Pubblicato sul manifesto il 10 gennaio 2017 –
Se non mi sbaglio l’unico maschio di sinistra che ha detto qualcosa a proposito della manifestazione delle donne contro la violenza del 26 novembre scorso è stato Guido Viale. Non concordo con tutte le sue affermazioni, in particolare l’idea che ciò che può unire uomini e donne per “un pezzo di strada” sia una comune reazione ai “ricatti” capitalistici e patriarcali. Certo la trasformazione spesso è prodotta da un negativo a cui ci si ribella. Ma la vera molla dei movimenti femminili e femministi mi sembra essere il desiderio di libertà. Qualcosa di smisuratamente affermativo, positivo. In fondo è stato così anche per i momenti migliori dell’universo maschile, quando è stato detto: “gli ultimi saranno i primi”, oppure: “abbiamo da perdere solo le nostre catene, e un mondo da guadagnare…”.
Viale però ha colto in quel gesto politico femminile qualcosa di fondamentale, molto evidente ma sistematicamente “non visto”, come la lettera rubata di Poe.
Se guardiamo bene vediamo anche che dagli incontri e dalle assemblee che hanno accompagnato quel No alla violenza maschile sono scaturiti numerosi obiettivi di trasformazione politica e sociale (vedi il sito Non una di meno). Un Sì per un altro mondo possibile. Per esempio la rivendicazione di un salario minimo europeo, e di un reddito chiamato non per caso di “autodeterminazione”. Vedendo tante e tanti giovani colti e appassionati alle prese con la mancanza cronica di lavoro stabile le mie vecchie opinioni trentiniane contro ogni forma di salario garantito hanno vacillato. E ho ripensato a un’idea già abbozzata in altre occasioni.
Se alcune delle “emergenze” maggiori oggi sono la condizione giovanile, l’accoglienza e l’integrazione dei migranti, l’assenza di interventi pubblici seri per sostenere la coesione sociale, il degrado del territorio (urbano e no), forse si potrebbero affrontare con un unico disegno, una sorta di patto tra generazioni e tra sessi.
Lo stato assicuri un “reddito di autodeterminazione” a ragazzi e ragazze. Chieda in cambio la partecipazione a un servizio civile di cura che abbia due obiettivi fondamentali: favorire l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri che vengono qui per sopravvivere e per vivere decentemente, e recuperare le aree urbane degradate (paesi disabitati, periferie dimenticate) e i territori a rischio idrogeologico. Le due cose possono essere strettamente connesse, e già avviene nelle esperienze migliori, come a Riace (ne ha parlato sul manifesto Alberto Ziparo).
Un anno di questo impegno può essere anche finalizzato a obiettivi concreti di formazione professionale e di lavoro.
Il servizio civile di cura secondo me dovrebbe essere obbligatorio per gli uomini (come una volta il servizio di leva) e facoltativo per le donne. Sarebbe un riconoscimento simbolico importante da parte maschile, giacchè all’”altra metà del cielo” continua a competere la scelta di metterci tutti al mondo, e comunque non ci sdebiteremo mai del tutto di tutto il lavoro di cura assicurato dalle donne.
Costerebbe troppo? Non lo so, ma direi che sarebbe una spesa necessaria, irrinunciabile, e in prospettiva del tutto ripagata. Queste spese – come propongono alcune economiste – dovrebbero essere considerate a tutti gli effetti “investimenti produttivi”, e non pesare sui bilanci pubblici ai fini del “fiscal compact”.
Mi piacerebbe sapere che ne pensa non solo Guido Viale, con altri maschi di sinistra, ma anche il ministro Marco Minniti (una volta eravamo buoni compagni di partito…)
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