Un’opera di Louise Bourgeois (1911-2010)
Apr 2012
“Ore trascorse con la madre che muore”
di Gian Andrea Franchi
Altri frammenti di una sua “filosofia biografica” sono “Vulnerabilità“ e “Donde vengono le emozioni“
Perché di morire si tratta. Anche se non è moribonda. Anche se non è l’agonia in senso proprio, in senso forte o nel significato clinico. E’ una vecchiaia estrema che è forse entrata in una fase in cui vivere assomiglia all’intermezzo drammatico, fra un dormiveglia e l’altro – l’ordine simbolico che definisce la realtà si scioglie lentamente come una banchisa polare in estate.
E’ qualcosa di meno e qualcosa di più di un’agonia.
Qualcosa di meno, perché manca la sofferenza fisica evidente, le stigmate dell’agonizzante.
Qualcosa di più, perché l’evidenza del finire è nella sofferenza mentale e psichica (anche se tali categorie sono riduttive): una sorta di paralisi, come di chi tentasse di fuggire girando in cerchio di fronte ad un pericolo estremo.
In questo lento calvario la madre ha trovato un linguaggio e un comportamento che enunciano l’impossibilità di comunicare quello che sta vivendo.
Il linguaggio è il continuo suo mormorare “aiuto”, spesso quasi impercettibile, come detto a se stessa, come se sapesse che nessuno la può aiutare. Non è la richiesta di alleviare sofferenze, che non ci sono (se non in misura molto modesta e discontinua). E’ un’invocazione irricevibile. Talora culmina in un lapidario “è impossibile!”.
Che cosa è impossibile? E’ chiarissimo, netto come certi aforismi di grandi scrittori o filosofi: non è possibile accettare la morte. Perché la morte è inesperibile, impensabile.
Il comportamento è l’insonnia. Di giorno e di notte, con brevi pause di sonno filato, da cui si sveglia agitata, è una lotta continua con il sonno che sale come una marea interna a sommergere qualcosa che resiste … gli occhi si chiudono, crolla la testa sul petto, pochi secondi o pochissimi minuti, raramente di più, ed è uno scatto, gli occhi si riaprono, si avventano sul libro rimasto sulle ginocchia o guardano intorno … il mondo le si sta sfaldando … chissà … Nessuno può saperlo. Nei momenti lucidi, sono brevi conversazioni sul filo convenzionale del linguaggio. Ma le sue vere parole sono le altre, quelle per cui non c’è nessun ‘tu’.
E’ stato detto da molti che si muore soli. L’essere umano esiste solo in relazione: la solitudine è una forma negativa di relazione, è la sua perdita.
Mi vengono delle immagini per raffigurare quel che sento di lei. Una figurina su di una spiaggia di fronte a un immenso mare oscuro o seduta al bordo di un abisso su di un piano che lentamente s’inclina…
L’altra notte ho fatto un salto da lei per vedere come andassero le cose … era compostamente seduta sul letto in camicia, con i piedi a terra, nella stanza debolmente illuminata, intenta fissare il libro sulle sue ginocchia…
Il libro sembra ciò a cui si aggrappa nel venir meno di ogni usata amante compagnia … forse la pagina bianca ricoperta dai segni composti nell’ordine simbolico della scrittura le danno il sentimento dell’ordine del mondo, di un ordine di contro al caos in cui si sente sprofondar nel sonno, nel dormiveglia in cui il mondo si scompone… forse oramai, almeno in questi momenti, la pagina scritta è quasi come un geroglifico sacro, simbolo d’ordine, appunto, di equilibrio, come nella Kabbalah…
Mi viene in mente che questo lento morire, che tante angustie e tanti problemi dà ai figli e non da poco tempo (ma in realtà non è lei, è il voluto disfacimento di ogni organizzata solidarietà pubblica), è anche un dono che nostra madre ci fa, permettendoci di assistere non a un’agonia cieca o stravolta dai dolori, deformata, ma al finire della vita. Ci consente un’elaborazione del suo morire che è anche il morire, il finire, di una parte di noi figli, di una parte in comune e quindi un’elaborazione del rapporto fra di noi.
Ci mette di fronte alla paura della morte, che sembra un istinto di repulsione dal vuoto. Nel processo del morire sembra denudarsi l’impersonale istinto di sopravvivenza che condividiamo con tutti i viventi, per cui morire appare come un’impossibilità. Ma l’impossibile, l’impensabile e l’inimmaginabile, non è il morire – il verbo, il tempo del morire – è il sostantivo, la morte in quanto tale. Quando la filosofia era una pratica di vita – una cura di sé – e non una professione accademica, Epicuro, nell’Epistola a Meneceo, diceva: “nulla è per noi la morte, perché ogni bene e ogni male è nell’aisthesis”, cioè nel sentimento della vita, “quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte, non ci siamo noi”.
Quel che si mostra, quel che viviamo è il processo del disfarsi della vita, del tessuto connettivo biologico, ma soprattutto culturale: l’incomunicarsi delle emozioni, il disfarsi dell’ordine simbolico che tiene insieme il tempo e lo spazio, che fa del vivere umano un essere in un mondo (kòsmos). Mi vengono in mente le complesse fantasmagorie del cosiddetto Libro tibetano dei morti (Bardo Thödol) in cui è descritta la disgregazione immaginale del mondo (nelle cui fessure però il saggio buddista può insinuare la sua liberazione). E’ su quest’impossibile annientante che le religioni innalzano i loro templi e le loro teologie – il loro potere.
La parola “madre” rimanda all’inizio della vita, alle prime percezioni del corpo all’evento innominabile dell’inizio – alla lingua materna.
All’inizio noi non possiamo esserci, anche se l’inizio ci segue e c’insegue sempre. Talora ci perseguita. Non possiamo esserci nemmeno alla fine ultima, alla morte, ma solo e necessariamente a quel morire, che è parte integrante della vita. L’esistenza esiste fra due necessità impensabili e determinanti.
Se la morte è impensabile, il morire è parte integrante della vita: è il finire. Finire implica iniziare: non c’è l’uno senza l’altro. Iniziare e finire sono la base del simbolico, del pensiero, cioè del fare ordine e dare senso: fare mondo. Finire rimanda al non esserci più, all’assenza. Pensare l’assenza è stabilire un rapporto fra l’assenza e la presenza, cioè articolare, pensare, il tempo.
Pensare, quindi esperire veramente la presenza, significa anche capacità di sopportare l’assenza. Morire/finire e (ri)nascere/iniziare sono il tessuto stesso dell’esistenza. Entrambi sono attivi alla nascita, non solo per il rischio che essa può comportare, ma anche perché nascere è finire l’importantissima fase prenatale, è passare da un tipo di vita ad un’altra.
Se finire e iniziare sono alla base dell’esistenza, la fine ultima, invece, la morte, così come la nascita, è impensabile. Ma il dolore per la morte è importante per coloro che sono ancora in vita e vivono l’assenza definitiva dell’altro. La morte dovrebbe essere uno dei culmini del simbolico sociale, di quei riti che sono o dovrebbero essere indispensabili per una condizione sociale non alienata.
Nelle civiltà tradizionali e anche in Europa fino alla modernità, esisteva una ritualità collettiva intorno alla morte, certo, secondo i modi delle istituzioni religiose, che da questo traevano potere. Ciò ha comunque consentito di parlare scrivere raffigurare il processo del morire. Nella società contemporanea è ridotto invece a iter ospedaliero, a funesto accidente, incidente, a senilità tecnologicamente protratta, perché vivere è ritenuto necessario oltre ogni senso della vita, come è necessario produrre oltre ogni utilità.
Il senso dei rituali religiosi sulla morte era di ristabilire l’unità fidente del gruppo sociale ed elaborare il lutto. E’ quel che ci manca – radicalmente. La nostra civiltà, che cerca nel denaro il senso della vita, ha rimosso la morte e anche per questo produce continuamente morte. Sta oggi attentando alla stessa radice della vita.
Non si tratta certo di auspicare un ritorno artificioso a rituali religiosi, come molti, soprattutto negli ultimi decenni, tentano, in modi sterili o violenti, ma di cercar di immaginare-pensare forme di accettazione, di accoglimento della finitezza della vita umana come condizione dell’unicità di ogni singolo.
giugno 2008 – aprile 2012
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