Da Alfabeta2 n15 Dic 2011
Intellettuali e potere, intervista di di Enrico Donaggio e Daniela Steila a
Ida Dominijanni
Ringraziamo Alfabeta2
Anche a te chiediamo, come ai nostri precedenti interlocutori, se, a tuo avviso, in una situazione di grande emergenza civile come quella italiana, esiste un compito dell’intellettuale.
Il compito dell’intellettuale è sempre lo stesso: interpretare il presente, demistificare il potere, aprire spazi di libertà praticando, e non solo predicando, libertà. Michel Foucault ne ha dato una raffigurazione perfetta nei suoi commenti al testo kantiano Che cos’è l’Illuminismo? Naturalmente è lo stesso Foucault ad averci messo in guardia una volta per tutte da una certa concezione idealistica dell’intellettuale che lo vorrebbe estraneo al potere, ricordandoci che se il potere è sempre armato di sapere, il sapere a sua volta ha sempre a che fare con il potere: perché lo esercita e perché non c’è intellettuale, fosse pure il più critico, che non sia situato all’interno dello stesso regime di verità e dello stesso ordine del discorso della sua epoca che il potere garantisce e presiede. Mi sembra un punto rilevante per la situazione italiana di oggi.
C’è un punto preliminare, però, da chiarire: quando parliamo dell’intellettuale di oggi e del suo compito, a chi ci riferiamo? Quale figura sociale abbiamo in testa? C’è una vasta letteratura che negli ultimi anni ha denunciato e lamentato la fine dell’intellettuale, facendo riferimento a una specifica figura del rapporto fra cultura e politica che ha percorso e illuminato il Novecento. Quella figura, si dice – penso alla ricostruzione che ne ha fatto Alberto Asor Rosa nel suo libro-intervista con Simonetta Fiori intitolato Il grande silenzio – ha resistito all’attacco mortale del totalitarismo fascista e comunista. Dopodiché si è spenta nel campo della destra, ma ha avuto la sua magnifica stagione a sinistra, nella doppia versione dell’intellettuale “organico” e “critico”. Quest’ultimo, attraverso ripetuti strappi con l’ortodossia (nel ’56, nel ’68, nell’89), ha mantenuto alta la funzione civile e politica di un pensiero autonomo, e tuttavia militante; schierato non tanto con un partito quanto con una parte, la classe operaia e i valori dell’emancipazione sociale e della democrazia. Dopo l’89, questa figura tramonta, insieme al mondo diviso in campi contrapposti, alla società divisa in classi, al partito della classe operaia, alle “grandi narrazioni” dell’emancipazione e della rivoluzione. Trionfa la “società montante” – così la chiama Asor Rosa – dell’omologazione conformista, della metafisica dell’apparire contro l’essere, della colonizzazione dall’alto dell’immaginario, della dittatura dell’audience, della “peste del linguaggio” di calviniana memoria. E in un tale scenario non ci sarebbe più posto per l’intellettuale e per la sua funzione critica e politica: l’intellettuale si estingue, come i dinosauri.
Ma è davvero così? Un destino segnato…
Penso che questa ricostruzione sia del tutto calzante e convincente per il passato (pur se non si interroga sulla rinascita, nell’ultimo ventennio, dell’intellettuale organico nel campo della destra), ma abbia gli occhi velati sul presente. Oggi non vedo affatto un’eclisse dell’intellettuale, ma una sua trasformazione che, lungi dal condannarlo alla marginalità, lo ricolloca al centro delle contraddizioni del sistema e del conflitto che ne consegue, o ne può conseguire. Ragionando in termini materialistici più che morali, il punto non è che oggi dell’intellettuale c’è più bisogno di prima perché più di prima occorre denunciare i misfatti del potere, spezzare il conformismo, alzare la voce dell’indignazione: dei “professionisti dell’indignazione”, come li ha definiti nella sua intervista ad Alfabeta Luca Rastello, diffido quanto lui, senza nulla togliere al ruolo positivo che hanno svolto nella lotta contro Berlusconi. Il punto è la centralità inedita che il lavoro intellettuale in ogni sua forma, dalle più garantite alle più precarie, dalle più qualificate alle più dequalificate, assume oggi nel capitalismo che, non a caso, definiamo “cognitivo”. Non sto a ripetere cose note sul ruolo decisivo assunto dalla conoscenza nel processo di accumulazione capitalistico. Mi interessa sottolineare (meglio di me lo fa Marco Bascetta, in un recente articolo su “Commons”) la contraddizione per cui più questo ruolo della conoscenza cresce, più ne viene compresso il valore, precarizzando le condizioni di vita della forza-lavoro cognitiva, abbassandone i costi di produzione e riproduzione e presentandoli come un peso parassitario che grava sulla società. L’anti-intellettualismo trionfante, il disprezzo per il “culturame”, la distruzione lenta ma inesorabile della scuola e dell’università si collocano su questa base materialissima. E su questa base partono le lotte per l’affermazione del valore e dell’autonomia della cultura e della formazione. Mi pare che questo potenziale si sia rimesso in moto da un paio d’anni a questa parte, e cominci a raccogliere i suoi frutti in termini di produzione di pratiche e saperi alternativi condivisi: basta pensare all’occupazione del Teatro Valle di Roma e ad altre mobilitazioni che ruotano attorno all’affermazione della cultura come bene comune.
In effetti, il movimento degli studenti nelle università, l’anno scorso, sembrava rivendicare un valore alto della cultura; sceglieva di farsi scudo simbolicamente di libri, difendendo – pur senza immediato successo – la necessità di una formazione non puramente tecnica o finalizzata alla carriera …
Questo infatti, secondo me, è un buon momento, dopo un trentennio di liberismo e di sistematica svalorizzazione della cultura. Io appartengo alla generazione cresciuta negli anni Sessanta, quando la cultura era un valore, per tutti: certo, era nelle mani della borghesia – all’epoca in Italia esisteva una borghesia illuminata, con in casa tutti i libri giusti che servivano a un’adolescente – – ma le classi subalterne volevano e potevano appropriarsene. Per i contadini e gli operai era un punto d’onore riuscire a mandare i figli a scuola e all’università; “operai e studenti uniti nella lotta”, lo slogan che accese il Sessantotto, non sarebbe stato possibile fuori da quella congiuntura; e io ricordo i corsi delle 150 ore all’università negli anni Settanta, con i metalmeccanici che spiegavano il ciclo produttivo a noi studenti di filosofia, come una delle tappe decisive della mia formazione. La deriva di svalorizzazione è cominciata negli anni Ottanta, e ha travolto anche i luoghi e le professioni più insospettabili, a cominciare dal giornalismo. I risultati li abbiamo visti: nella televisione berlusconiana o berlusconizzata, nel disinvestimento sulla scuola pubblica e sull’università. Adesso mi pare che la generazione dei ventenni, evidentemente satura di quest’annientamento, stia reagendo. Nelle mobilitazioni degli ultimi due anni la cultura viene rivendicata come bene comune, eredità, porta d’accesso al futuro.
In questo contesto, come concepisci il tuo ruolo di intellettuale donna, esperta di questioni di genere?
Sono una donna, forse un’intellettuale femminista, certamente non “un’esperta in questioni di genere”, e considero una iattura il fatto che le università, le commissioni pari opportunità, le burocrazie locali, nazionali e sovranazionali siano piene di “esperte in questioni di genere”: più precisamente, lo considero la rovina del femminismo come movimento politico sovversivo. Considero anche un segno del moderatismo dei tempi il fatto che il termine “genere” e la locuzione “di genere” abbiano sostituito, nel lessico politico e femminista corrente, il sostantivo “sesso” e l’aggettivo “sessuale”. Non c’entra niente a mio avviso, o c’entra molto poco e in modo distorto, l’annoso e complesso dibattito sul rapporto fra sex e gender che ha occupato per anni la teoria femminista di area anglofona. C’entra, molto più semplicemente, l’adozione di un termine, “genere”, che per un verso si percepisce più innocuo di “sesso” e “sessuale”, per l’altro si presta a ri-confinare continuamente le questioni poste dal femminismo, che sono generali, in un perimetro specifico e parziale.
Ma vengo al merito della vostra domanda, cercando di restituire un’esperienza. Non è che io abbia mai scelto di fare l’intellettuale femminista; né tantomeno ho mai pensato di occuparmi di una questione di genere specifica. Grazie a una strana e fortunata congiuntura, all’inizio degli anni Ottanta – in piena crisi delle ideologie di sinistra e in piena fioritura del pensiero della differenza sessuale – mi sono trovata a lavorare in un giornale come il manifesto nel quale, con un certo agio ma non senza ostacoli, mi è stato possibile cercare di fare reagire tra loro queste due tendenze: in una prima fase dando conto di quanto si produceva nel laboratorio femminista, in seguito tentando di interpretare la politica – tutta la politica, istituzionale e non, e soprattutto il cambiamento che attorno al termine ”politica” si sta giocando da decenni – con lo sguardo, le categorie, le curiosità, le impertinenze, la libertà guadagnate in quel laboratorio. Allo stesso modo, nei sette anni in cui ho avuto il piacere e l’onore di insegnare Filosofia sociale come docente a contratto all’università Roma Tre, il tentativo non era quello di fare un discorso di e sul genere, ma di porgere alle e agli studenti una certa pratica di produzione del pensiero sperimentata fra donne, e di interrogare il testo filosofico a partire dalla differenza sessuale. Che sì, secondo me ha a che fare con il ruolo dell’intellettuale: nel senso che non c’è pensiero che non sia incarnato in un corpo sessuato, che non sia portatore di una storia di genere (in questo caso il termine è giusto), che sia immune o immunizzabile dalle relazioni e dal conflitto tra i sessi. E non c’è intellettuale-donna che non debba rispondere, testimoniandola, alla domanda di libertà femminile aperta dal femminismo novecentesco: quello, per intenderci, cominciato con l’invito di Virginia Woolf a non accodarci, noi donne, “al corteo degli uomini colti”. In questo senso, il richiamo alle pratiche di autonomia e libertà di pensiero e di azione, se per gli intellettuali vale sempre, per le intellettuali vale il doppio: è qualcosa che dobbiamo all’epoca di libertà femminile in cui abbiamo avuto la fortuna di venire al mondo e di crescere.
Non ti sembra però che oggi in Italia si assista a uno spaventoso arretramento della condizione delle donne? Non soltanto si costruiscono e propagandano immagini avvilenti, ma sembra che le donne siano fortemente marginalizzate. Come mai, dopo anni di forti cambiamenti, il tema della presenza femminile sembra ridotto al fastidioso scrupolo di un politically correct di maniera? Cosa risponderesti a chi individua tra le cause di questa deriva anche un tratto di connivenza delle donne?
Vi sembrerò antipatica, ma questa domanda sì che a me pare politically correct! Da un paio d’anni – dall’esplosione del cosiddetto sex-gate berlusconiano, per l’esattezza – sembra sia diventata la premessa obbligata di qualsiasi discorso sullo stato dei rapporti fra uomini e donne: “c’è uno spaventoso arretramento della condizione delle donne”. Ma siamo sicure? Arretramento rispetto a che? Nessuna che, come la sottoscritta, sia nata prima del femminismo può avere un dubbio sul fatto che la situazione delle donne italiane, dagli anni Sessanta in avanti, è straordinariamente migliorata: nel rapporto con se stesse e le altre donne in primo luogo, e poi nei rapporti con l’altro sesso, in famiglia, nel lavoro, nella sfera pubblica, nell’espressione artistica di sé. Ovviamente non sto sostenendo che si tratta di un’epopea gloriosa e trionfante: dalla storia del secolo scorso abbiamo imparato una volta per tutte che non esistono magnifiche sorti e progressive di nessuna rivoluzione, e che ogni cambiamento è soggetto a passi falsi, regressioni, reazioni, processi di rivoluzione passiva. Ma a me pare che storicamente considerato, il trend, come si dice, del mutamento femminile innescato dalla rivoluzione femminista sia positivo, e anche il saldo. Il problema vero, duro, è che non c’è stata una risposta maschile adeguata a questo cambiamento: da qui la misoginia imperante, a destra e a sinistra, l’arroccamento maschile sul potere, le vendette di un patriarcato morente, il linguaggio e le immagini avvilenti e quant’altro.
La tesi dello “spaventoso arretramento”, invece, di solito sottintende tutt’altro giudizio: il femminismo aveva innescato forti cambiamenti, ma ora siamo tornate indietro, per giunta con la “connivenza” di molte donne, ergo il femminismo ha fallito, o ha mancato le sue promesse. Domanda, mia stavolta: quali promesse? Di fronte a bilanci di questo tipo, alquanto misogini e sempre più ricorrenti nei media, la mia impressione è che si pensi al femminismo storico come a una sorta di assicurazione a vita per le generazioni successive. Come se insomma le sue conquiste fossero date una volta per tutte. Ma il femminismo non è mai stato una banca di diritti acquisiti: è stato e resta un movimento di pratiche di libertà. Che vanno rimesse al mondo continuamente. Il femminismo è conflitto, non garanzia. Talvolta, conflitto anche fra donne.
Insomma, quel che è mancato sarebbe una risposta maschile all’altezza …
Precisamente. La mia generazione l’ha sperimentato direttamente: la separazione delle femministe dalla politica “mista” fu un vero e proprio taglio, con il quale molti uomini – parlo anche di compagni per me tutt’ora irrinunciabili – non sono mai riusciti a fare davvero i conti, e al quale non hanno saputo dare una risposta adeguata. E mi pare che questo si possa dire, più in generale, per l’intera società italiana, una società fortemente strutturata sulla famiglia e i ruoli sessuali tradizionali, che è stata scossa in profondità dal femminismo senza riuscire a trasformarsi in modo conseguente. Altrove, in società come quelle anglosassoni che partivano da una minore rigidità dei ruoli sessuali e da una maggiore emancipazione femminile, la risposta al femminismo è stata di tipo egualitario. In Italia occorreva una risposta basata, per citare il titolo di un vecchio libro di Irigaray, su un’etica della differenza sessuale, sulla relazione tra i sessi come relazione di differenza. E’ una risposta che stenta a emergere, ma che si comincia a profilare: io sono abbastanza fiduciosa.
Sapresti indicare, su questa linea, delle risposte all’altezza, degli esempi concreti di buone pratiche maschili?
Sì, qualcuna sì. Il gruppo “Maschile plurale”, ad esempio, lavora già da molti anni sull’autocoscienza maschile, sul rapporto fra violenza e sessualità maschile, sul nesso tra crisi dell’identità maschile e crisi della politica. È un laboratorio che ha prodotto cose importanti, penso ai lavori di Marco Deriu, Stefano Ciccone, Alberto Leiss, Sandro Bellassai e altri. Mi pare di vedere inoltre un cambiamento di atteggiamento negli uomini più giovani, che hanno meno problemi a riconoscere autorevolezza femminile, o forse semplicemente non hanno conti in sospeso con le donne come le generazioni precedenti … Rimangono rari comunque, sulla scena pubblica, gesti visibili che segnalino una vera volontà di interlocuzione con le donne da parte maschile.
Emerge dalla deriva politica attuale un’immagine triste e preoccupante del potere maschile, anche a prescindere dai comportamenti dell’attuale capo del governo. Eppure gli uomini, con alcune eccezioni – anche importanti – sembrano preoccuparsene poco …
Non so dire se se ne preoccupano, certamente per lo più non la sanno analizzare. S’è visto benissimo anche durante l’esplosione del sistema berlusconiano di scambio fra sesso, denaro e potere: nessun uomo pubblico è riuscito a dire una sola parola dotata di senso sul rapporto fra le esibizioni sessuali di Berlusconi e la sua concezione della sovranità. È un atto mancato non da poco, nella sinistra istituzionale. Dove il massimo che abbiamo ottenuto è stata l’offerta tardo-paternalistica, o tardo-cavalleresca, dei dirigenti del Pd che scendevano in piazza – cito testualmente – “per difendere la dignità delle nostre mogli e delle nostre figlie”. E la dignità delle altre? E la loro dignità? La dignità degli uomini, a me pareva ben più compromessa della nostra dai comportamenti di Berlusconi. Ma su questo, non una parola: come al solito, su di sé gli uomini tacciono. Per fortuna però in quella circostanza ci sono stati anche alcuni uomini che, proprio a partire dal rapporto sesso-potere, hanno parlato e scritto con autenticità della “questione maschile”. E questo, secondo me, è stato uno dei guadagni più importanti dei mesi che abbiamo alle spalle.
Dove e come intervenire per ampliare questi positivi segnali di cambiamento? Le potenzialità ci sono, gli ostacoli anche.
C’è un’enorme presenza femminile nelle sedi di produzione della cultura, nella scuola, nelle università; ci sono moltissime firme femminili nei giornali, nella letteratura, nel cinema, nel teatro. Cos’è allora che non funziona? C’è un’evidente strozzatura al livello del potere, dove la misura resta maschile, per effetto di tre fattori concomitanti: 1. il potere non ama le donne; 2. le donne non amano il potere, ragione per cui ritengo di corto respiro le rivendicazioni paritarie che non tengono conto di questa disparità di desiderio; 3. in Italia restano fortissime le reti di complicità maschile. Fortissime, e inspiegabili a occhi diversi dai nostri. Conosco amici, compagni, militanti di movimento di area anglofona, che quando vengono in Italia guardano supefatti cose che a noi sembrano purtroppo naturali: interi palchi, culturali e politici, tutti composti di uomini. Questo è veramente un fatto molto italiano che altrove non si verifica. Altrove c’è più curiosità e meno aggressività per i percorsi femminili, non un ossequio politically correct ad avere la donna di turno, quasi mai più di una e spesso neanche quella, da esporre sui suddetti palchi. Altro esempio, la strategia delle citazioni, che com’è noto è rivelatrice della struttura interiorizzata dell’autorità: in quale altro paese al mondo il pensiero femminista viene ignorato o viene evocato con la vaghezza di un riferimento collettivo, negli stessi testi in cui si spacca il capello in otto per distinguere le posizioni maschili? Altrove le pensatrici è d’obbligo citarle una per una e per nome e cognome.
Si potrebbe dire che l’esclusione delle donne dalle posizioni di potere somigli un po’ a quella dei giovani dai medesimi ambiti: una gerontocrazia e una complicità tra uomini che esclude giovani e donne.
È un tema classico: Carla Lonzi già negli anni ’70 parlava di un’alleanza tra il giovane e la donna contro il patriarcato. Rimane però che poi, spesso, la chiusura ai giovani si riassorbe in un percorso di apprendistato alla virilità adulta, che purtroppo passa ancora per la riproduzione delle conventicole maschili. Mentre nelle donne l’esclusione, e prima dell’esclusione l’estraneità rispetto al fra-uomini, è un dato permanente. Rispetto al quale però la costruzione di relazioni fra donne è fonte di agio e riconoscimento.
Alla luce di tutto questo è ancora plausibile immaginare una differenza virtuosa delle donne?
“Virtuosa”? È incredibile come alle donne – e del resto a tutti i soggetti che si liberano da una condizione storica di oppressione o di secondarietà – si richieda sempre, istintivamente, un supplemento morale! Ma noi non abbiamo mai inteso la differenza sessuale come una differenza necessariamente “virtuosa”. La differenza fra i sessi – e dunque: differenza femminile, ma anche differenza maschile – è un significante aperto, che bisogna leggere per come opera in contesto. E non è un corredo naturale di virtù o di buone intenzioni: è il risultato politico di una presa di coscienza, che nelle donne ha significato lotta al patriarcato e al fallo-logocentrismo. Naturalmente, scommettiamo tutte che ne venga fuori qualcosa – anzi, pensiamo che ne sia già venuto fuori qualcosa – di meglio rispetto agli assetti attuali delle nostre società. Il che non esclude affatto comportamenti femminili pochissimo virtuosi, o omologati, come si diceva un tempo, al “maschile come valore dominante”. Di più: la differenza sessuale stessa è una posta in gioco a rischio, in un mondo che tende all’omologazione e alla neutralizzazione di tutto. Più che mai dunque il discorso della differenza si conferma per quello che da sempre è: non un dato né una dote, ma una scommessa e un campo di conflitto politico.
E’ un punto importante, che merita qualche chiarimento ulteriore.
La richiesta del supplemento morale agisce sempre nei confronti delle classi e dei gruppi che si ribellano a uno stato di oppressione o di secondarietà. Anche agli operai è sempre stato richiesto di essere virtuosi, di essere democratici, di farsi carico dell’interesse generale, così come ai movimenti si richiede sempre di avere un progetto, di non essere violenti, di rendersi compatibili con l’ordine costituito. C’è bisogno di ricordare le litanie che scattano ogni volta che una manifestazione non usa i guanti gialli? Nel caso delle donne c’è qualcosa di più, perché le aspettative salvifiche nei nostri confronti riflettono una ambivalenza tipica dell’immaginario maschile, che tradizionalmente oscilla fra un fantasma minaccioso e una fantasia salvifica della donna, l’uno e l’altra poco rispondenti alle donne reali. È l’ambivalenza del figlio verso la madre che si riproduce su scala sociale.
Ma la differenza sessuale agisce al di là, o meglio al di qua, di un contenuto morale. Provo a fare degli esempi. Prendiamo le “Olgettine” del Ruby-gate: non sono di certo delle campionesse di comportamento morale, eppure, volenti o nolenti, da complici sono diventate controparti di Berlusconi. Facevano differenza, ad esempio, nel modo di parlare: il chiacchiericcio telefonico, il raccontarsi tra loro quel che succedeva in quelle feste, i loro giudizi confidenziali ma spietati sul padrone di casa, hanno finito con l’avere, persino al di là di ogni intenzione, un effetto scardinante sul linguaggio del potere di Berlusconi, così rotondamente volto al nascondimento della verità. Un altro esempio, Nafissatou Djallo, la cameriera guineana che ha accusato di stupro Dominique Strauss Khan: a un certo punto s’è scoperto che in passato aveva mentito per ottenere un visto, e questo è bastato per considerarla inattendibile tout court e screditarla, come se una donna, per essere credibile come vittima di stupro, dovesse esibire un certificato di irreprensibilità, che agli uomini non viene mai richiesto. Terzo e più eclatante esempio, le immagini di qualche anno fa sulle torture perpetrate dalla soldatessa americana Lynndie England sui prigionieri di Abu Ghraib: lì finì qualsiasi illusione circa una differenza virtuosa delle donne, quei comportamenti erano altrettanto immorali, se così vogliamo dire, di analoghi comportamenti maschili. Eppure anche in quel caso c’era da interrogarsi sul perché di quel prigioniero incappucciato tenuto al guinzaglio da una donna: mimesi femminile del maschile? “Vendetta” femminile sulla violenza maschile? Effetto perverso dell’emancipazione-omologazione femminile? Potrei continuare, ma quello che voglio dire è che, contrariamente a una certa vulgata approssimativa, il pensiero della differenza sessuale non rinvia a una essenza femminile in sé virtuosa, o almeno io non lo intendo così. Rinvia, lo ripeto, alla differenza come significante aperto e operante in contesto, che va analizzato per come opera di volta in volta, senza l’ansia di appiccicargli dei contenuti eticamente probanti.
Arriveresti a generalizzare questa tua tesi sostenendone la validità per ogni soggetto subalterno che si ribella? O ti sembra una specificità delle donne?
Sarei abbastanza tentata di generalizzare. Mi sembra che questa faccenda del supplemento morale abbia a che fare col fallimento delle grandi narrazioni rivoluzionarie novecentesche: l’investimento di una pretesa salvifica sull’”uomo nuovo” ha finito col generare dei mostri.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a uno scivolamento del significato di alcune parole che, dopo essere state usate per rivendicare diritti, sembrano ora ritorcersi contro chi le aveva sostenute. Mi riferisco, per esempio, al tema della libertà di disporre del proprio corpo che, lungi dall’essere un dato acquisito, viene oggi schiacciato sull’argomento, tutto diverso, della libertà di vendere il proprio corpo in cambio di posti e carriere. Toccherebbe agli e alle intellettuali rimettere le parole al loro posto?
Il rovesciamento di significato dell’intero lessico politico è stato il segno più evidente del cambio di egemonia che ha contrassegnato il trentennio neoliberista in Occidente. Il termine “libertà” ne è stato investito in pieno, quanto e più di altri: la libertà di mercato ha soppiantato quella politica – tutto il berlusconismo, in fondo, è racchiuso in questa parabola. All’interno di questo capovolgimento si spiega perfettamente che la libertà collettiva e politica guadagnata dalle donne col femminismo si sia rovesciata, nella testa di qualcuno e anche di qualcuna, nella libertà di collocarsi variamente sul mercato. Sono gli effetti collaterali, chiamiamoli così, dell’ideologia del capitale umano, secondo la quale ognuno è libero imprenditore, o imprenditrice, di se stesso/a. Ma sul fronte della libertà, del senso della libertà, la battaglia è aperta e non a caso si gioca in larga parte sulle donne, che sono contemporaneamente oggetto privilegiato delle strategie di mercificazione e soggetto non piegato di pratiche di libertà politica ed esistenziale. Quanto al ruolo degli/delle intellettuali in queste battaglie sul significato delle parole, è chiaro che essi possono e devono vedere, prevedere, avvertire, vigilare, e di più: combattere quotidianamente una “guerriglia linguistica” sulle piegature del senso, o in altri termini la battaglia per l’egemonia sui significati. Ma è altrettanto chiaro che alla fine, a decidere la piegatura che le parole prendono, sono le lotte e i comportamenti collettivi. “Noi la crisi non la paghiamo” decide del senso della parola “debito” più di mille messe a punto concettuali.
Ma in che modo e con quali forme possibili si stabilisce, nel caso ciò avvenga, il contatto tra la critica dei concetti – il compito dell’intellettuale – e i movimenti?
È la domanda delle domande. Come si attiva il circolo virtuoso tra il linguaggio e la realtà? Come accade che si accenda, diceva Calvino, “la scintilla che sprizza dallo scontro delle parole con nuove circostanze”? E’ molto misterioso, in verità. Possiamo però chiederci come fare del linguaggio una pratica di trasformazione, come fare tesoro politico di tutto ciò che sappiamo del linguaggio, della sua performatività, della sua capacità di produrre, non solo di rappresentare, la realtà. Che è poi il cuore di quella che il femminismo della differenza italiano ha chiamato “politica del simbolico”. Io so dal mio lavoro che la parola ha una grandissima capacità di aprire il senso, di spostarlo, e che per questo vada usata con grande cura; perché un uso sciatto delle parole non fa che confermarne il senso dominante, o anche il non-senso, o spessissimo il piatto senso comune. E penso che questa apertura di cui le parole sono capaci abbia molto a che fare con l’autorizzazione a gesti di libertà. Aprire l’orizzonte del dicibile è anche un’autorizzazione a compiere gesti liberi che scardinano l’ordine delle cose. Per esempio, quando nel femminismo abbiamo cominciato a insistere più sulla libertà che sull’oppressione femminile – e naturalmente non perché pensiamo che l’oppressione sia risolta – il fatto che la nostra libertà fosse dicibile, fosse nominabile e nominata, è stata anche un’apertura di possibilità perché fosse agita, cioè perché le donne non si sentissero più imprigionate nella definizione di oppresse, ma anche libere di uscire da quella prigione linguistica e materiale. Questa operazione, l’apertura di spazi materiali di libertà attraverso lo spostamento di senso di cui il linguaggio è capace, è sempre possibile. Per questo credo tanto al fatto che l’intellettuale non sia superfluo …
Sembra però che a volte, per farsi sentire, diventare efficaci sul piano politico, gli intellettuali rischino compromessi, al limite asservimenti. D’altra parte l’autonomia delle posizioni pure, spesso si paga con l’irrilevanza. È l’alternativa che Zagrebelsky poneva nei termini: “liberi siamo superflui, utili non siamo liberi”. Cosa ne pensi?
Torno al punto che avevo lasciato in sospeso all’inizio: l’intellettuale non esiste al di fuori della rete di poteri-saperi e del regime di verità in cui vive. Come potrebbe dunque non rischiare compromessi? Altro è il discorso dell’asservimento che nega la ragion d’essere dell’intellettuale, ne fa appunto un servo, un ideologo, un portatore d’acqua. Tuttavia io preferirei impostare diversamente la questione, e parlare di pratiche del lavoro intellettuale, perché è dalle pratiche che passa, o non passa, un contenuto di libertà e un messaggio di cambiamento. E qui il discorso si fa ruvido. Per esempio: quante modalità del berlusconismo sono state interiorizzate dall’antiberlusconismo? Quanta retorica leaderista e populista c’è in molti sinceri e frontali oppositori del leaderismo e del populismo di Berlusconi? Quanta libertà e ossequio del potere ci sono nelle redazioni dei media che militano contro Berlusconi, o nelle università in lotta contro la riforma Gelmini? Un altro esempio, a partire dalla mia esperienza: quando ho cominciato a lavorare ne il manifesto, a un direttore si chiedeva di svolgere una funzione di orientamento politico e culturale; ora gli si chiede, dal basso, capacità di comando e decisione. E gli si dicono, al direttore di turno, molti meno no di un tempo.
Quanto alla formula, suggestiva, di Zagrebelsky, non sarei tanto d’accordo e gli chiederei: “superflui” e “utili” rispetto a che? Se il metro di misura è quello del potere, o del cambiamento del potere, certamente la sensazione di superfluità delle posizioni autonome c’è: il potere costituito – politico, mediatico, economico – non sembra esserne toccato. L’“utilità” dell’intellettuale però non si misura così, ma sulla presa di coscienza di chi sta contro il potere, e sulle crepe, gli spostamenti, le aperture di senso che riesce a introdurre nell’ordine del discorso corrente. È un lavoro duro, quotidiano e interminabile, certo. Ma ha la sua efficacia, e può dare anche molta felicità.
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