da IL MANIFESTO 23 novembre 2007
Mio padre diceva che, ai tempi, ogni tedesco aveva il suo ebreo, quello buono e bravo che non doveva fare la fine degli altri. Allo stesso modo, ogni uomo ha la sua donna: ma, in questo caso, insieme da proteggere e ammazzare.
In questa costruzione, di cui ampia traccia si trova nelle fattispecie di reato, il conflitto ignorato è quello fondamentale, ossia quello tra gli uomini e le donne. Lo stupro, la violenza contro le donne sono appannaggio degli «altri» (uomini), ciò che legittima «noi» (uomini) a combatterli in nome e per conto delle «nostre» donne. Dopo l’omicidio Reggiani, Roma è tappezzata di manifesti firmati da un gruppo di estrema destra che dice pressappoco così: volete lasciare che le nostre donne, nostra figlia, moglie, sorella facciano la stessa fine? Dobbiamo mandarli via tutti.
Ma se le destre sono esplicite, non per questo sono le sole a pensare queste cose. Tutti i discorsi e le politiche di sicurezza sono ciechi di fronte alla differenza sessuale.
Tutti i discorsi e le politiche di sicurezza ignorano che i «cittadini» di cui si proclama il diritto alla sicurezza, oltre che a venire in tutte le fogge, i colori, le età, sono in primo luogo uomini e donne, e ciò che è «sicuro» per gli uomini può non esserlo affatto per le donne, anzi.
A voler essere conseguenti con le politiche di sicurezza prevalenti, gli uomini dalle città dovremmo cacciarli tutti, solo così avremmo una città davvero sicura per le donne. E comunque la legittimazione di molte guerre (invasioni, colonizzazioni), tra cui le ultime, non è diversa: «noi» (uomini civili) combattiamo contro di «loro» (uomini barbari) per liberare le loro donne (oggi dal burka, ieri dal sati). Così come non c’è niente di nuovo nello stupro «etnico», una delle prerogative dei combattenti essendo sempre stata il possesso e lo stupro delle donne del nemico.
Insomma, come si dovrebbe ben sapere, le donne sono oggetto di violenza in primo luogo da parte dei propri uomini, meglio se conosciuti, anzi intimi; e dentro le sicure mura di casa, più che fuori, in luoghi pubblici e oscuri. I quali, peraltro, sono ancora considerati off limits per le donne, tanto che quando qualcuna ci si avventura non è raro che le venga detto che è colpa sua se le capita qualcosa. A meno che, ovviamente, non sia violentata o ammazzata da qualcuno degli «altri».
Insegno a Perugia, luogo, pare, di perdizione, oggi su tutti i media (per Meredith, non per Aldo Bianzino, arrestato per trenta piantine di canapa indiana e ammazzato in carcere). Ho chiesto ai miei studenti quale, secondo loro, tra l’assassinio di Giovanna Reggiani e quello di Meredith Kercher, fosse il più «comune» (dal punto di vista dei luoghi e del rapporto tra vittima e aggressori). Non solo mi hanno risposto il primo, hanno anche (alcune) detto come si sentano insicure a girare per strada, e una ha detto che era soprattutto per via dei «gruppi di extracomunitari» che stazionano in centro e quando passano le ragazze fischiano e fanno apprezzamenti.
Niente di strano: tutte le ricerche sulla «paura della criminalità» indicano come figure della paura urbana tossici, barboni, «extracomunitari», e certo l’insicurezza ha molto a che fare con la perdita di familiarità di luoghi e tempi. Niente di strano, perché mi ricordo bene quanto mi mettesse a disagio un tempo incontrare gruppi di soldati in libera uscita, passare davanti a muratori in pausa pranzo. Niente di strano, perché le quotidiane inciviltà cui le donne sono soggette per strada (apprezzamenti volgari, mani morte, inseguimenti) ci ribadiscono una sensazione di vulnerabilità profondamente interiorizzata, ci dicono che siamo lì a nostro rischio e pericolo e sarebbe meglio se stessimo a casa. Niente di strano, perché se abbiamo imparato bene o male come gestire i maschi «nostri», non sappiamo invece che cosa dagli «altri» possa essere interpretato come un invito, una sfida, una provocazione. Però, che fatica!
Oggi andiamo e vogliamo andare dappertutto, non accettiamo che a dettare orari e luoghi leciti siano gli uomini. E tutto sommato le statistiche ci danno ragione, veniamo, l’ho già detto, violentate, picchiate, ammazzate in casa piuttosto che fuori. Però, che dispendio di energia è ancora necessario! E quanto ancora subiamo il doppio legame, senza spesso che ce ne rendiamo conto (gli «extracomunitari»…). «Io vado dove voglio e quando voglio», mi diceva una sociologa milanese ad un dibattito. Da sola? Le ho chiesto. Con un uomo, mi ha risposto lei.
La situazione è peggiorata? Mah, finora molto poco si sapeva di ciò che succedeva alle donne a casa loro. Perdipiù, non solo gli uomini, ma anche le donne ritenevano che molto di ciò che ora si chiama violenza di genere, violenza contro le donne (perché non violenza maschile?) fosse legittimo e giustificato. Oggi le donne sopportano meno, le case sono meno impenetrabili. Forse, però, proprio il fatto che le donne sopportino meno, vogliano rispetto e libertà, potrebbe essere uno degli elementi scatenanti la violenza da parte di una mascolinità in crisi verticale, privata dei punti di riferimento tradizionali, incapace di ricostruirsi diversamente.
Di indizi ce ne sono parecchi. Per esempio, la quantità di donne separate perseguitate dagli ex-mariti, amanti, fidanzati. Ma anche certe rivendicazioni (ahimé accolte!) come l’affidamento condiviso dei figli da parte delle associazioni di padri separati: bisognerebbe leggere molte delle relazioni di accompagnamento dei progetti di legge relativi. I padri separati vi riversano un livore malamente mascherato da preoccupazioni per i figli «privati del diritto ai due genitori» e da lamentele sul loro statuto di vittime impotenti delle prevaricazioni di «matrione» arroganti.
Insomma, può darsi che sia vero, che la violenza maschile verso le donne sia in aumento e che così cerchino di farci pagare il di più di libertà acquisito. Del resto, certe leggi parlano un linguaggio non troppo diverso. La legge 40, per esempio, trasuda diffidenza e paura delle donne e oltre che mettere a rischio la loro salute dice che le donne (da sole, se non hanno un maschio accanto) sono una minaccia per a) le cellule fecondate b) i figli in generale.
Dunque, la violenza maschile, le sue forme, la sua consistenza ci parlano di nuovo del conflitto tra gli uomini e le donne, e dei problemi che hanno moltissimi uomini oggi ad affrontare donne libere. Dunque, non è con la sterilizzazione del territorio urbano che vi si può porre rimedio, la cacciata degli «altri» (bensì intenti ad ammazzare prevalentemente le donne loro) e conseguente autoassoluzione dei maschi «nostri» (italiani, di sinistra, mariti, fidanzati, amanti). Certo, se le strade fossero illuminate meglio, le periferie urbane meno degradate staremmo meglio non solo noi, ma tutti. Così come staremmo meglio tutti se le città fossero più vivibili, i luoghi pubblici frequentati, anzi se combattessimo la tendenza alla privatizzazione dei luoghi pubblici, scuole comprese, e venisse adeguatamente agevolato ciò che costituisce il bello delle città, la varietà e la diversità.
Ma la violenza maschile richiede altre misure. La prima è che venga riconosciuta come tale e analizzata dagli uomini, senza alibi e scorciatoie. Del resto, la violenza maschile fa problema non solo per le donne: anche gli uomini ne sono vittime, solo che di solito loro stentano a riconoscerne la natura sessuata.
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