Gen 2012 “Desiderio maschile e patriarcato”
di Gabriele Lenzi
già pubblicato in zeroviolenzadonne
Viviamo circondati da una continua proposta mediatica di modelli di desiderio maschile, in cui sono mostrati sia soggetti che desiderano sia oggetti da desiderare (un presentatore dice a una valletta di voltarsi in modo che lui e il pubblico possano vederle il sedere).
Lorella Zanardo e collaboratori, a partire dal progetto Il corpo delle donne, hanno denunciato l’incessante rappresentazione mediatica italiana di un modello relazionale che prevede per la donna il ruolo di giocattolo erotico da baraccone, oggetto a un tempo di desiderio e di sopruso, e che stabilisce per l’uomo il ruolo complementare di chi ha il desiderio, e il potere, di ottenere/mantenere quella posizione della donna.
Questa propaganda, con una forza educatrice negativa che nei fatti è troppo spesso sottovalutata, impone un modello di realizzazione femminile tutto appiattito su quell’immaginario, ma ha altrettanta presa sul pubblico maschile, a cui quei messaggi, tutti improntati sull’opposizione uomini-donne, si rivolgono con la forza persuasiva del dominio e del desiderio. Per il maschio eterosessuale tutto ciò riguarda, oltre alla sua ideologia e ai rapporti in genere con il femminile, l’erotismo e la sfera affettiva.
I media italiani non hanno certo inventato questo modello di desiderio maschile. I contenuti che propongono fanno presa perché ricalcano vecchi stereotipi. Ma da questa osservazione non si può certo, ingenuamente, ricavare che i ruoli come sono rappresentati siano in qualche modo inscritti nell’essenza dell’uomo e della donna. Un’affermazione banalissima, oggi, che tuttavia ha bisogno di essere detta ancora. Perché alle discussioni, critiche e rivendicazioni femministe è spesso seguito un silenzio sul maschile, come se i risultati di tante scienze e lotte sociali non valessero che per le donne: donne si diventa, ma uomini si nasce? Le donne non sono votate al masochismo, ma gli uomini lo sono al sopruso?
Le rappresentazioni stereotipate del maschile possono far leva sul fatto che noi uomini abbiamo sempre parlato poco di noi, del nostro desiderio, del nostro corpo, e che abbiamo spesso preferito continuare a farci rappresentare così – per comodo per pigrizia o per paura – come marionette, figure tra l’eroe indistruttibile e il goffo guardone ma che sempre (per non essere “femminucce”) evitano la relazione empatica con l’altro e l’analisi di sé e della propria cultura maschile. Come dice Stefano Ciccone: “l’esperienza maschile è rimasta non detta, confusa con il sistema normativo patriarcale e con la sua rappresentazione storica” (Essere maschi. Tra potere e libertà, 2009). Come si può pensare di essere soddisfatti se ridotti a un ruolo stereotipato, imposto, funzionale a una struttura di potere antica? Sempre più uomini, infatti (come testimonia il lavoro svolto dall’associazione Maschile Plurale), esprimono un disagio verso il desiderio così come viene rappresentato e che ci è stato insegnato ad assumere, ad esprimere, a vivere nelle nostre relazioni.
Le posizioni reazionarie – che non hanno colore politico – che vorrebbero troncare sul nascere qualsiasi discussione e affermano che quei vecchi stereotipi rappresentano la natura, l’essenza, lo specifico maschile, parlano di un desiderio maschile universale, che ci accomunerebbe tutti nella stessa misura (confondendo a volte, manco a dirlo, desiderio maschile e rigida eterosessualità). In quest’ottica, chi è costretto suo malgrado a ridefinire il proprio ruolo sarebbe un “maschio in crisi” (come afferma il movimento Uomini 3000). Chi non si identifica in questa immagine non sarebbe tanto un uomo in cerca di modelli nuovi cui ispirarsi, bensì un maschio “pentito”, un uomo “tenero”, un “castrato”, un uomo che imita il desiderio femminile, come afferma Franco La Cecla (Il punto G dell’uomo. Desiderio al maschile, 2011), che ci dice che talvolta esistono anche rapporti stabili tra donne e questo tipo di uomini, ma costruiti su un’illusione, pervertendo la specificità maschile e imitando, nella relazione, una sorta di omosessualità femminile. Riesco finalmente a decifrare la presunta offesa di “lesbica” che Lorenzo Gasparrini, autore del blog Questo Uomo No, citava come una delle più significative tra quelle ricevute nei suoi interventi antisessisti in giro per la rete.
Questo ipotetico desiderio maschile originario sarebbe non solo omogeneo ma anche immutabile. Contro ogni senso comune, direi. Il desiderio cambia in modo evidente nella storia (si vedano ad esempio gli studi di Calvin Thomas) e anche nella vita di ogni individuo (altrimenti dovrebbero piacermi ancora le dodicenni, come quando avevo dodici anni), si forma in dialogo con tutto un insieme di stimoli, sociali e relazionali, positivi ma anche negativi: fin da piccoli, le qualità non virili sono stigmatizzate con tutta una serie di riti machisti di gruppo, violenze verbali pubbliche, appellativi offensivi, e le tendenze omoerotiche degradate, in giudizi privati e minacce, a perversioni, malattie, storture (fatti che fanno sistema con l’educazione che riceviamo in famiglia, sui libri di scuola, nei giochi, nei media).
Il desiderio e l’immaginario non solo cambiano, ma in questo processo il ruolo dei media è decisivo. Fin da adolescente notavo e commentavo con i coetanei maschi il cambiamento del nostro gusto già mentre si manifestava: cresciuti negli anni ’80 spiando i modelli di femminilità delle commedie sexy italiane dei ’70, sia per quelli che avevano resistito sia per quelli che avevano accolto il modello delle maggiorate-siliconate stile Drive in, l’arrivo delle top model anni ’90 fu spiazzante: quei corpi allampanati inizialmente non suscitavano desiderio. C’è voluto il tempo di guardarli e riguardarli. Poi arrivarono le modelle anoressiche. Lì il desiderio di molti maschi davanti alla TV subiva un altro shock iniziale: “Ma siamo sicuri? Mi deve piacere?”. Oggi, ascolto uomini colonizzati dall’immaginario pornografico che dimenticano che pochi anni fa si eccitavano al solo intravedere la peluria pubica femminile (ricordo anche le espressioni che usavano) e affermano adesso di trovare sgradevole se non ripugnante un pube e una vagina non completamente depilati.
È dunque evidente che, in bene o in male, consapevoli o meno, il nostro desiderio cambia nel tempo. Ma non appena volessimo appropriarci un minimo di questo processo, giudicarlo, criticando il modello patriarcale del desiderio maschile, si riceve sempre accuse di “moralismo”. Bisognerebbe, invece, rassegnarsi – che risate – perché non ci si può far niente, noi uomini avremmo un’immaginario intrinsecamente immorale e di cattivo gusto (Massimo Fini sconsiglia il suo Di(zion)ario erotico “alle femministe e agli stomaci troppo delicati”); il nostro desiderio sarebbe necessariamente capriccioso (“la voglia svanisce e il figlio rimane”), attratto solo dalla novità (“sarà la prima che incontri per strada/che tu coprirai d’oro”), scollegato dall’amore (“ho confuso il piacere con l’amore”), come cantava Fabrizio De André in alcune famosissime canzoni, che hanno esaltato questa concezione, ammantata di un seducente antiperbenismo, ufficializzandola anche negli ambienti progressisti e della contestazione. Il nostro sarebbe un desiderio superficiale e violento, senza possibilità di cambiamento – e dovrebbe anche piacerci così.
Queste posizioni non riescono a formulare un pensiero su alcuni elementi imprescindibili. Per prima cosa, non si può pensare che il desiderio sia completamente slegato dall’etica, dalla ragione, dalla personalità nella sua interezza. Il desiderio, come la risata (spesso pensata altrettanto liberatoria e immorale), non ci possiede “dall’esterno” ma dovrebbe esprimerci “dall’interno”. Così come, se non sono razzista, una battuta razzista non mi fa ridere, nel momento che la percepisco come tale, perché sbeffeggia una vittima, allo stesso modo non mi eccita pensare a una situazione in cui riconosco una dinamica di sopraffazione – almeno finché percepisco empaticamente l’altro, finché non lo rendo un oggetto (v. Chiara Volpato, Deumanizzazione. Come si legittima la violenza, 2011). Il desiderio, certo, non vuole restrizioni, ma perché deve essere “necessariamente immorale”? E perché questa immoralità, che potrebbe prendere infinite strade, nel desiderio maschile dovrebbe invece andare sempre nella direzione dell’umiliazione e del sopruso?
Ovviamente, perché se i sessi sono inseriti in una dinamica di potere, non si capisce come un elemento centrale tra quelli che ne definiscono le relazioni, il desiderio, dovrebbe non portarne traccia. Il desiderio maschile dettato dalla logica del patriarcato è infatti reificante, respinge l’empatia e la relazione ed è dominato da fantasie di controllo, di annullamento. In questa dinamica sfavorevole alla donna, essere maschi significa essere relegati dal proprio desiderio a oppressore simbolico, economico, fisico, psicologico, morale, sessuale. Un ruolo di potere ma non di libertà. L’indottrinamento mediatico entra in questo circolo vizioso potenziandolo, specialmente con l’immaginario della pornografia, un genere che non si limita a rappresentare la libertà dei corpi e del desiderio, ma che – tranne rarissimi casi – “sessualizza la gerarchia, l’oggetificazione, la sottomissione e la violenza” (definizione di Andrea Dworkin ripresa dall’Anti Porn Men Project).
Gli schemi rigidi del patriarcato non possono che portare il maschio eterosessuale alla contraddizione di percepire la donna come oggetto del desiderio e, per questo, pericoloso monito della propria ignoranza relazionale. Più la donna è desiderata, più è ridotta a nemico da distruggere. Tanto più perché ci sono due femminili: quello che il maschilista desidererebbe e quello che gli si pone realmente di fronte, come entità aliena con un desiderio irriducibile al suo. Nel tentativo di riduzione della donna a nulla, la relazione riemerge sempre, è impossibile, anche con i massimi sforzi, annullarla definitivamente (anche se le vittime possono essere molte). Ed allora ecco, per il maschilista, che alberga e aleggia pericolosamente dentro e intorno agli uomini, tornare il “mistero della femminilità”. Ad esempio, in una relazione, nell’ossessione del “lei avrà goduto?” che per converso riduce miseramente il nostro piacere relazionale alla “meccanica eiaculatoria” (Amelia Rosselli).
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