Nov 2007 “24 novembre: e gli uomini che fanno?”
di Beatrice Busi
da QUEER, inserto di Liberazione il – 18 novembre 2007
Marzo 1985. All’università di Roma, in occasione della giornata internazionale della donna, circola un volantino “diverso” dagli altri. E’ scritto da compagni che – per rispondere alle sollecitazioni delle femministe che domandavano: 8 marzo, e gli uomini? – propongono agli uomini di discutere e confrontarsi in assemblea sulla cultura dello stupro.
«La nostra non vuole essere una semplice dimostrazione di solidarietà, ‘appoggio ad una lotta non nostra, che anzi andrebbe contro i nostri diritti acquisiti, che andrebbe a scoprire i nostri scheletri nell’armadio. Se oggi diciamo la nostra non lo facciamo né per buona volontà né per un’adesione tutta ideologica; lo facciamo perché ne sentiamo profondamente il bisogno».
Novembre 2007. In occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, alcuni di quegli uomini tornano a chiedere agli uomini di assumere su di sé la responsabilità e l’impegno per il cambiamento. «Sentiamo il rischio che questa giornata si riduca a un rito pacificatore fine a se stesso, nascondendo la necessità di aprire un conflitto esplicito con luoghi comuni, pregiudizi e culture, complici della violenza o quantomeno suo retroterra naturale».
In vent’anni, un po’ di cose sono cambiate, i gruppi di uomini si sono diffusi su tutto il territorio, ma la questione della violenza contro le donne è rimasta centrale. Il primo è stato quello di Pinerolo, nato all’interno della comunità cristiana di base all’inizio degli anni Novanta. Poi sono venuti il Cerchio degli Uomini di Torino e il gruppo Maschile Plurale di Roma. Ma ci sono anche il Gruppo Uomini di Verona, quello di Viareggio, quello del centro ecumenico Agape, l’Associazione Uomini Casalinghi di Pietrasanta, mentre Maschile Plurale è diventato sia una rete che un’associazione.
Sono gruppi impegnati nella ricostruzione di un’intimità tra uomini e nella sperimentazione di
modelli alternativi di socializzazione maschile a quello competitivo o a quello dell'”orda”. Un lavoro che spesso rimane “invisibile” perchè nei gruppi c’è una certa resistenza a misurarsi con le forme della politica classicamente intese.
Come ci ha spiegato Stefano Ciccone di MaschilePlurale, «si avverte il rischio di una perdita di autenticità e si cerca di non sacrificare il lavoro su di sé all’esigenza di trasformare il mondo». Eppure, le occasioni in cui questo lavoro si è saputo trasformare anche in parola pubblica li hanno premiati. Se il 1999 ha segnato l’inizio di un’interlocuzione diretta tra i gruppi con il convegno organizzato dagli uomini di Pinerolo, il 2006 infatti ha inevitabilmente segnato un ulteriore passaggio di fase.
L’appello “La violenza contro le donne ci riguarda, prendiamo la parola come uomini”, che l’anno scorso ha raccolto centinaia di adesioni e si è trasformato in una partecipatissima assemblea a Roma, ha infatti determinato l’assunzione di un impegno più serrato di tutti non solo nel lavoro collettivo ma anche nel confronto con l'”esterno”. E lo dicono, in particolare, le decine di dibattiti, progetti di formazione e iniziative alle quali sempre iù spesso sono soprattutto le donne ad invitarli a raccontare la loro esperienza.
Oggi, alla vigilia della manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, seguono con molto interesse il dibattito sulle pratiche del corteo, tutto interno ai femminismi. Sentono più vivo che mai il bisogno di una presa di parola che sappia fugare il rischio della “pacificazione” insito nelle scadenze simboliche e sono i primi a riconoscere che si devono fare i conti con una presa di parola maschile di segno opposto. Sandro Bellassai del gruppo Maschile Plurale di Bologna, lo dice chiaramente. «Oggi la visibilità maschile sulle cosiddette questioni di genere è più forte che nel passato.
Sembra quasi che vada di moda. Sono molto frequenti, soprattutto da parte degli uomini pubblici, le prese di posizione ipocrite e opportuniste e le donne hanno ragione a voler mettere un freno a questo tipo di visibilità maschile. Ma si tratta di un problema anche per quegli uomini che lavorano davvero su di sé e con altri per la decostruzione della mascolinità tradizionale».
«C’è di nuovo bisogno di conflitto con la cultura dominante – aggiunge Stefano Ciccone – ma la questione è quale tipo di conflitto. Non posso “fronteggiare” gli altri uomini da uomo dichiarandomi innocente. Al fronteggiamento virile preferisco la sottrazione».
Che è anche un modo per rispondere alle donne che li invitano a misurarsi con il “branco”, piuttosto che avere come interlocutore pubblico privilegiato il femminismo. E c’è un rischio che temono più di altri. Quello del ritorno ad un conflitto contro il patriarcato come se fosse un’entità metastorica. Ovvero, «che si schiacci l’esperienza soggettiva dei singoli uomini su quell’entità, anziché agire gli spazi di libertà aperti dall’esplosione della mascolinità nelle società post-industriali e dalla crisi dell’ordine simbolico patriarcale messo sotto scacco dai movimenti femministi». «E non considerare che le soggettività eccedono quell’ordine simbolico – avverte Stefano -, è come considerare impossibile il movimento e la trasformazione».
Insomma, questo corteo di donne per le donne un po’ li preoccupa e avrebbero preferito che il 24 novembre fosse un’occasione di continuità del lavoro di confronto con i femminismi già avviato.
Chissà, invece, che la separatezza di un giorno nel quale ciascuno e ciascuna può tornare a guardare “dentro” al proprio genere, scelto o imposto che sia, non produca proprio il desiderio di tornare “fuori” con un slancio più forte e più autentico.
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