidiarmi gli anni che ho più di lui, anni di esperienze in più se non di saggezza. E poi c’è la sua capacità di accoglienza che si coniuga con uno spirito pragmatico, imbevuto di realismo. Non si fa illusioni, don Lorenzo, sa che non viviamo in un mondo perfetto e neppure in un cartone di Walt Disney, sa che gli ultimi, quelli che lottano per spartirsi quelle poche risorse che la vita gli mette sotto il naso, sono spesso cattivi. Cattivi perché costretti dal freddo, dalla fame, dalla miseria. Cattivi perché difendono quel poco che sono riusciti ad accaparrarsi. E però sono esseri umani e hanno in sé anche altro, hanno nobiltà, grandezza, intelligenza. E in concreto capacità di accettare e darsi delle regole, quelle poche indispensabili regole che don Lorenzo ha proposto e negoziato e che cerca di applicare come barriera contro il caos. Regole che funzionano, per quello che ho visto, tanto da fare dei nostri pranzi un momento di convivialità. E’ importante condividere il cibo, simbolicamente affascinante, anche se poi, finito il pranzo, io me ne torno alle mie tranquille occupazioni e loro vanno in giro a mordere a sangue la vita.
Don Lorenzo, nonostante tutto, si sente spesso inadeguato, si lamenta di non riuscire a fare abbastanza, nonostante sia una specie di vulcano di progetti e di iniziative: se fosse un altro penserei che se la tira, che vuol giocare a tutti i costi a fare il santo benefattore, l’eroe della carità, ma il fatto è che lui, non solo per gli obblighi del mestiere ma per profonda convinzione, applica il Vangelo, né più né meno, e il Vangelo propone modelli alti, forse troppo alti per noi umani. Primo fra tutti il protagonista della narrazione, quel Gesù che non sappiamo se sia esistito per davvero o se non sia un personaggio inventato di sana pianta. Quanto all’essere figlio di Dio, poi…chissà se don Lorenzo ci crede per davvero, non gliel’ho ancora chiesto, non ci conosciamo abbastanza, e chissà se ci credo io, e che cosa vuol dire credere
E quanto all’inadeguatezza, che dovrei dire io allora? Io davvero inadeguato, io che sono sì disponibile a fare cose per gli altri ma non sempre a farle con gli altri? Insomma, mi sta mettendo un pochino in crisi questo rapporto, come succede con tutti i rapporti importanti, quelli che scardinano le false certezze stratificate nel tempo, che ti costringono a guardare la realtà con occhi diversi, ad abbandonare almeno in parte le tue abitudini, le tue rigidità.
Ne scrivo adesso, all’inizio di questo cammino di insolita amicizia, quando la strada è ancora aperta e offre molteplici sbocchi e non si sa dove porta. Non si sa per niente dove porta, e questo è il suo bello.