I quaderni del Venerdì #32
Sul conflitto
di Giancarlo Viganò
Se mi guardo allo specchio vedo un volto segnato, e non sono solo rughe. Immagino il rotolo del tempo che si svolge nella memoria e penso a quanti sforzi sono stati necessari per costruire quelle pieghe, le visibili e le invisibili, quelle trame dai fili così numerosi da tessere la rete che mi avvolge e mi da tono e forza, che infine scrive il mio nome. Non è stato facile e non lo è tutt’ora andare d’accordo con me stesso; quante lotte ho affrontato: contraddizioni, chiusure, violenze, compromessi, dignità perdute ma anche aperture, scoperte, riconoscimenti. Quante buone opportunità ho lucidamente rifiutato, quante altre meno buone ho seguito senza neanche pensarci, d’istinto. Quanti conflitti! Nel lungo periodo intendo – perché nel breve piccoli gorghi possono ingannare la percezione della direzione della corrente del fiume – e mi piace pensare di aver sì faticato ma che, infine, qualche risultato sia arrivato: il riuscire a guardarmi allo specchio sorridendomi con benevola sufficienza, come dire: vabbè, questo sei e non di più, ma ti sei sforzato, hai messo del tuo.
Oggi ho ben chiari errori passati e pur non rinnegandoli, li riconosco. Avessi tentato, rischiato…sarei…ma sono.
Non mi sono mancati i conflitti, nell’amore, nell’amicizia, nel lavoro, nel pensiero e tutte quelle tensioni, quelle tempeste, si sono sciolte nel tempo lasciando un sedimento che ha scavato il mio tempo rugoso, che talvolta mi affatica il respiro e copre il cristallino dell’aria e quando si alza quella bruma faticosa che sovente avvolge l’anima, allontanata da una favorevole brezza di risveglio dei sensi e del buon umore, seppur temporanea, l’intorno ha i colori della riscoperta, magico di trasparenza e meraviglia. Tutte le cose sono al loro posto, una pienezza di forme, rumori, sentimenti. Mi sento in pace col mondo.
Con l’amore ho sempre fatto a baci e pugni, ho richiesto e dato. Il richiedere e il dare troppo spesso hanno parlato lingue diverse, io chiedevo al mattino in inglese e mi rispondevano al pomeriggio in francese, io chiedevo il rosso d’estate e mi porgevano il bianco a Natale, mi chiedevano un verde immediato e io offrivo il nero verso sera. Io dicevo IO e altri rispondevano IO, una confusione di IO solitari con tendenze di prevaricazione.
Dell’amicizia ho imparato a farne a meno, pur sempre cercandola, nel senso che quando c’è la colgo a piene mani e quando non c’è, quando tradisce o viene tradita, mi siedo ed aspetto che ripassi. Talvolta mi sono sentito rinnegato senza che fossi riuscito a capirne il motivo, ma forse ero io incapace di capire il motivo degli altri.
Penso di aver toccato il punto: tentare di capire il motivo del perché si confligga, cercare d’interpretare quell’armonia distonica derivante dal flusso di pensieri di anime ed esperienze diverse dalla propria e da sensibilità con onde di tolleranza più o meno accentuate Può accadere che mi senta profondamente empatico con un’altra persona, che percepisca sincero il suo modo di essere, come pure che mi senta profondamente a disagio perché, al contrario, mi comunica falsità. Allora mi irrigidisco e lo rigetto. Con l’età ho imparato a darmi il tempo dell’ascolto, del cercare di capire. Talvolta capisco e mi avvicino, ma anche più spesso dico un no pacato, tranquillo, senza sorriso e in pace con me stesso.
Il conflitto, da quello che ho capito, mi pare possa anche essere un ascolto, un ritardo nella chiusura delle tende della mente che non vorrebbero accogliere altra luce se non quella già presente, quella conosciuta, la propria.
E allora ringrazio quell’ascolto del conflitto: se sono un uomo migliore di prima, lo devo a lui.
Ho ricevuto un commento a queste mie riflessioni: sembrano quelle di un maestro zen che ha trovato la pace e che nulla scalfisce più. Mi sono spaventato e ho pensato: cosa diavolo ho scritto?
Ma che caspita! Basta! Io odio il conflitto, mi fa star male oggi come allora, mi lascia un senso violento di frustrazione, di vuoto, di acrimonia e il desiderio sia di attaccare il mio antagonista con l’arma delle mie ragioni che di difendermi da quelle altrui protetto dalla mia corazza, di non sottostare, di non accettare quello che non condivido. Talvolta, per altro, condivido pure quello che non mi appartiene, per morale corrente o convenzione, ma non lo accetto veramente perché non collima coi miei desideri. E mi raschiano la memoria i conflitti passati e quelli presenti. Se confliggo sto male ma se non lo faccio, se attendo il momento opportuno, il più favorevole, quello che potrebbe arrecare meno dolore – ad esempio il mattino e non la sera, così si dorme meglio – questo momento non arriva mai e sto peggio, mi sento debole e ho disistima di me stesso. E forse in quanto ho scritto sopra c’è una giustificazione a un senso di vigliaccheria, c’è una confusione circa le ragioni mie e dell’altra/o, insomma c’è un non star bene.
Mi colpisce quello che ho scritto, che mi è uscito spontaneamente sull’amicizia: “dell’amicizia ho imparato a farne a meno, pur sempre cercandola…” Leggendo Raimon Panikkar, La confidenza, analisi di un sentimento (Jaca Book 2013), mi sorprende quanto mi sia mancato questo sentimento nelle mie relazioni. Scrive Panikkar: “… mi accorgo che una persona mi capisce perché accanto a lei capisco meglio me stesso. Sento che non solo l’onda principale, ma anche le innumerevoli radiazioni, consapevoli e inconsapevoli, che scaturiscono da me sono recepite.” “È indiscutibile che, in questo riflesso di se stesso in un altro, intervenga la personalità del prossimo quanto la propria. Sta in questo l’estrema delicatezza della vera confidenza. Appena il tu della mia confidenza diventa un io, appena cessa di ascoltare o rispondere, ecco che la confidenza si frantuma“.
Sono una persona in difficoltà nel concedere confidenza, che è restia ad aprirsi, che è in difesa. Sono bravo ad ascoltare, mi sforzo di farlo senza giudizio – e ahimè quanto è difficile! -. Insomma Panikkar mi mette in crisi. Certo è che in assenza di Confidenza, Conflitto aspetta dietro l’angolo, pronto ad eccitare i contendenti.
Dunque detesto il conflitto e forse, la frase di Confucio: “Siediti lungo la riva del fiume e aspetta: prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico” (Confucio 551 a. C.) ha la sua importanza, a patto di interpretare “il cadavere del nemico” come la nostra parte irosa, che non ascolta, che vede solo se stessa, che non è accogliente e generosa e quindi, se mai una velata saggezza ci prendesse per mano e per cuore, potremmo vedere scorrere via, diventata “cadavere”, quella nostra parte pugnace e violenta, lasciandoci più liberi, forse più veri. E rifacendomi alla mia prima conclusione ”ringrazio quell’ascolto del conflitto, se sono un uomo migliore di prima, lo devo a lui” la correggo con formula più umana: “forse, pur non desiderando il dolore del conflitto ma costretto ad incontrarlo, ad attraversarlo, a venirne a patti, sono cresciuto come uomo”.