di Francesco Sani
Quando mia figlia non era che un’idea, e ancora non sapevo se io e la mia compagna saremmo mai diventati genitori, ad alcune persone cercavo di confidare i miei pensieri: cosa ne sarebbe stato della vita di coppia, dell’intimità costruita negli anni, del tempo per essere insieme? Non avevo tanto paura di affrontare la genitorialità, ma piuttosto che il rapporto di coppia cambiasse: cominciammo a provare ad avere figli dopo quattro anni di vita insieme, ed avevamo ancora tantissime cose non dette, non fatte, non scoperte insieme che, con la futura nascita di un/a figlio/a, sarebbero dovute inesorabilmente scivolare in un lontano futuro in cui non saremmo più stati una fusione a due, una mente con due corpi, ma scissi dalla prepotenza di una nuova vita, con tutte le sue esigenze.
Chiedevo agli amici, alle amiche, in famiglia; cercavo sui siti e sulle riviste; le parole che mi venivano incontro non rappresentavano le mie ansie di padre, cariche com’erano di auguri, di auspici, e di complimenti, con tutti che dipingevano un’esperienza appagante, magica, e fondamentalmente positiva: nessuno ascoltava seriamente le mie paure, ed io non volevo che famiglia ed amici/che pensassero male di me per aver introdotto toni negativi nelle nostre conversazioni in merito. Volevo mostrarmi entusiasta e raggiante, ma al tempo stesso volevo essere ascoltato come persona in procinto di affrontare la genitorialità per la prima volta nella sua vita.
La cosa che stava maturando in me, uomo ormai quasi quarantenne, era la consapevolezza che il mondo non mi avrebbe dato gli strumenti culturali adatti al mestiere di padre: mi avrebbe sì e no concesso qualche giorno di congedo dal lavoro, e poi sarebbe tutto tornato come prima; non vi sarebbero stati, per me, gruppi di supporto per novelli padri, né tantomeno l’ambiente clinico si sarebbe occupato di me dal punto di vista della mia salute mentale. Sentivo un gran vuoto intorno a me, con la società intera volta al percorso di futura madre della mia compagna, ma non al mio percorso di futuro padre, con tutte le differenze del caso: questo mi angosciava, perché mi sentivo solo, profondamente solo, consapevole di essere in procinto di fare una scelta fuori dal coro; avrei lasciato il mio lavoro prima che nascesse il/la mio/a futuro/a figlio/a, e mi sarei organizzato in modo di lavorare il meno possibile e con orari flessibili, così da poter accudire il/la neonato/a al mio meglio, e potermi chiamare genitore a pieno titolo.
Mia figlia nacque: ero lì prima, durante, e dopo; furono momenti intensi, difficili, e poi quando finalmente venne a casa quattro giorni dopo allora, solo allora, cominciai ad essere padre. Essendo all’estero, avevo anche il desiderio d’insegnarle l’italiano: solo essendo con lei per ore, ed ore, ed ore ogni giorno avrei potuto far sì che questo si avverasse; e le ho parlato italiano dal primo giorno, e ancora oggi che sta per compiere otto anni, ci parliamo in italiano, io e lei soltanto, e sento la vicinanza di una vita che ho accudito io stesso dall’inizio, ora dopo ora, giorno dopo giorno, e che negli anni si rafforza. Posso dire a mia figlia tutto quello che ho visto di lei quando di sé lei ancora non aveva coscienza: posso dirglielo essendovi stato io stesso, avendola seguita passo dopo passo, dalla prima parola ai primi pasti solidi e a tutto il resto; questo è un patrimonio condiviso tra noi, unico e prezioso, di cui le rendo memoria di volta in volta che cresce e chiede di sé neonata.
Essere padre come lo sono stato, e come lo sono, è un percorso controcorrente: la società ti rimanda immagini di padre-lavoratore, di padre-protettore, ma raramente di padre accudente o che, fuori dai riflettori e dai complimenti, si occupa quotidianamente e responsabilmente della cura del/la neonato/a e dell’ambiente domestico; il padre, ancora oggi e forse sempre, viene interpretato come figura aggiuntiva alla madre, un’appendice che esiste in una zona d’ombra fuori dalla domus e che ne condivide solo in minor parte il carico amministrativo. Noi padri che scegliamo un percorso fuori genere e controcorrente, non avremo alcun ringraziamento, alcun premio, e molti penseranno che saranno state le madri dei/lle nostri/e figli/e ad averli/e cresciuti/e: quasi non saremo creduti e dovremo comunicare a tutti/e quelli/e che esprimeranno questi luoghi comuni quale sia stata la nostra scelta, e le enormi soddisfazioni umane e morali che ne abbiamo tratto; questo diventa a volte un carico troppo forte, un doversi ripetere che risulta estenuante, un doversi ritrarre come ‘padri modello’ da cui ci dissociamo, e accade pertanto che molti di noi lasceranno fare, e finiranno per non contraddire più gli ennesimi stereotipi suoi ruoli genitoriali che svariate persone ci riverseranno addosso nei mesi e negli anni a venire.
Crescere un/a figlio/a non è un gioco: occuparsi della cura del corpo dell’infante come del benessere psico-fisico del/la bambino/a in età scolastica sono responsabilità quotidiane, impegni imprescindibili ed inevitabili, l’assumersi dei/lle quali comporta profondi cambiamenti in noi e nelle nostre funzioni sociali; dal momento in cui l’ambiente sociale e lavorativo non riconosce che i padri debbano svolgere le funzioni di genitore propriamente dette, allora non creeranno le opportunità affinché essi possano avere il tempo e lo spazio per scoprirsi genitori, per acquisire le necessarie competenze pratiche ed emotive e per imparare il mestiere di genitore come da secoli hanno avuto la possibilità di farlo, per scelta come per obbligo sociale, le madri.
Questa scissione sociale tra il padre novello ed il/la figlio/a che ha appena visto nascere, come se la sua figura genitoriale fosse un qualcosa di troppo ingombrante, di affatto estraneo al sano funzionamento della nuova famiglia, comporta un isolamento mentale del padre dai/lle propri/e figli/e: egli ne sente la responsabilità morale ed affettiva, ma ne è al contempo escluso; il mondo circostante gli rimanda immagini di padre autorevole e severo, di padre che provvede al bilancio famigliare, ma non di padre che, semplicemente, cerca di mettere la figliolanza in primo piano ed il lavoro in secondo, ovvero che scelga la cura della famiglia come ambito di lavoro centrale ed il lavoro al di fuori dell’ambito domestico come ambizione secondaria.
Per me, la scelta di abbandonare un ambiente lavorativo che non concedesse tempo o flessibilità a me da futuro padre, fu la migliore che potessi fare: solo questa, fatta di paura e di angoscia come di entusiasmo e speranza, ha permesso a me e mia figlia di decidere NOI quali modelli vogliamo interpretare, quali ruoli vogliamo darci nel mondo; ho rifiutato la figura del padre-lavoratore, pressoché estraneo alla cura della figliolanza e della casa, per scoprire io stesso la fatica, la stanchezza, ma anche l’appagamento del poter fare il genitore come ognuno dovrebbe avere l’opportunità di farlo. Sono stato fortunato perché, per molti padri, queste scelte rimangono tutt’oggi improponibili: la società ed il mondo del lavoro li spinge ad altro, ovvero a lavorare ancora di più quando diventano padri; questa, per me, è una vera ingiustizia che si compie sugli uomini, costringendoli al ruolo di padri-appendice, assenti ed estranei a quella cura quotidiana ed estenuante che restituirebbe loro momenti assolutamente imperdibili di scoperta, di crescita personale ed emotiva, di maturazione di un io diverso.
Spero che il mondo cambi e capisca quanto potrebbero dare i padri, quale patrimonio nascosto potrebbero regalare ai/lle loro figli/e se solo si concedesse loro il tempo di farlo.