Io non so cosa vuol dire
di Gigi Apollonio
Io non so cosa vuol dire essere donna. Probabilmente non so neanche cosa voglia dire essere uomo, un uomo con una famiglia, una moglie, mille problemi e mille difficoltà.
Ho 33 anni, dottorato da poco, sostanzialmente un ragazzo. E se non so cosa vuol dire essere uomo, ancora, so però esattamente cosa non voglio essere. Perché l’individuo è costituito per una buona parte dai vincoli e dai valori morali che gli sono inculcati con violenza dalla collettività, dai racconti sulla virilità, dall’educazione familiare, dalla politica e dai sistemi mediatici che riproducono sempre lo stesso prototipo maschile e femminile. Il prototipo dell’uomo pater familias, che deve ottemperare agli obblighi di potere, senza debolezze, senza lacrime, senza emozioni. Un uomo il quale fine ultimo è il lavoro e il soddisfacimento delle prescrizioni sociali che da millenni lo rendono schiavo di se stesso: lavorare, riprodurre, crepare.
“Che uomo sei se non hai una famiglia, che uomo sei se piangi, che uomo sei se non riesci a relegare la tua donna al rango di accessorio riproduttivo, senza troppi fronzoli, senza troppe libertà”. Esattamente, questa è la domanda, che uomo sei se fai tutto ciò? Non sei un uomo. La violenza sulla donna non ha solo il carattere della violenza fisica o della violenza psicologica. L’esercizio della violenza passa anche attraverso la repressione della condivisione delle proprie debolezze, delle proprie difficoltà, delle proprie frustrazioni. In quest’epoca in cui il lavoro è divenuto il più grande generatore di ansie, paure e frustrazioni, il paradigma della virilità non conosce altra forma di difesa che non sia, nel profondo, violenta.
Allora io vorrei dire delle semplici cose sia alla collettività, sia agli uomini.
Alla collettività perché la responsabilità delle violenze sulle donne non è solo individuale ma è frutto di un insieme fattori, anche piccoli, che si sedimentano nelle pratiche. Immaginare che una donna non possa essere libera di entrare in un bar da sola, o che non possa uscire con le amiche, e chiedersi “Ma dov’è il suo uomo? Ma davvero le lascia fare queste cose?” pensare che una donna che ha dei figli e che decide di lavorare non è una buona moglie che non ha cura della propria casa, e scaricare sul compagno, sul marito delle assurde colpe di tali libertà è un comportamento violento, è l’anticamera pubblica della violenza privata.
E poi un consiglio a tutti gli uomini, che valga anche da impegno e promessa per me stesso. Voi siete solo delle vittime, vittime di voi stessi e del sistema che vi ha cresciuto a sua immagine e somiglianza. E se credete che alzando le mani sulla vostra compagna o se credete che liberando i vostri istinti sessuali possa servire ad appagarvi, a liberarvi e sentirvi migliori, vi state sbagliando. Provate invece a lasciarvi andare, provate a dire: “Amore mio, ho paura. Amore mio, ho fallito. Amore mio non so come faremo ad arrivare a fine mese, come faremo a mandare i bambini a scuola”.
Vi assicuro che sentirete un senso di leggerezza e di appagamento che mai avreste immaginato. E sarete rispettati, amati, curati.
Io sono ancora un ragazzo ma ho capito che a fare l’uomo non ci vuole niente, il difficile è esserlo, uomo.
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